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3 giugno 2016

 

Ambiente, 1.746 guerre «invisibili»

di Lucia Capuzzi

 

Il “nemico”, negli Stati indiani dell’Orissa, Jharkhand, Chhattisgarh, sono i minerali, in primis bauxite e carbone. Gli ingenti giacimenti intrappolati nel sottosuolo hanno attirato, da anni, lo sguardo famelico dei colossi minerari mondiali. Le terre delle comunità “adivasi”, abitanti millenari della regione, sono finite nel mirino. La lotta di questi ultimi per difenderle ha provocato il pugno di ferro delle autorità locali, complici delle compagnie.

 

Quello in corso nell’India orientale è solo uno dei 1.746 conflitti ambientali attualmente aperti nel mondo. In Niger, gli abitanti combattono contro l’uranio, prodotto al ritmo di 100mila tonnellate in sette anni. Nella vicina Nigeria, si svolge la battaglia del petrolio, la cui estrazione ha già causato 10mila perdite nel Delta. La cifra – calcolata dall’Atlante globale per la giustizia ambientale – è approssimata per difetto. La rete di studiosi internazionali – a cui partecipano 23 Università – non riesce ad avere informazioni esaustive ovunque. Ci sono alcuni “buchi neri” dell’informazione, come Cina, Sud-Est asiatico, Brasile e Messico, su cui gli scienziati continuano a lavorare nel tentativo di completare la mappa. Alla fine, potrebbero individuare oltre 3mila crisi.

 

GUERRE INVISIBILI.

Già, così, la situazione è drammatica. Due anni fa, quando il progetto è cominciato, si contavano 920 “guerre invisibili” per le risorse ambientali. Ora il numero è quasi raddoppiato. Un dato su cui riflettere a due giorni dalla Giornata Onu dell’ambiente che si svolgerà domenica. I conflitti ecologici sono la parte forse più sommersa della guerra mondiale a pezzi più volte citata da papa Francesco. Non è un’immagine metaforica. Si tratta di scontri reali, con tanto di vittime. Quelle dirette – o meglio, immediatamente percepibili dall’opinione pubblica –: gli attivisti assassinati, oltre 250 solo negli ultimi due anni, i tre quarti in America Latina. E quelle indirette: le popolazioni residenti nelle aree dove si concentrano le risorse nel mirino. Di fronte agli interessi miliardari in gioco, queste ultime – spesso con la complicità dei governi locali e nazionali – sono costrette a forme di resistenza eroica per difendere il loro diritto alla terra, all’acqua e all’aria pulita.

 

LA «FEBBRE» DELLE RISORSE.

«Assistiamo a un’escalation preoccupante dei conflitti socio-ambientali nelle cosiddette “frontiere dell’estrattivismo”, cioè territori dove si concentrano le risorse che, però, prima non subivano uno sfruttamento così intensivo», spiega ad Avvenire Daniela Del Bene, una delle coordinatrici del progetto. La ragione – continua la ricercatrice – è «l’ossessione per l’aumento della produzione e il consumo». In nome del profitto, si sacrifica l’esame attento dell’impatto socio-ambientale di un determinato progetto. Si produce, così, «una distorsione concettuale dell’economia», come ha sottolineato il Papa nell’enciclica Laudato si’. Il risultato è il moltiplicarsi delle crisi, che sono, al contempo, ambientali e sociali. «Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà – afferma Francesco –, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura».

 

LA MAPPA DELLE CRISI.

A colpo d’occhio, il Sud del mondo è il più interessato dalla “caccia alle risorse”. E, dunque, dai conflitti, che esplodono soprattutto nel momento dell’estrazione di queste e nelle aree rurali (63 per cento). Nei Paesi, più poveri, con un’economia poco industrializzata, la chiave sono le monocolture da esportazioni. Negli emergenti – come Brasile, India e Sudafrica – le riserve sono il motore del- la nascente industrializzazione. «In questi casi, intere aree – le cosiddette “periferie interne” – vengono impiegate come serbatoio per il centro, in nome dell’interesse nazionale. È ciò che accade, al momento, ad esempio, nell’Amazzonia brasiliana, o nell’arco himalayano, sfruttato dalle industrie idroelettriche di India, Nepal, Bhutan e Cina», afferma Del Bene. Le “guerre ambientali” agitano, però, anche il Nord del mondo, in cui il principale detonatore è il fracking. Questo provoca forti tensioni in Canada, Stati Uniti, Spagna, Gran Bretagna e Polonia. Il che spiega perché gli Usa si trovino al quarto posto della classifica realizzata dal-l’Atlante, con almeno 69 conflitti.

 

LE AREE “CALDE”.

In cima alla lista, si trova l’India, con 223 “guerre ambientali” in corso. Seguita dalla Colombia, con 117, e dalla Nigeria, con 73. Tredici su 15 delle nazioni più problematiche si trova nel Sud del mondo. Perché, se i conflitti esplodono ovunque ci siano risorse, là – causa di povertà e corruzione – è più difficile trovare soluzioni legali. «Le multinazionali godono di quasi totale impunità», conclude Del Bene. Eppure, ogni tanto, i Davide riescono a dar filo da torcere ai Golia contemporanei. È il caso delle 10 indigene del villaggio guatemalteco di Lote Ocho. Queste sono riuscite a portare a Toronto la causa contro il colosso minerario canadese Hund Bay, accusato di negligenza per non aver controllato le proprie guardie, responsabili dello stupro delle donne per costringerle ad abbandonare le terre nel 2007. Per la sentenza ci vorranno anni. Già il processo, però, è una vittoria inattesa per le dieci coraggiose di Lote Ocho.

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