Il socialismo è oggi una voce del movimento intellettuale e politico planetario che lotta per limitare l'espansione capitalistica nella vita personale e sociale. Riflessione avviata sul "Rasoio di Occam" intorno all'ultimo libro del filosofo tedesco. http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/ 13 aprile 2016
L'idea di socialismo di Axel Honneth
Pubblichiamo in anteprima, per gentile e gradita concessione della casa editrice Feltrinelli, la prefazione e l'introduzione dell'ultimo libro di Axel Honneth, "L'idea di socialismo". Il libro, tradotto in italiano da Marco Solinas, sarà nelle librerie a partire dal prossimo 5 maggio.
Prefazione Sono trascorsi meno di cento anni da quando il socialismo era un movimento così forte all’interno delle società moderne che pressoché nessuno dei grandi teorici sociali del tempo ritenne di potersi astenere dal dedicargli una trattazione dettagliata, talvolta critica talvolta invece fortemente simpatetica, ma sempre comunque attenta e rispettosa. Iniziò John Stuart Mill, ancora nel XIX secolo, seguito da Émile Durkheim, Max Weber e Joseph Schumpeter, per citare soltanto i più importanti; nonostante questi autori mostrassero grandi differenze quanto a convinzioni personali e programmi teorici, tutti però concordavano nel vedere nel socialismo una sfida intellettuale che avrebbe dovuto accompagnare il capitalismo per lungo tempo. Oggi la situazione è completamente diversa. Posto che nell’ambito dell’attuale discussione di teoria sociale il socialismo venga ancora menzionato, sembra sia ormai una convenzione quella di considerarlo alla stregua di un residuato bellico, di un sopravvissuto; non lo si ritiene infatti più in grado di riaccendere l’entusiasmo delle masse, né tantomeno di indicare delle valide alternative al capitalismo contemporaneo. Quasi in una sola notte – Max Weber si sarebbe stropicciato gli occhi, meravigliato –, due grandi antagonisti del XIX secolo si sono scambiati i ruoli: ora la religione sembra una promettente forza etica lanciata verso il futuro, mentre il socialismo è percepito come una creatura spirituale del passato. La convinzione che questo rovesciamento sia avvenuto troppo velocemente, e che non possa pertanto essere considerato come la sola e unica verità, è uno dei due motivi che mi hanno condotto a scrivere questo libro: nel prosieguo cercherò di dimostrare che nel socialismo vi è ancora una scintilla viva; per scorgerla bisogna però separare nettamente l’idea guida del socialismo dal suo guscio concettuale, radicato nel terreno del primo industrialismo, e trasporla in un nuovo quadro teorico sociologico. Il secondo motivo che mi ha indotto a sviluppare le riflessioni che qui presento è strettamente correlato alla ricezione del mio ultimo, voluminoso studio intitolato Il diritto della libertà.1 Nel corso delle numerose discussioni suscitate dal testo, non di rado ho dovuto sentire che il mio approccio metodologico all’orizzonte normativo della modernità tradirebbe invero chiaramente l’intenzione di non voler più aderire alla prospettiva critica di una trasformazione dell’ordine sociale dato.2Dove è stato necessario e possibile, mi sono già confrontato per iscritto con questa obiezione, al fine di spiegare che essa nasce da un fraintendimento dei limiti metodologici che io stesso mi sono consapevolmente imposto. Ho continuato tuttavia ad avere la sensazione di dover ancora mostrare che è sufficiente una piccola rotazione della prospettiva assunta in Il diritto della libertà perché essa venga a dischiudere la possibilità di articolare sul piano istituzionale un ordinamento sociale completamente diverso. Di contro alla mia intenzione originaria, mi sono così visto costretto a far seguire, al primo, un secondo testo, questa volta più stringato; uno studio grazie al quale dovrebbe risultare chiaro quale sia la visione che deve essere effettivamente perseguita lungo il cammino del progresso, percorso che in precedenza ho invece ricostruito esclusivamente da una prospettiva interna. Questi due motivi considerati unitariamente mi hanno portato ad approfittare dell’invito a tenere il ciclo di conferenze Leibniz-Vorlesungen a Hannover del 2014 per proporre un primo tentativo di attualizzazione delle idee di fondo del socialismo. Sono molto grato alle colleghe e ai colleghi dell’Istituto di filosofia dell’Università di Hannover, e in particolare a Paul Hoyningen-Huene, che mi hanno permesso di affrontare un tema a loro certamente alieno nel quadro delle lezioni che organizzano annualmente; mi sono peraltro assai giovato delle discussioni avvenute nelle tre serate seguite alle conferenze, desumendone con chiarezza la necessità di rielaborare e ampliare ulteriormente il tema. Operazione che ho poi realizzato approntando una seconda versione delle conferenze, che è venuta a incentrarsi soprattutto su una più ampia revisione del socialismo. Un gentile invito rivoltomi da Rüdiger Schmidt-Grépály ad assumere la Distinguished Fellowship del Kolleg Friedrich Nietzsche, che egli dirige presso Weimar, nel giugno del 2015 mi ha infine permesso di esporre una seconda volta la versione rielaborata del testo al giudizio critico di un ampio pubblico; in parallelo, ho potuto trarre ulteriori indicazioni per le ultime correzioni dalle assai proficue discussioni di cui ho potuto fruire in un seminario protrattosi per diversi giorni a Wielandgut Oßmannstedt, vicino a Weimar, frequentato da borsisti della Studienstiftung des deutschen Volkes. Sono molto grato alle partecipanti e ai partecipanti di questo seminario, e naturalmente al direttore e ai collaboratori del Collegio, per l’interesse mostrato nei confronti del mio lavoro. Devo inoltre un ringraziamento a tutti gli amici, alle colleghe e ai colleghi che durante la stesura del manoscritto mi hanno aiutato con consigli e indicazioni. In primo luogo vorrei ricordare Fred Neuhouser, al contempo amico stretto e fidato collega al Dipartimento di filosofia della Columbia University a New York, che mentre lavoravo a questo libro mi ha fin da subito incoraggiato con decisione, per poi contribuirvi grazie a una serie di preziose indicazioni. Ho imparato molto anche dai commenti critici con cui Eva Gilmer, Philipp Hölzing, Christine Pries-Honneth e Titus Stahl hanno accolto la prima versione delle mie conferenze; a tutti loro va la mia gratitudine per la disponibilità e l’attenzione che mi accordano ormai da anni. Un sentito ringraziamento va infine ad Hannah Bayer e Frauke Köhler per l’aiuto che mi hanno offerto nella raccolta della letteratura e nella redazione del manoscritto. Axel Honneth, giugno 2015
Introduzione Le società in cui viviamo sono segnate da una divaricazione insidiosa, di cui è particolarmente difficile render conto. Per un verso, infatti, negli ultimi decenni si è terribilmente acuito il malessere determinato dalla situazione socio-economica generale, e dalle specifiche condizioni del lavoro; era probabilmente dalla fine della Seconda guerra mondiale che non si registrava un’indignazione popolare di tale entità, alimentata dalle dinamiche sociali e politiche innescate dalla globalizzazione dell’economia di mercato del capitalismo. Per un altro verso, però, questa indignazione di massa sembra priva di ogni tipo di orientamento normativo e di ogni forma di sensibilità storica perché la critica avanzata possa ancorarsi a un qualche obiettivo, sì che resta stranamente muta, ripiegata su se stessa; stante il disagio crescente, è come se venisse a mancare la capacità di pensare a un qualcosa in grado di spingersi oltre l’esistente, di immaginare una realtà sociale al di là del capitalismo. La divaricazione tra lo sdegno esperito e una qualsivoglia aspettativa futura, e lo svincolamento della protesta da ogni visione di un possibile miglioramento, è un fenomeno effettivamente nuovo nella storia delle società moderne; a iniziare dalla Rivoluzione francese, i grandi movimenti di lotta contro le condizioni sociali del capitalismo sono infatti sempre stati animati dalle utopie, e quindi sostenuti dalle immagini di come la società futura un giorno sarebbe dovuta essere organizzata – basti qui pensare al luddismo, alle cooperative di Robert Owen, ai consigli di fabbrica o agli ideali comunisti di una società senza classi. Oggi il flusso di questa corrente di pensiero utopista, come direbbe Ernst Bloch, sembra però essersi interrotto. Certo si sa piuttosto bene che cosa non si vuole, e che cosa risulta scandaloso delle attuali condizioni sociali; e tuttavia non si ha neppure la minima idea della meta verso cui una trasformazione mirata dell’esistente dovrebbe puntare. Trovare una spiegazione per questo improvviso prosciugamento delle risorse utopiche è ancora più difficile di quanto non possa sembrare a un primo sguardo. Il crollo dei regimi comunisti avvenuto nell’Ottantanove, a cui spesso e volentieri ci si richiama per decretare il tramonto delle speranze riposte nelle alternative al capitalismo, non può in verità essere tirato così facilmente in gioco quale causa dell’attuale situazione; difatti, non fu certo a causa della caduta del Muro di Berlino che le masse indignate – che oggi deplorano legittimamente l’allargamento della forbice tra povertà pubblica e ricchezza privata pur senza disporre di un’idea concreta di una società migliore – si resero conto, per la prima volta, che il socialismo di Stato di conio sovietico offriva un certo benessere sociale soltanto al prezzo della illibertà. Inoltre, il fatto che fino alla Rivoluzione russa non vi fosse stata una reale alternativa al capitalismo non aveva certo impedito agli uomini del XIX secolo di immaginarsi una convivenza non violenta, improntata ai valori della solidarietà e della giustizia. Ma se è così, perché allora la bancarotta del blocco di potere comunista avrebbe dovuto condurre, tutto a un tratto, all’attuale atrofizzazione della facoltà apparentemente congenita all’uomo di oltrepassare utopisticamente l’esistente? Un’altra causa a cui spesso ci si richiama per spiegare questa strana mancanza di immaginazione e di prospettive future dell’attuale indignazione è la repentina trasformazione del nostro senso collettivo del tempo storico. Con l’entrata nella “postmodernità”, che sarebbe avvenuta prima nell’arte e nell’architettura e poi nella sfera culturale nel suo insieme, le concezioni del progresso tipiche della modernità sarebbero state screditate a tal punto che oggi, sul piano della coscienza collettiva, predominerebbe l’immagine del ritorno del sempre uguale. Sulla base di questa nuova concezione della storia di taglio postmoderno – così suona la seconda spiegazione – le visioni di una vita migliore, dunque, non potrebbero più attecchire perché sarebbe ormai naufragata ogni idea stando alla quale il presente, in virtù dei potenziali a esso immanenti, spingerebbe da sempre oltre se stesso: nella direzione di un continuo perfezionamento realizzabile nella dimensione aperta del futuro. Di contro, oggi l’avvenire viene presentato come un qualcosa che non avrebbe più nient’altro da offrire se non un mero rimaneggiamento delle forme di vita o dei modelli sociali, ormai familiari, ereditati dal passato. E tuttavia, anche limitandoci a considerare soltanto il fatto che in altri ambiti del funzionamento della società continuiamo invece a tener conto e ad auspicare determinati progressi, come avviene ad esempio nel campo della medicina o rispetto all’affermazione dei diritti umani, siamo indotti a dubitare della cogenza di una tale spiegazione: perché, infatti, si dovrebbe riscontrare un deficit della capacità rappresentativa di trascendere l’esistente soltanto nell’ambito delle possibilità di riforma della società, mentre in altri settori tale capacità sembra appunto perfettamente intatta? La tesi della trasformazione fondamentale della coscienza storica sostiene dunque che oggi sarebbe naufragata ogni capacità di preconizzare una società nuova senza però prendere in considerazione la forza delle speranze, anche se forse eccessive, che vengono invece riposte nell’implementazione su scala globale dei diritti umani.1 Una terza spiegazione potrebbe invece richiamarsi alla distinzione tra i due campi in gioco – ovvero tra l’imposizione di tipo fondamentalmente neutrale dei diritti sanciti a livello internazionale su un fronte, e la riforma delle istituzioni di base della società sull’altro – per trarne la conclusione che le energie utopiche attualmente si siano esaurite soltanto rispetto a questo secondo ambito. Io ho l’impressione che quest’ultima sia la tesi più verosimile; al riguardo bisogna però ampliare l’analisi: deve infatti essere spiegato anche il perché dovrebbe esserci un corpo di ordine socio-politico al quale non sia più possibile attribuire delle aspettative utopiche. Qui potrebbe essere utile rinviare al fatto che oggi i processi socio-economici si presentano nella sfera pubblica in modi troppo complicati e opachi perché possano ancora essere ritenuti passibili di interventi mirati; è soprattutto per via dei processi della globalizzazione economica, segnati dalla velocità di transazioni ormai pressoché impossibili da cogliere unitariamente, che sembra essersi prodotta una sorta di patologia di secondo ordine: le persone considerano le condizioni istituzionali della vita comune solo come rapporti “reificati”, ovvero quali circostanze sottratte a ogni intervento umano.2 È quindi nel nostro tempo che la famosa analisi del feticismo elaborata da Marx nel primo libro del Capitale avrebbe infine trovato coronamento storico: non fu nel passato del capitalismo, quando il movimento dei lavoratori ancora reputava di poter trasformare le condizioni date secondo i propri sogni e le proprie visioni,3 ma è piuttosto nel presente che avrebbe preso piede la convinzione generale secondo cui i rapporti sociali sono, in una modalità peculiare, “rapporti sociali tra cose”.4 Se così fosse, e le osservazioni quotidiane come le analisi empiriche militano in tal senso,5 la nostra capacità di preconizzare dei miglioramenti sociali della struttura di base delle società contemporanee parrebbe allora non essere più in grado di svilupparsi proprio perché esse sono ritenute essere, alla pari di cose, difficilmente trasformabili nella loro sostanza. Sarebbe allora il prevalere di una concezione dei rapporti sociali feticista, e non invece il tramonto di una alternativa realmente esistente al capitalismo, né una trasformazione fondamentale della nostra interpretazione della storia, a dover essere considerato responsabile del fatto che oggi l’indignazione di massa suscitata da una ripartizione scandalosa di ricchezza e potere abbia perso palesemente la capacità di porre un qualche obiettivo che sia alla sua portata. Anche questa terza spiegazione risulta tuttavia incompleta, dal momento che non ci fornisce alcuna indicazione sulle ragioni per cui le utopie tradizionali non possiedano più la forza di superare, o perlomeno di mettere in crisi, tale coscienza quotidiana reificante. Per oltre un secolo, le utopie socialiste e comuniste sono infatti riuscite, ancorandosi alle immagini di una migliore vita comune, a stimolare e animare ininterrottamente e con una tale forza i soggetti in gioco che essi vennero immunizzati dalla tendenza, di sicuro presente fin da allora, a ipostatizzare con rassegnazione i processi sociali. L’estensione del raggio d’azione di ciò che gli uomini considerano di volta in volta “ineluttabile”, e pertanto necessario, dei loro ordinamenti sociali, dipende in larga misura da fattori culturali, e nel nostro caso soprattutto dall’influenza di griglie interpretative di taglio politico in grado di rappresentare come collettivamente trasformabile ciò che altrimenti appare invece come necessario. Nel suo studio storico Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, Barrington Moore ha mostrato in modo convincente come il sentimento di disperata ineluttabilità provato dai lavoratori tedeschi iniziò a scemare ogni volta in cui nuove e incisive interpretazioni riuscirono a rivelare il carattere meramente convenzionale e negoziatorio delle istituzioni esistenti.6Alla luce di queste considerazioni, si pone allora con ancora più forza la questione di quali siano le cause in grado di spiegare il fatto che tutti gli ideali tradizionali, un tempo così influenti, oggi abbiano perduto la loro capacità di smascherare e dissolvere gli effetti della reificazione; perché, dovemmo chiederci ancor più concretamente, le immagini del socialismo non hanno più, ormai da tempo, la forza di persuadere i soggetti in gioco che quanto appare come “ineluttabile” potrebbe invece essere trasformato e migliorato grazie all’impegno collettivo? Con ciò veniamo al tema che vorrei sviluppare nei quattro capitoli di questo breve lavoro. Mi concentrerò in particolare su due questioni tra loro correlate, che sul piano delle idee politiche mi paiono ancora di grande attualità: in primo luogo, mi soffermerò sulle ragioni interne oppure esterne che hanno condotto al punto in cui le idee del socialismo sembrerebbero aver perso irrevocabilmente il potenziale propulsivo d’un tempo; in secondo luogo, alla luce dell’analisi di queste ragioni, porrò la questione di quali siano le modifiche concettuali da apportare alle idee socialiste perché esse possano riacquistare la forza perduta. Stando agli obiettivi che mi prefiggo, dovrò però anzitutto ricostruire nel modo più chiaro possibile l’idea originaria del socialismo (capitolo I); sarà quindi solo in un secondo passo che potrò dedicarmi alle ragioni che hanno fatto sì che tali idee invecchiassero nel corso del tempo (capitolo II). Nei due capitoli conclusivi, intraprenderò infine il tentativo volto a contribuire al rilancio di idee ormai antiquate attraverso talune innovazioni concettuali (capitoli III e IV). È bene però rimarcare fin da subito che le riflessioni proposte hanno un carattere metapolitico, poiché non voglio riferirmi in alcun modo alle costellazioni politiche e alle possibilità di azione del presente; qui infatti non si tratta della questione strategica concernente i modi in cui il socialismo possa oggi esercitare una certa influenza sugli avvenimenti politici quotidiani; ma solo e soltanto di come si possano riformulare le sue istanze originarie perché esso possa ridiventare una fonte di orientamento etico-politico.
Note alla Prefazione 1 Axel Honneth, Das Recht der Freiheit (2011), trad. it. Il diritto della libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, Codice, Torino 2015. 2 In tal senso vedi gli articoli raccolti in Special Issue on Axel Honneth’s Freedom’s Right, in “Critical Horizons”, 16/2, 2015. 3 Axel Honneth, “Rejoinder”, ivi, pp. 204-226. Introduzione 1 Samuel Moyn, The Last Utopia. Human Rights in History, Harvard University Press, Cambridge (Ma.) 2010. 2 Titus Stahl, Immanente Kritik. Elemente einer Theorie sozialer Praktiken, Campus, Frankfurt/Main 2013. 3 Vedi Jacques Rancière, La nuit des prolétaires: archives du rêve ouvrier, Fayard, Paris 1981. 4 Karl Marx, Das Kapital, I Band (1867), trad. it. Il capitale, a cura di A. Macchioro e B. Maf, Utet, Torino 2009, libro primo, p. 150. 5 In tal senso è esemplare Pierre Bourdieu (dir.), La misère du monde (1993), trad. it. La miseria del mondo, a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, Mimesis, Milano 2015. 6 Barrington Moore jr., Injustice. The Social Basis of Obedience and Revolt (1978), trad. it. Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, Edizioni di Comunità, Milano 1983, soprattutto il capitolo 14. |