https://pierluigifagan.wordpress.com 5 dicembre 2016
Andando incontro alla tempesta, senza mappe ne bussole, litigando, in un vascello di cui non abbiamo il timone. di Pierluigi Fagan
1. Tra coloro che si trovano nella poco invidiabile condizione espressa nel titolo, c’è un gruppo di persone che nella loro vita hanno desiderato, sognato, immaginato un modo di stare al mondo in cui all’interno dei gruppi umani, grandi e piccoli, la differenza umana non si ordinasse attraverso una gerarchia fissa, il dominio sistematico di alcuni umani su altri. Questo sentimento sociale che chiamiamo sentimento d’uguaglianza, ha preso varie forme nella storia: piccole comunità religiose, produttive, militari, politiche, guidate dal principio d’uguaglianza. Nella grandi comunità, è stato molto più difficile trovare la forma che tende all’uguaglianza del potere sociale tra individui e la sua ricerca, ha preso per lo più la forma della rivolta a qualche odiosa condizione di sudditanza. Molte di queste rivolte sono poi state soffocate o normalizzate. In qualche raro caso, sono arrivate a conseguire il potere generale della comunità ma purtroppo, hanno poi subito una trasformazione che le ha portate a replicare, magari cambiando i segni della rappresentazione sociale sul solo piano formale, il potere dei pochi su i molti. Questo sentimento di uguaglianza è non solo esteso a tutto il tempo umano ma anche a tutto il suo spazio, lo si può dire con cautela su i precisi confini della sua consistenza, forse, un universale. Probabilmente, si basa su un dispositivo di logica individuale naturale. Questo dispositivo accoppia due moduli, l’uno dice di non voler per sé l’esser dominato da alcuno, l’altro dice in base al funzionamento dei meccanismi empatici/simpatici, che tale volere è anche negli altri, da cui la risultante: liberarci assieme dalla coazione dominante/dominato. In pratica, ciò che Erodoto diceva “coloro che non vogliono né dominare, né esser dominati”, l’uomo libero. Poiché però, sino all’odierno livello di evoluzione sociale, non è stato possibile dargli esecuzione in forme concrete, stabili e durature, la storia registra vari atteggiamenti di sopravvivenza alla sconfitta di questo sentimento. I più, hanno accettato di convivere con le ragioni della sua sconfitta e si sono posizionati sulla scala sociale di modo da avere quanti meno altri sopra e quanti più sotto. Poiché questa strategia è relativa, abbiamo avuto individui che avevano “potere” su interi popoli ed altri che avevano potere solo sul loro cane. Uno sparuto gruppo, pur alla fine adeguandosi per ragioni di realismo della sopravvivenza, ha continuato a coltivare il sentimento, scrivendo, parlando, provando e riprovando, pur andando incontro a contraddizioni e regolare frustrazione. Visto l’attrito tra questo sentimento che è diventato viepiù “ideale” e l’altro che ha spadroneggiato nel reale, l’ideale è diventato l’oasi mentale in cui ristorarsi delle tante e continuate frustrazioni del reale. Altri, poco riflessivi, hanno continuato a coltivare il sentimento a parole ma nei fatti sono stati di piena intenzione dei gerarchici. 2.L’applicazione storica di questo dissidio tra l’aspirazione all’uguaglianza nei sistemi delle relazioni sociali e la difficoltà di dargli esito concreto, prendendo la storia di un preciso luogo ossia l’Europa ed una porzione di tempo ossia gli ultimi trecentocinquanta anni, ha visto lo svolgersi di due pratiche politiche diverse e parallele. La prima si è espressa in forma lieve e presto repressa nella Guerra civile inglese di metà XVII secolo (diggers, levellers), e si è di nuovo espressa in forma ben più corposa nella Rivoluzione francese di fine XVIII secolo. La seconda ha preso forma nei moti politici e della riflessione teorica con le prime forme di socialismo “ingenuo” francese[1] e si è poi formalizzata nell’edificio concettuale costruito da Marx. Da qui ha preso ad esprimersi in pratiche politico-sindacali in vari punti d’Europa ed è poi assurta a manifestazione concreta e decisiva per la presa del potere in Russia ed in seguito in Cina. Tolti i casi concreti sovietico, cinese, cubano e poco altro, la pratica di questa ispirazione nota come “comunismo”, soprattutto nei luoghi natii, ovvero l’Europa, ha preso più che altro la forma di un movimento politico che ha portato la classe sociale perno della teoria comunista -il proletariato-, a battersi ed ottenere prima la riduzione parziale dell’orario di lavoro, poi il riconoscimento del diritto sindacale, poi qualche battaglia vinta sulla remunerazione delle prestazioni da lavoro e limitazioni ad alcuni abusi tra cui il lavoro infantile[2] prima largamente praticato. Nel mentre, poiché il sistema politico dominante l’Europa, a partire dalla rivoluzione cosiddetta “gloriosa” degli inglesi a fine XVII secolo, si era conformato secondo sistemi di rappresentanza, il movimento comunista e socialista europeo, si addensò anche in partiti politici che esprimevano rappresentanza. Questo movimento portò alle lotte per un suffragio sempre più ampio, fino all’ottenimento progressivo di una piena democrazia rappresentativa popolare a cui i partiti socio-comunisti parteciparono per contendersi il consenso ed il potere di governo. Tutto ciò pur avendo, in teoria, una ben diversa, per quanto vaga, teoria dello Stato. Dallo snodo francese del Luglio del 1789 in poi, la parte di coloro che più degli altri, portavano avanti le istanze del desiderio d’uguaglianza, prese a dirsi “sinistra” relativamente alla divisione spaziale delle assemblee rappresentative in cui gli altri, i portatori dell’opposto principio di diseguaglianza, si posizionavano a destra degli emicicli[3]. Questa “sinistra” si diceva “democratica”, riprendendo una codificazione del governo popolare che aveva un solo esempio storico, per altro molto antico: l’Atene del V secolo avanti Cristo. Invero, non era pacifico che il sistema ateniese di partecipazione diretta avesse parentela con quello rappresentativo. La confusione dei tempi fece sembrare ovvio che grandi nazioni moderne non potessero politicamente strutturarsi come i trenta/quarantamila maschi adulti di famiglie proprie di quella antica polis ma si pensò che se la forma era diversa l’ispirazione del “governo del popolo per il popolo “ era la stessa. L’uguaglianza e la diseguaglianza, vennero quindi inizialmente intese rispetto al diritto di voto e di proporzionalità nella rappresentanza. Qui c’è un equivoco fondamentale poiché essendo la sostanza forma e materia, se cambia la forma, cambia in parte anche la sostanza ed in effetti, come poi si dimostrerà nei due secoli successivi, tra la democrazia reale ateniese (per quanto imperfetta e contraddittoria) derivata dl concetto di isonomia e quella delegata del ‘900 in poi, le sovrapposizioni vanno sempre più fuori registro. Tra l’altro anche per il fondamentale divario tra l’ordinatore dell’intera organizzazione sociale: politico nel caso ateniese, economico nel caso dell’Europa moderna. Che quella rappresentativa con partecipazione diretta una volta ogni quattro anni per delegare qualcuno alla decisione politica, fosse un finta libertà, Rousseau l’aveva ben detto già a metà del XVIII secolo ma nella storia del pensiero quasi mai il dire una cosa cambia il corso degli eventi, debbono sincronizzarsi vari fattori per far dell’idea un fatto, variabili che ai tempi non erano sincronizzate e tali son rimaste sino ad oggi. In tutto ciò, l’alone mitico portato dal concetto di “democrazia” continuò a sostenere una sostanza che era democratica in maniera molto discutibile. Di fatto, i rappresentanti (senza vincolo di mandato), erano una élite, erano i Pochi, però con legittimità aumentata, erano una formazione oligarchica prodotta con metodo di voto democratico. Non è chiaro se anche il marxismo di Marx si potesse dire di “sinistra”[4]. In fondo, tale codice, era proprio nato in una assemblea di delegati parlamentari e tra l’altro, per lo più della classe sociale borghese. Ma il marxismo non prevedeva né tale primato della borghesia, né assemblee parlamentari di delegati. In verità, non si sa bene cosa prevedesse nello specifico del funzionamento della attività politica poiché l’elaborazione teorica del tedesco si era dedicata a destrutturare le tesi dominanti da cui far uscire dialetticamente l’antitesi , sulla sintesi c’era una attesa, chi dice meccanica, chi dice messianica, chi dice semplicemente “vaga”. Secondo Marx, non stava a lui scrivere le “ricette delle osterie del futuro”, a lui spettava semmai solo definirne l’ impianto generale che muoveva la Storia. L’azione creativa dell’antitesi[5], prevedeva il proletariato che lottando per liberarsi dalla sua condizione di subordinazione (oppresso dagli oppressori), distruggendo ed annullando l’ordine in atto, avrebbe per effetto connesso, distrutto la struttura che Marx riteneva essere il portante di ogni storica forma sociale di diseguaglianza: il possesso dei mezzi di produzione. L’emancipazione del proletariato avrebbe emancipato e liberato tutti gli uomini. Cosa aveva portato all’alba delle società complesse, la prima asimmetria nel possesso dei mezzi di produzione e da lì in poi al dominio dell’uomo sull’uomo, venne indagato con gli strumenti del tempo, sostanzialmente con l’antropologia di L. H. Morgan e H. S. Maine[6], antropologia primitiva di un secolo e mezzo fa. Però, la distinzione destra – sinistra, era ormai entrata nella cultura politica del tempo ed ogniqualvolta si formeranno due parti in disputa dell’intenzione politica, se più popolare o più elitaria, se più per i molti o più per i pochi, se più per lo status quo o più per il cambiamento, si riprodurrà tale dicotomia distintiva. Del resto all’origine del secolo XIX, effettivamente, la contabilità sociale vedeva pochi borghesi e molti proletari ed i primi erano gli oppressori dei secondi. I comunisti non amavano dichiararsi democratici, i “democratici” erano di vario tipo ma senz’altro non comunisti e comunque “democratico” era soltanto colui che si riconosceva nelle istituzioni del parlamento dei rappresentanti eletti a suffragio universale in chiaro disallineamento tra nome e cosa. I socialisti, mediarono le due tradizioni in una via di mezzo che accettava il gioco parlamentare ed una democrazia rappresentativa rinforzata in senso popolare, quindi dal basso, per giungere ad un certo controllo dei mezzi di produzione (non assoluto) tramite il potere dello Stato. Nel tempo poi perderanno anche questo ultimo legame con l’origine marxiana e si porranno solo obiettivi di costante riequilibrio sociale pur all’interno del modo economico -cosiddetto- capitalista nella versione social-democratica. 3.Queste radici nate dal sentimento di uguaglianza, attigue ma diverse, presero ad arborizzare una ampia ramificazione di forme politiche, sia pratiche, sia teoriche. Dal punto di visto teorico, il ramo più scarno fu quello democratico, quello più esuberante fu il ramo comunista, quello socialista era in mezzo. Il dominio del reale sull’ideale si nota proprio comparando due torri di libri, minima quella dell’elaborazione teorica sulla democrazia, sempre vincolata al modo rappresentativo e tra l’altro quasi sempre critica (sia da destra, che da sinistra), che gratta il cielo quella social – comunista anche se più votata alla critica che alla costruzione. Chi dominava il reale non aveva bisogno di riflettere, questa attività era riservata a gli “idealisti”. Dal punto di vista politico pratico, il ramo comunista si divise tra i comunisti che partecipavano -pro tempore- al gioco rappresentativo detto democratico per puro spirito realista e comunque mantenendo a livello teorico il traguardo rivoluzionario, e quelli più a “sinistra”, che sia teoricamente, sia praticamente, credevano solo nella via insurrezionale. I comunisti occidentali, per lo più, persero nel tempo questa ipotesi insurrezionale ma rimanendo ambigui poiché non in grado di tornare alla sala macchine del pensiero genetico e riformulare la teoria originaria da cui prendevano nome così da avere ormai forme e credo essenzialmente socialista ma continuando a chiamarsi comunisti. Al dispositivo dell’uguaglianza si dava sfogo nelle teorie, a quello della diseguaglianza si dava seguito nei fatti, al più si tentava di render la diseguaglianza meno aspra sul piano concreto. I pochi, le élite, magari non più definibili borghesi sebbene si sia continuato ad usare il termine (impropriamente visto che tra l’altro la borghesia venne ad ampliarsi ad una mega-classe mediana che nel XIX secolo non esisteva, diventando sempre più i “molti”) avevano imposto il loro gioco della politica mossa dalla diseguaglianza. I pochi dominavano l’economia, la politica (sia nella forma che nella sostanza), la cultura, il gioco sociale e financo le strutture dei partiti, dei movimenti e dei sindacati tanto di sinistra che comunisti, viepiù nella versione ultra-elitaria della dottrina rivoluzionaria leninista. Sul piano dei codici concettuali, della pubbliche narrazioni condivise, si agitava un mondo assai confuso ed ambiguo di termini in libertà: democratici che non erano davvero demo, rivoluzionari però in parlamento, rivoluzionari leninisti e quindi elitisti che si auto investivano della funzione di guida della liberazione del popolo, popolo che manifestava un cospicuo fondo conservatore quando non dichiaratamente di “destra”, ampio dominio dei maschi sulle femmine, gerontocrazia diffusa (a parte i movimenti studenteschi della seconda metà del ‘900 per altro mossi da i figli della borghesia illuminista), teorici sempre più alieni dai doveri segnati nell’XIa tesi su Feuerbach, élite minori incistate in élite maggiori (in termini di potere), rivoluzionari per lo più borghesi, borghesi che non possedevano alcun mezzo di produzione, termine dell’attualità del significato di proletario, destre frattali in ogni dove cioè anche nei sistemi che si dichiaravano di sinistra, internazionalisti pericolosamente contigui ai globalisti e molto altro che il lettore e la lettrice potrà sottolineare da par suo, fino all’odierna sinistra diritto-civilista sostanzialmente capitalista ed anche para-imperialista ed un’altra che comincia a pensare che “populismo” non è un termine poi così malvagio ed il leader carismatico può avere la sua funzione liberatrice. Data la caotica pluralità del comparto, l’attribuzione del termine “sinistra” è stato oggetto di sanguinosi diverbi, le idee non solo litigavano con la realtà ma anche i portatori tra loro. Il tutto in un progressivo svuotarsi del bacino di persone realmente interessate a definire cosa la “sinistra” fosse, il tutto lungo una penosa sequenza di sconfitte politiche nonché in una sostanziale perdita della rotta traguardata sul principio di uguaglianza. Nel frattempo, anche capitalismo, termine su cui si potrebbe scrivere un trattato sul disallineamento tra nome e cosa, tra senso e significato, tra teoria e pratica, tra semplificazione teorica e complessità concreta, tra astrattezza della sua descrizione sistemica e concretezza della sua applicazione in questa o quella nazione, mutava e da “popolare” ovvero produttivo e commerciale, andava a trasformarsi in finanziario, cioè prettamente elitario, almeno in Occidente. Anche le destre si frantumavano tra conservatori ed innovatori che si unirono coi progressisti, tra pochi difensori della nazione e molti di più a favore di un utopico (poi distopico) unico mondo-mercato tra democratici elitisti (oligarchi con consenso) e gerarchici puri ovvero i cultori dell’uomo forte che con la spada del comando scioglie i nodi gordiani della complessità. La confusione tra teorie, termini, pratiche, arriva di recente a formare posizioni di destra sovrapposte su alcuni punti a quelle di sinistra in una sorta di frontismo anti-capitalista così da avere gli scopritori del “non c’è più destra e sinistra”, medioevalisti socialisti, putiniani di sinistra, antimperialisti trumpiani, fascisti autarchici quindi no global, decrescisti ed ecologisti, eco socialisti comunitari, socialisti keynesiani, anti-illuministi e molte altre variabili ibridazioni tra cui i populisti carismatici ed i censurati “rosso bruni” . I partiti centrali, originariamente di centro-destra e centro-sinistra, sono stati costretti ad unirsi a difesa del fortino del loro potere nel mentre la sottostante classe media che avrebbero dovuto difendere cominciò, lentamente, a scomparire. Di contro, notata la confusione nella bassa cucina politica, i proprietari del ristorante hanno cominciato ad introdurre di soppiatto un sentimento spaventoso che però ha la forza di un’auto-evidenza: la “democrazia” non funziona più. 4.Nel frattempo che la confusione scala i vari gradi di complessità che portano al delirio caotico, la nave in cui s’inscena questa storia, ha cambiato forma e direzione. Questa nave che non si chiama più Europa ma Occidente, passa da un terzo della popolazione mondiale a quasi un decimo. La sua posizione di assoluta élite mondiale diventa sempre più relativa. Gli asiatici sono ormai il sessanta e più percento del mondo e con Cina, India e varie realtà sud-est asiatiche, hanno adottato quasi lo stesso modo occidentale di ordinarsi sul piano economico (capitalismo) ma non quello politico (democrazia rappresentativa). I sud americani eterna colonia occidentale prendono ad emanciparsi. Gli africani che un secolo fa erano tra volte meno degli europei, tra trenta anni saranno tre volte di più. Capitalismo produttivo e commerciale e quello finanziario hanno divorziato i reciproci destini. Quello produttivo – commerciale dei paesi maturi è stato abbandonato alla competizione senza vincoli e protezioni con quello dei paesi in crescita mentre quello finanziario sempre dei paesi maturi è andato a riprodursi proprio alimentando la crescita del sistema produttivo-commerciale dei paesi a più alto tasso di crescita. Col risultato di rompere il contratto sociale (arricchire sia i sudditi che il Sovrano)[7] visto che pochi ricchi diventano sempre più ricchi, pagano le tasse off-shore (quindi non le pagano) mentre tutti gli altri diventano sempre più poveri, inclusi gli Stati che debbono ricorrere al debito ed al regime imposto dalla polizia banco-finanziaria che ha cancellato la nozione di rischio prima connessa indissolubilmente alla nozione di investimento . Qui da noi, in Occidente, anche volendo ripristinare la centralità del produttivo – commerciale, non si saprebbe bene più cosa altro produrre visto che il piano materiale dell’esistenza è già ampiamente coperto ed anche compresso visto che le invenzioni sulle intensificazioni di consumo sono ormai parossistiche ed arrivate ad un punto in cui è difficile immaginare un oltre. Inoltre, non solo c’è sempre meno reddito distribuito ma l’impersonale motore dell’innovazione dalle spolette volanti a gli algoritmi che ormai auto-apprendono le proprie codifiche (cioè si scrivono da soli in base “all’esperienza” che fanno nella libera ricerca del proprio senso), ha fatto sì che di ore lavoro, ci sarebbe sempre meno bisogno in sé per sé visto che produciamo sempre di più in sempre meno tempo. Infine, visto che si stanno sciogliendo i ghiacci e le riserve di materia naturale stanno andando ad un futuro esaurimento o quantomeno alla curva discendente che a fronte della maggior scarsità ne aumenta il prezzo, ci sarebbe da rallentare anche per motivi di principio di sopravvivenza. Infine, poiché la ripartizione di materie prime, energie e sistemi economici relativi a diversi Stati si è fatta assai complessa, si è fatto assai complesso e rischioso anche l’orizzonte geopolitico. Alcuni intravedono lavori socialmente utili finanziati dal debito statale ma è dubbia la proporzione tra lo sgonfiamento del bisogno materiale privato e la sostituzione con un bisogno del bene comune, pubblico. Tutto questo ed in particolare l’irreversibile perdita del dominio su un vasto mondo che riforniva di materia, energia, mano d’opera e mercati per gli scarti o le produzioni eccedenti e secondarie ovvero quel complesso modo economico nato del XVI secolo e che abbiamo improvvidamente chiamato “capitalismo” come se fosse solo uno strutturalismo del denaro, sta portando alla deriva la nave occidentale. Eh sì, in Occidente, la democrazia rappresentativa non funziona più e guarda un po’ le coincidenze, non funziona più nemmeno il sistema che gli è geneticamente entangled, il “capitalismo”. In effetti non funziona più la nave, la mappa, il pilota (il cibernauta, o il Sovrano), la bussola ha perso la magnetizzazione e l’equipaggio litiga. Che fare? 5.Fare palla. Il mio professore sardo di disegno alle medie, guardando i nostri penosi tentativi di dar una qualche forma al DAS per gli esercizi nell’ora di disegno, diceva con aria disgustata: fare palla!. Un’epoca ci lascia ed un’altra ancora non ha preso forma dando vita ai fenomeni più perversi. Democrazia rappresentativa abbinata ad un preciso sistema e modo economico di un parte del mondo che dominava l’altra sono un “sistema”, il sistema della Modernità occidentale che oggi sembra aver finito il suo ciclo storico. Fare palla anche di destra – sinistra? Se ci riferiamo a comunismo, socialismo, parlamento francese giocobino, conservatorismo-progressismo in parte sì ma se ci riferiamo ai sistemi di idee politiche che dividono chi ha quel meccanismo mentale naturale che porta a desiderare l’uguaglianza, forse mai raggiungibile ma utile quanto lo era il motore immobile per Aristotele, (come fine infinito), da quelli che scambiano il realismo della gerarchia che si autoriproduce come il più invincibile dei tumori con l’idea che siccome così è così deve essere, beh, allora no. Se ci piace rottamare i termini delle geometrie parlamentari possiamo anche farlo basta che sotto siano chiari i concetti, i quali sfuggono al nostro potere di rottamazione. Uguaglianza e diseguaglianza sono una dicotomia vera, il tendere all’autogoverno dei molti o accettare la legge ferrea delle oligarchie, potere della decisione ai molti o ai pochi è dicotomia nei fondamenti politici. EPILOGO INTERROGATIVO. Il mondo è cambiato molto ma è a ridosso di un salto di stato da cui uscirà completamente trasformato. L’Occidente va a perdere la sua unicità e condizione privilegiata di dominante, L’Europa è –rispetto a gli Stati Uniti d’America- la parte che già ne soffre e sempre più ne soffrirà in termini di contrazione delle condizioni di possibilità. L’intero sistema economico moderno, prima europeo, poi occidentale, oggi mondiale, ha vari gradi di ulteriore espansione per i paesi orientali (ed in teoria anche per quelli africani e sud americani se non interverranno -come certo interverranno- disturbi di vario tipo) ma non più per quelli occidentali. Cosa ne facciamo di questo sistema che da una parte non ci è mai piaciuto ma di cui siamo stati e siamo parte? Oltre che senso teorico ha possibilità concrete di realizzarsi una unione democratica e non elitista, politica prima di economica degli europei o non ha alcuna possibilità strutturale[8]? Se no, ha senso tornare a vagheggiare lo Stato nazionale in questo scenario[9]? Come si può sognare l’uguaglianza sociale interna quando all’interno del sistema occidentale si è strutturalmente dominati dalla potenza degli Stati Uniti? Cosa ci facciamo del concetto di democrazia e la sua forma attuale e siamo sicuri sia quella attraverso la quale si può esercitare lo sforzo l’uguaglianza? Ma se accettassimo poi di perderla, cosa rischiamo nella bilancia tra rischi ed opportunità dell’erratico cambiamento? Cosa ne facciamo del sistema economico conosciuto e della sua funzione ordinatrice, ora che dopo due secoli sono scomparse -per noi- le condizioni che lo fecero nascere e prosperare? Siamo ancora sicuri che il senso politico dell’anti-capitalismo esaurisca i compiti di chi non accetta il dominio dell’uomo sull’uomo? Cosa abbiamo da dire ai molti che sono smarriti ed incerti, prede dei piazzisti di analgesici, degli spacciatori di semplificazioni, dei pifferai che sanno portare il branco di topolini lontano da dove gli sembra brutto, per finire dove poi è orrendo? Sappiamo ancora parlare la lingua dei nostri simili o tra “potenza del negativo”, “sussunzione”, “general intellect” ormai siamo diventati una triste casta di scolastici che si pubblica e neanche più si legge vicendevolmente tanto è minata la fiducia reciproca dell’effetto concreto che ha il nostro dire? Ci accontentiamo di una blanda lotta di classe (ma di quale classe? che pesa quanto nel cento percento nelle nostre società? ha ancora senso il concetto sociologico e sopratutto politico di “classe”? ) rivendicativa di una minor distanza di reddito e qualche diritto sempre più formale dentro un sistema che continuerà a contrarsi ed in cui la lotta per la distribuzione dei problemi e delle opportunità vedrà fiorire i mille ed uno negazionismi, le mille ed una rimozioni, le mille ed una soluzione immediata di problemi che hanno fitte radici storiche complesse? Tra fare politica, pensare e discutere di politica, rivolgersi al potere o tornare a lavorare politicamente presso il popolo, quali priorità? Abbiamo chiara la differenza tra uguaglianza delle differenze ed uguaglianza che annienta le differenze e quindi la termodinamica sociale e quindi la stessa vita della comunità? In quale sistema ci piacerebbe vivere, come è fatto, quali le sue linee di progetto tra Stato e mercato, tra individuo e gruppo, tra generi e generazioni, tra provenienze etniche, tra benessere e compatibilità geopolitica ed ambientale, tra “uomo che tende al lavoro” ed “uomo che tende al sapere”? Come potrebbe esprimersi l’intenzione politica in questo sistema ideale, cioè: chi decide? E se pensiamo che sia il popolo a dover decidere, il popolo è in grado di decidere su cose complesse? Nel frattempo, quale il nuovo e necessario “contratto sociale” visto che il precedente è stato rotto dalle élite sempre più egoiste ma che non sembra comunque ripristinabile, anche volendo? Che ci facciamo con l’impianto di pensiero del tedesco che “apprendeva il suo tempo col pensiero” oggi che da quel tempo siamo distanti circa un secolo e mezzo o poco più? O pensiamo invece che il tedesco avesse trovato degli a-temporali universali immuni alla relatività storica? Siamo in grado di disegnare nuove mappe, di scendere in sala macchine e rimettere mano ai concetti di democrazia, socialismo, comunismo, rivoluzione e progressione, produzione della sussistenza, soddisfazione esistenziale, pace-guerra ed ecocompatibilità, sistemi di decisione politica, preparazione della maggioranza dei cittadini a prender decisioni complesse, cooperazione e competizione inter-nazionale? Crediamo ancora nel sogno del tendere all’uguaglianza e liberarci dalla primitiva coazione del dominio dell’uomo sull’uomo[10]? E’ questo il punto interrogativo che lascia sospesi tutti gli altri. Un mondo con le sue teorie e pratiche dettate dal contesto ci sta lasciando. Forse prima di pensar di voler e poter cambiare il mondo dovremmo tornare a pensarlo, altrimenti prepariamoci ad un naufragar in questo mar, sempre meno dolce e sempre più tempestoso.
Note [1] E. Hobsbawm, Come cambiare il mondo, Rizzoli, Milano, 2011; Marx, Engels e il socialismo premarxiano, pp. 24-55 [2] “Proletariato” deriva proprio dai tempi in cui, la prole era forza lavoro e quindi apporto di reddito della famiglia. A rigore, il termine avrebbe dovuto esser sostituito da poco dopo metà del XIX secolo, quando questa forma di sfruttamento cessò. Oggi in Italia, tre quarti della popolazione vive in casa di proprietà. [3] L’intera requisitoria svolta da Michéa (vedi nota seguente), parte dal fatto che, secondo lui, l’utilizzo del termine “sinistra”, parte dal definire un’alleanza tra borghesie piccole e grandi sotto una tradizione di origine giacobina, poi riaffermata ed ampliata nell’affaire Dreyfus che è di fine XIX secolo – primi XX. Ma a rigore, la genesi del termine e quindi del suo significato primo, origina poco prima della rivoluzione di Luglio, nella seduta dei rappresentanti del Terzo Stato all’assemblea degli Stati generali. Il discrimine originario passava sul concetto di una testa un voto in una Camera unica (quindi un principio di uguaglianza sebbene all’interno di quelle che comunque erano fasce non del tutto popolari) ma poi ribadito nelle sedute dell’Assemblea del ’91 dove la sinistra più connotata (Basire, Chabot, Merlin de Thionville) era a favore del suffragio universale (uguaglianza del diritto di voto) in accordo con i Cordiglieri, Danton e Marat. [4] J-C. Michea, I misteri della sinistra, Neri Pozza, Milano, 2015 [5] Questo meccanismo verrà ripreso dall’economista Schumpeter con la formula della “distruzione creatrice” che muoverebbe il sistema capitalista. [6] K. Marx, Quaderni antropologici, Edizioni Unicopli, 2009 [7] Adam Smith, La ricchezza delle nazioni. UTET, Torino, p.553 [8] Possibilità e impossibilità strutturale non va letta a seconda degli interpreti della cronaca politica. Non è cioè un problema di Mekel – Junker vs Varoufakis – non so chi. E’ il problema del se si possono unire in un unico sistema popoli grandi e piccoli che parlano lingue diverse, hanno storie diverse e financo una antropologia diversa, oltreché ovviamente culture, etiche e preferenze diverse, religioni diverse e quindi economia e modi di produrre diversi. Se non c’è questa possibilità -e francamente non vedo come si possa pensarla diversamente su questo punto- allora l’unione di tutti gli europei è impossibile strutturalmente, non perché c’è un paradigma dominante neoliberale e se ce fosse uno socialdemocratico (vero, non quello incarnato dai partiti che fintamente vi si richiamano) sarebbe diverso. [9] Chi scrive è ovvio pensi di no. E’ altresì ovvio che lo Sato-nazione, anche parlamentare, è senz’altro più democratico delle private alchimie delle forze inter, trans e sovra nazionali che strutturano l’UE, il problema è però quali condizioni di possibilità ha oggi uno Stato-nazione, ben che ti vada di media taglia, nel mondo contemporaneo? [10] Per riprendere il ragionamento di Michéa, il “significante principale” da lui individuato è un movimento di liberazione dal capitalismo mentre qui di propone il concetto del tendere all’uguaglianza, va da sé che tendere all’uguaglianza significhi superare il capitalismo ma non il contrario. Inoltre, c’è forse qualche speranza di superamento del dominio dell’esistente se si propone al mondo qualcosa di “altro”, che ha suoi fondamenti teorici ma anche pratici, non se si propone l’antitesi a qualcosa. |