Fonte: Il Dubbio

12/11/2016

 

Leonard Cohen, un po' Dylan un po' James Joyce

di Luciano Lanna

 

Quando, solo un mese fa, hanno chiesto all’anziano Leonard Cohen cosa pensasse del Premio Nobel assegnato all’amico Bob Dylan, lui disse senza mezzi termini: «Per me è come aver dato al monte Everest una medaglia per la montagna più alta del mondo». D’altronde, Dylan interpellato proco prima dal New Yorker aveva riconosciuto tutti i meriti di Cohen lasciandosi andare a una vera e propria apologia, senza immaginare che il cantautore canadese, 82enne, ci avrebbe lasciato presto. Nel suo ultimo brano, uscito solo tre settimane fa, Leonard canta: «Signore, sono pronto». E nella lettera che aveva inviato alla tua musa Marianne a luglio, quando sapeva delle sue condizioni e dell’imminente partenza, le aveva scritto: «Credo che ti raggiungerò presto... buon viaggio amore mio e fra poco credo che mi avrai al tuo fianco…».

Tutti lo conosciamo almeno per Halleluja, di sicuro il suo pezzo più celebre, quantomeno per le innumerevoli cover, da quella di Jeff Buckley sino a quella di Rufus Wainwright, uno che da ragazzino frequentava la sua casa. Ma la storia di Leonard viene da lontano… «James Joyce non è morto: vive a Montreal e si fa chiamare Leonard Cohen», annotava proprio cinquant’anni fa – nel 1966 – un quotidiano statunitense in occasione della pubblicazione del romanzo Beautiful Losers. Forse il paragone con Joyce era un po’ azzardato, ma Cohen prima di diventare il cantautore che avremmo conosciuto s’era già affermato come un poeta e uno scrittore di primo piano. E tutta la sua biografia è andata avanti all’insegna dell’ossimoro e delle improvvise conversioni. Per rendercene pienamente conto basta dare un’occhiata a Il gioco preferito, il suo primo romanzo, del ’63, che è stato definito “uno dei migliori romanzi canadesi del Novecento”, e venne subito paragonato – a proposito di Joyce – al Ritratto dell’artista da giovane. Un esuberante romanzo di formazione che raggiunse in breve lo status di culto, soprattutto tra i giovani. Racconta la storia del figlio unico di una ricca famiglia ebrea di Montreal e alter ego dell’autore. Descrive la sua relazione controversa con la tradizione ebraica, le scorribande on the road con gli amici, le ambizione letterarie e poetiche del protagonista, la scoperta dell’amore.

Per inquadrare però l’itinerario intellettuale del cantautore è però opportuno dare un’occhiata anche a Una vita di Leonard Cohen di Ira B. Nadel (Giunti), la più completa biografia a lui dedicata, oltretutto scritta da un grande e accreditato studioso di letteratura. Intellettuale colto e raffinato, Cohen non ha infatti solo scritto canzoni indimenticabili come Suzanne o Joan d’Arc, entrambe tradotte in italiano da Fabrizio De André, diventando un mito per l’immaginario degli anni ’60 e ’70 al pari Dylan, ma prima di salire sul palco e di incidere un disco (pochi lo sanno, ma accadde quando aveva già 33 anni, nel ’67), s’era affermato come una luminosa promessa della letteratura canadese, attraverso una serie di raccolte poetiche che stanno da tempo nelle antologie scolastiche.

Tutto inizia nel ’54 quando Leonard all’università s’era iscritto al corso di poesia di Louis Dudek, grande critico, e dedicato a Ezra Pound. E Cohen pubblicò le sue prime poesie sulla rivista letteraria CIV/n, il cui titolo prendeva spunto da una frase contenuta in una lettera scritta da Pound a Dudek: «CIV/n: un lavoro inadatto a un uomo solo», dove CIV/n era una forma abbreviata per civilizzazione. Una curiosità: sul quarto numero della rivista era ospitato anche un lungo saggio su Ezra Pound del critico e sociologo italiano Camillo Pellizzi oltre a un editoriale di Dudek dedicato all’internamento dell’autore dei Cantos nel manicomio di St. Elizabeth.

Qualche anno dopo il giovane Leonard frequenterà l’ambiente bohèmien della Columbia University e del Greenwich Village, incontrandosi e familiarizzando con esponenti della beat generation come Ginsberg e Kerouac, «quel tipo di genio – scrisse di quest’ultimo – che somiglia a un grande ragno scintillante, un ragno capace di tessere la grande tela dell’America». Poi una lunga vita di esperimenti, incontri, donne, vagabondaggi, crisi e illuminazioni esoteriche, dimostrando la grande capacità di trasformarsi da scrittore con tanto di crismi accademici in rockstar internazionale. Va ricordato il suo periodo greco, nell’isola di Idra, tra il ’60 e il ’63, dove si era installata una comunità di scrittori e artisti da tutto il mondo. In quegli anni, considerato un intellettuale di punta, Leonard viene ad esempio invitato a confrontarsi a Parigi con figure come Mary McCharty, Mulcolm Muggeridge e Romain Gary sul tema “C’è crisi nella cultura occidentale”.

Si abbevera poi alla “quarta via” di Gurdjieff e ai Ching, conosce e frequenta Dylan, Joan Baez, Janis Joplin, Nico dei Velvet Underground… Nel ’66 comincia a prendere sul serio l’idea di una carriera musicale nel momento stesso in cui si rese conto che come scrittore non sarebbe riuscito a guadagnarsi da vivere in modo decente. E il 26 dicembre ’67 viene pubblicato Songs of Leonard Cohen, anche se come anno di uscita verrà sempre indicato il mitico ’68. Da allora, oltre venti album, e una continua ricerca non solo musicale. Lui, ebreo di famiglia e convinzione, si incamminerà nei sentieri del misticismo sufi, del buddismo, dello zen ma anche di un certo cattolicesimo: in particolare si appassionò alle vicende di Catherine Tekakwitha, un’indiana irochese del popolo dei mohawk, all’epoca in attesa di beatificazione, che sarà la prima nativa canadese a essere. Quindi, nel ’96, viene anche ordinato monaco buddista zen.

La sua ultima fase di vita Leonard l’ha trascorsa tutta a Montreal, lavorando attorno una scrivania di pino interamente sgombra: «La strada è troppo lunga, il cielo è troppo vasto e il cuore errante è finalmente senza dimora». Difficile definirlo, troppo libero per rientrare in un’etichetta, anche solo di natura musicale. Pensate che si tratta di un ebreo che, pure, nel lontano ’70 era stato addirittura accusato di “fascismo”. Era infatti in corso il festival pop di Aix-en-Provence e un gruppetto di maoisti presenti tra la folla contestò il pagamento del biglietto e il “fascista” Cohen. Leonard, molto coraggiosamente, prese il microfono e sfidò i contestatori a salire sul palco, provocandoli e dicendo che lui e i suoi musicisti erano armati… oltreché provenienti dal feroce e indomito Sud degli Stati Uniti: «Se non vi piace quel che state ascoltando, prendete voi il microfono, noi continuiamo a suonare…». L’esibizione venne portata a termine: “the show must go on”.

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