2010 http://www.juragentium.org/ Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Il terrorista, un terrorizzato Francesca Borri intervista Danilo Zolo
La giustificazione ufficiale è la tutela dei diritti umani e la diffusione della democrazia: ma dall'Iraq a Gaza, non sono che guerre di aggressione, in nome di un progetto imperialistico di egemonia globale. Danilo Zolo sostiene che è necessaria un'indagine sulle radici e sulle ragioni del terrorismo islamico "perché l'Occidente può combattere l'integralismo altrui solo cominciando dal proprio". Si dice terrorismo, e si dice Undici Settembre. E invece il discrimine, lei sostiene, non è il 2001, ma il 1989. DZ. La mia tesi è che il discrimine è stato segnato dalla fine dell'impero sovietico, dallo scioglimento del Patto di Varsavia, dal rapido declino del bipolarismo nei rapporti internazionali e dall'emergere degli Stati Uniti d'America come la sola potenza politico-militare in grado di affermare la propria egemonia a livello globale. I documenti pubblicati dalla Casa Bianca e dal Pentagono nei primi anni novanta sono una prova lampante della consapevolezza che gli Stati Uniti hanno della propria assoluta supremazia. Essi sanno di essere la sola potenza in grado di dar vita a un new world order e di garantire, in collaborazione con l'Europa e il Giappone, una global security. La guerra di aggressione scatenata dal presidente George Bush senior contro l'Iraq nel 1991 è stata l'inizio sanguinario del "Nuovo ordine mondiale". Ed è stata, nello stesso tempo, la causa del costante incremento del terrorismo suicida, come ha provato Robert Pape nella sua accuratissima analisi Dying to Win. L'attacco terroristico dell'Undici Settembre è stato, da ogni punto di vista, una replica terroristica al terrorismo di una guerra che aveva fatto strage di centinaia di migliaia di persone innocenti con l'uso di armi di distruzione di massa quasi nucleari, come le cluster bombs, le daisy-cutter e i famigerati fuel-air explosives. Il terrorismo, lei scrive, è oggi il nuovo tipo di guerra - da entrambe le parti. Ed è l'esito di un processo di transizione dalla guerra moderna, la guerra di Clausewitz, a quella che lei definisce una "guerra globale". DZ. A mio parere il terrorismo è oggi il nuovo tipo di guerra perché terroristiche sono state sin dagli inizi le guerre degli aggressori occidentali, lo Stato di Israele incluso. Penso in particolare alle guerre che si sono susseguite negli ultimi due decenni nei Balcani, nel Medio Oriente e nell'Asia centro-meridionale. Si è trattato di guerre unilaterali, asimmetriche, non orientate alla conquista di specifici territori ma finalizzate alla conquista di una egemonia economica, politica e militare su scala globale. Si è trattato di guerre che si sono ispirate al modello terroristico di Hiroshima e Nagasaki. Il terrorismo suicida degli aggrediti è stato un tragico, spietato, disperato - anch'esso criminale - strumento di vendetta e di difesa per liberare i propri paesi dall'occupazione degli aggressori. Esemplare è la formula adottata da Yadh Ben Achour: le terroriste est en fait un terrorisé. Per un manuale di diritto internazionale, si ha terrorismo quando per motivazioni ideologiche, e non di semplice guadagno personale, si ricorre alla violenza per diffondere panico tra i civili o attaccare istituzioni, e costringere così un governo a fare o non fare qualcosa. L'obiettivo del suo libro è ripensare questa definizione. DZ. La nozione di terrorismo oggi dominante in Occidente è quella recentemente definita da Antonio Cassese, che ne sostiene la generale condivisione da parte dei giuristi internazionalisti. Egli la ritiene pertanto giuridicamente cogente, anche se, a rigore, non esiste un trattato o un documento internazionale che l'abbia fatta propria e non mancano dissensi, soprattutto nel mondo islamico. Secondo Cassese si può ritenere che una organizzazione terroristica è tale se è animata da motivazioni ideologiche, religiose o politiche ed è caratterizzata dall'uso indiscriminato della violenza contro una popolazione civile con l'intento di diffondere il panico e di coartare un governo o un'autorità politica internazionale. A mio parere, questa nozione standard, compendiata da Cassese, può essere accettata soltanto dalle potenze occidentali. Ed è molto difficile ritenerla universalmente condivisibile, come è emerso alla Conferenza euromediterranea dei ministri degli esteri tenutasi a Barcellona nel novembre 2005. La clausola più volte ripetuta da Cassese, secondo la quale si ha un crimine di terrorismo solo se la violenza terroristica è rivolta contro la popolazione civile è un residuo del passato. Oggi non solo è impossibile individuare e risparmiare nel corso di un conflitto la popolazione civile, ma la violenza omicida e distruttiva delle armi a disposizione delle grandi potenze è tale per cui la guerra di aggressione è puramente e semplicemente la negazione del diritto alla vita di migliaia e migliaia di persone innocenti e indifese. A mio parere, in alternativa alla nozione standard, si dovrebbe sostenere che il crimine di terrorismo ricorre anzitutto quando le autorità politiche e militari di uno Stato, usando armi di distruzione di massa, si valgono della loro supremazia militare per aggredire un altro Stato o una nazione, e per diffondere il terrore e fare strage di civili e di militari. E si potrebbe inoltre sostenere che sono altrettanto responsabili del crimine di terrorismo i membri di un movimento in lotta per ragioni politiche, religiose o ideologiche che diffondono il terrore e fanno strage di civili e militari attraverso l'uso di strumenti bellici equivalenti, per il loro potenziale distruttivo e omicida, alle armi di distruzione di massa, come è accaduto l'11 settembre 2001. E andrebbe aggiunto che i membri di un movimento in lotta per la difesa del proprio paese dall'aggressione terroristica e/o dall'occupazione di uno Stato aggressore sono invece responsabili di crimini di guerra o di crimini contro l'umanità se usano strumenti bellici che fanno strage di civili innocenti fra la popolazione che essi considerano nemica, come è accaduto contro i cittadini israeliani, ebrei ed arabi, da parte di kamikaze palestinesi. Essi non sono però, a rigore, dei terroristi. In questo caso specifico le eventuali sanzioni dovrebbero tener conto, come di una attenuante di rilievo, della loro sostanziale qualità di freedom fighters. Secondo Bobbio, a cui lei è stato legato da trent'anni di amicizia, la più promettente tra le possibili "vie alle pace" è il cosiddetto pacifismo istituzionale. Il modello è Hobbes - la concentrazione del potere in un Leviatano mondiale che abbia nei confronti dei singoli stati lo stesso monopolio della forza che uno stato ha nei confronti dei singoli individui. E le Nazioni Unite sarebbero un primo passo in questa direzione. DZ. Bobbio ha sostenuto per decenni che la pace poteva risultare solo da nuove istituzioni che superassero il sistema degli Stati sovrani - il cosiddetto 'sistema di Vestfalia' - ed attribuissero efficaci poteri di intervento politico-militare ad una autorità centrale di carattere sovranazionale, una sorta di Stato o governo mondiale. Ed è in questa prospettiva teorica che Bobbio ha sostenuto che l'organizzazione delle Nazioni Unite era un'anticipazione e quasi il nucleo generatore di quella 'istituzione centrale' che sarebbe stata in grado di garantire in futuro condizioni di pace più stabili e universali. Da Hobbes, Bobbio aveva preso in prestito, oltre all'idea dello stato di natura come condizione anomica e anarchica, le categorie di pactum societatis e di pactum subjectionis. Questi patti erano metaforicamente intesi da Bobbio come procedure consensuali attraverso le quali gli Stati avrebbero conferito ad un 'Terzo' il potere di regolare coattivamente i loro rapporti e le loro eventuali controversie, e quindi di garantire la pace fra le nazioni. Per Bobbio il processo di democratizzazione mondiale sarebbe rimasto incompiuto finché all'interno delle organizzazioni internazionali avessero convissuto il vecchio principio della sovranità degli Stati (e il loro precario equilibrio) e la nuova tendenza a dar vita a un 'forte potere comune'. Più volte e in diverse circostanze Bobbio si è autocriticamente rammaricato di aver aperto, nel corso della sua lunga militanza intellettuale, una grande quantità di questioni teoriche, ma di non essere mai riuscito a chiuderne alcuna. Personalmente penso che questo sia stato uno dei meriti filosofici di Bobbio, la prova del carattere aperto ed esplorativo del suo pensiero. Bobbio stesso ne era perfettamente consapevole e per questo non ha mai interrotto la sua ricerca, fedele alla sua vocazione antidogmatica. Negli ultimi anni della sua vita, come provano le sue lettere - anche le molte lettere che egli ha inviato a me -, Bobbio si è reso conto delle ombre del suo pacifismo istituzionale e della sua prospettiva cosmopolitica. Pur criticando le tesi di un mio libro che avevamo lungamente discusso assieme - Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale - Bobbio ha alla fine riconosciuto il grave rischio della concentrazione del potere internazionale nelle mani di singole grandi potenze e non aveva più usato l'espressione "governo mondiale" o "Stato mondiale". Un bilancio fallimentare in cui lei include la principale invenzione istituzionale del Novecento: i tribunali penali internazionali. Ha intitolato un suo libro La giustizia dei vincitori. DZ. La giustizia dei vincitori è una raccolta di saggi, pubblicata qualche anno fa da Laterza. Le mie tesi sono molto semplici. Nei primi decenni del secolo scorso la comunità internazionale ha concepito l'idea di dar vita ad una giurisdizione penale internazionale con l'intento di favorire processi di pacificazione e di transizione politica in situazioni caratterizzate da un'ampia violazione dei diritti umani e da conflitti armati fra gruppi etnico-religiosi. Questa tendenza si è concretizzata soprattutto nell'istituzione dei tribunali ad hoc e, più recentemente, della Corte Penale Internazionale (ICC). Come è noto, alla fine del secondo conflitto mondiale, vennero istituiti a Norimberga e a Tokyo dei Tribunali penali per processare i nemici sconfitti. Vennero decise diciassette condanne a morte, che furono immediatamente eseguite. Dopo la lunga pausa della Guerra fredda, l'esperienza della "giustizia dei vincitori" si è ripetuta a partire dai primi anni novanta e ha riguardato i vertici politici e militari della Repubblica Federale Jugoslava, con in testa l'ex presidente Slobodan Miloševi?. Demonizzato come il massimo responsabile delle guerre balcaniche e come il mandante di gravissime violazioni dei diritti dell'uomo, Miloševi? venne catturato dalla NATO e trasportato all'Aja, sede del Tribunale internazionale ad hoc, dove è morto prima della conclusione del processo. Qualche anno più tardi, in Iraq, la "giustizia dei vincitori" investì gli esponenti politici e militari del partito Ba'ath, in primis il presidente della Repubblica, Saddam Hussein che venne catturato e recluso in un luogo segreto dalle milizie statunitensi. Processato a Bagdad da un Tribunale speciale iracheno, voluto e organizzato dagli Stati Uniti, venne alla fine impiccato. Sia Miloševi? che Hussein sono stati processati per volontà degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dopo la conclusione vittoriosa di due guerre di aggressione: quella "umanitaria", scatenata nel 1999 dalla NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava, e quella "preventiva" contro l'Iraq, del 2003. Nulla è invece accaduto ai criminali responsabili delle stragi atomiche di Hiroshima e di Nagasaki dell'agosto 1945, o dei bombardamenti a tappeto delle città tedesche e giapponesi che a conclusione del secondo conflitto mondiale, quando ormai la guerra era già vinta dagli Alleati, hanno intenzionalmente provocato centinaia di migliaia di vittime fra la popolazione civile. Nulla è accaduto alle autorità politiche e militari della NATO, responsabili di un crimine internazionale "supremo" come la guerra di aggressione "umanitaria" contro la Repubblica jugoslava. I vertici della NATO si erano macchiati anche di una serie di gravissimi crimini di guerra commessi nel corso dei 78 giorni di ininterrotti bombardamenti della Serbia, della Voivodina, del Montenegro e del Kosovo. La procura del Tribunale dell'Aja, nella persona del procuratore generale Carla del Ponte, ha archiviato tutte le denuncie presentate contro la NATO, non esitando a porre la giustizia internazionale - e i diritti dell'uomo - al servizio delle potenze occidentali che avevano vinto la guerra e che sostenevano e finanziavano il Tribunale (e che continuano a farlo). Mi sembra dunque ragionevole denunciare il "sistema dualistico" della giustizia penale internazionale. C'è una giustizia su misura per le grandi potenze e le loro autorità politiche e militari. Dal 1946 ad oggi non è mai stato celebrato un solo processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per i loro crimini di aggressione. E c'è una "giustizia dei vincitori" che si applica agli sconfitti, ai deboli e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l'omertà di larga parte dei giuristi accademici e la complicità dei mass media occidentali. La strada, per lei, è quella piuttosto di una "alternativa mediterranea" - un mare metafora, prima che geografia. DZ. Nell'introduzione ad un volume collettivo, dal titolo L'alternativa mediterranea, ho sostenuto che una alternativa al trionfo della "guerra globale" potrebbe essere un processo di liberazione dell'Unione europea dalla pluridecennale sudditanza agli Stati Uniti. A questo fine sarebbe necessario il recupero del processo di Barcellona del 1995, che puntava su una stretta collaborazione fra i paesi delle due sponde del Mediterraneo. Soddisfatta una lunga serie di difficili condizioni, il Mediterraneo potrebbe divenire un luogo di dialogo e di incontro. Potrebbe trasformarsi nel tavolo della pace fra l'Occidente e il mondo islamico e giocare un ruolo importante per l'avvio di un processo di pacificazione in Medio Oriente, con effetti rilevanti su scala globale, in particolare nell'area asiatica. Questo richiederebbe un energico contributo dei paesi euromediterranei, anzitutto della Spagna, della Francia e dell'Italia. Oggi l'Europa, nella percezione diffusa degli europei e non solo nella ideologia dei neocon statunitensi, è la periferia sud-orientale dello spazio atlantico, mentre il centro è saldamente ancorato alla Statua della libertà. L'Europa unita ha oggi una popolazione che è più del doppio di quella statunitense ed è quattro volte quella del Giappone. È la prima potenza commerciale del mondo e il suo Prodotto interno lordo è pari a un quarto del Prodotto interno lordo mondiale. Ma sul piano politico e militare l'Europa è inesistente: è semplicemente la frontiera che separa l'emisfero occidentale dall'oriente asiatico e dal mondo islamico. E l'Europa è sempre più in ritardo sul quadrante di una storia contemporanea che l'energia distruttiva e innovativa del 'nuovo mondo' spinge verso una mutazione continua. La pace internazionale potrebbe essere favorita dalla capacità dell'Europa di svolgere una funzione di equilibrio strategico in un mondo che tenta di liberarsi dall'unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e di darsi un assetto policentrico e multipolare. Si potrebbe sostenere che l'ordine mondiale dipenderà dalla capacità dell'Europa di essere 'europea' e cioè sempre meno atlantica e sempre meno occidentale: un'Europa orientata a svolgere un ruolo autonomo nel medio Oriente e nell'Oriente asiatico. L'emergere di grandi potenze regionali come l'India e la Cina rischia altrimenti di fare del Pacifico il nuovo epicentro egemonico del mondo, emarginando ancora una volta l'Europa, il Mediterraneo e i loro valori. Nessuno parla dei contraccolpi di questo nuovo (dis)ordine internazionale sulle nostre società. E invece dilaga, lei scrive, la paura, "in una deriva di frustrazioni e solitudini che alimentano, crescente, una domanda di protezione individuale" - un'evoluzione del concetto di sicurezza da inclusivo a esclusivo. Un breve, intenso libro ha definito queste guerre "l'Occidente contro se stesso". DZ. Non c'è dubbio che l'Europa è investita da una ondata di insicurezza e di vera e propria paura. Come ho ricordato in un mio saggio recente, la nozione di sicurezza sta profondamente cambiando nella percezione emotiva degli europei e degli italiani in particolare. La richiesta di sicurezza è divenuta più pressante che mai ed ha mutato profondamente motivazioni e rivendicazioni: da una versione 'positiva' della richiesta di sicurezza si è passati ad una versione 'negativa'. Il termine è sempre meno associato ai legami di appartenenza sociale, alla solidarietà, alla prevenzione, all'assistenza, in una parola alla sicurezza intesa come garanzia per tutti di trascorrere la vita al riparo dall'indigenza, dallo sfruttamento, dalle malattie e dallo spettro di una vecchiaia invalidante e miserabile. Si tratta di un drastico passaggio da una concezione della sicurezza come riconoscimento dell'identità delle persone e della loro partecipazione alla vita sociale ad una concezione della sicurezza intesa come semplice difesa poliziesca degli individui da possibili atti di aggressione e come repressione e severa punizione della devianza. Occorrerebbe domandarsi, assieme a Geminello Preterossi, autore del bel libro che lei ha citato, che cosa rimane oggi dei valori, delle istituzioni, dell'identità storica dell'Occidente e, in esso, dell'Europa occidentale. In realtà, siamo in presenza di un processo paradossale che rischia di distruggere, proprio in nome degli 'interessi vitali' dell'Occidente, i valori e la stessa legittimità della cultura politica e giuridica occidentale. L'uso sistematico della forza in palese violazione del diritto internazionale sembra annunciare il tramonto di una civiltà che ha sempre dichiarato di fondarsi - e in parte si è fondata - sul diritto, sull'autonomia individuale, sulla tolleranza religiosa, sulla libertà della ricerca, sulle istituzioni rappresentative. La faccia potestativa e violenta dell'Occidente - il suo universalismo coloniale e imperiale, il suo delirio di onnipotenza - prevale su quella relativista, garantista e liberale. Il suo libro si conclude con quattro diari di viaggio: Afghanistan, Palestina, Colombia, Corea del Nord. Con un titolo che è una citazione di Erasmo, dulce bellum inexpertis, la guerra è dolce a chi non ne ha fatto esperienza - ma un titolo che è anche, soprattutto, una denuncia della "strategia intellettuale a sostegno della strategia politica e militare" di cui lei in particolare, da filosofo del diritto, accusa i giuristi. Coerente con uno dei pilastri della sua formazione, Emmanuel Mounier -"l'apoliticità è una diserzione morale". DZ. In Occidente oggi nessuno può negare che l'uccisione di un numero incalcolabile di civili e di militari, il bombardamento a tappeto di intere città, l'imprigionamento, la tortura e l'assassinio di centinaia di persone accusate senza prove di essere militanti terroristi, la devastazione della vita quotidiana di milioni di cittadini inermi sono qualcosa di infinitamente più crudele e terrorizzante di quanto il cosiddetto terrorismo internazionale ha fatto in questi ultimi decenni e potrà fare in futuro. Se i giuristi accademici 'al di sopra delle parti' fossero meno sedentari e libreschi - meno pedanti e più sensibili alle sofferenze del mondo - forse potrebbero offrire alle nuove generazioni un contributo di comprensione del 'tramonto globale' che si profila minaccioso all'orizzonte tra le fitte nubi della globalizzazione e delle guerre terroristiche che trascina con sé. Dovrebbero prendere esempio dall'esemplare testimonianza di impegno civile di Norberto Bobbio e, se possibile, non dimenticare l'energia morale del fondatore di Esprit. |