http://popoffquotidiano.it/ 12 agosto 2016
Sandro Medici in crociera coi rivoluzionari mancati di Sandro Medici
Che cosa avvenne sul transatlantico russo che nel ’78 portava i delegati italiani al festival mondiale della gioventù a Cuba? Un assaggio di “Demasiado”, il nuovo romanzo di Sandro Medici pubblicato da DeriveApprodi
Struggente l’attesa di chi rincorre una meta sfuggente. Più che sfuggente, forse sfuggita, fuggita. Spostata, slittata, scivolata, sprofondata in qualche abisso oceanico. Siccome non ce la facevamo più, affioravano dubbi insensati, peraltro inaciditi dai rigurgiti di una sofferta digestione notturna. Avremmo dovuto esserci. L’approdo era stato previsto di lì a poco, in mattinata, annunciato come imminente. Eppure non era così. Niente, non eravamo ancora arrivati. Ma che palle… Forse avevano sbagliato rotta. O ci avevano portato chissà dove. Dopo quell’iradiddio che era successo a bordo, per rappresaglia era stato deciso di scaricarci lontano, di abbandonarci su un’isola deserta a mangiarci tra di noi. E se ci avessero semplicemente ingannato? Non ci sarebbe stato nessun approdo. Non ci avrebbero portato da nessuna parte, ci avrebbero lasciato lì nel nulla, nel gorgo dell’aria stantía, in mezzo alle nuvole morte, sul pelo dell’acqua appassita. Le stavamo pensando tutte; ci si chiedeva anche di peggio. Ma per quella reticenza che a volte aiuta a placare l’ansia e anche a non rischiare di apparire ridicoli, riuscimmo a contenere lo spavento che i nostri timori più segreti si divertivano ad alimentare. Certo è che dopo seimila miglia in mezzo al mare, ora accarezzati, ora tormentati dai venti oceanici. Dopo aver attraversato tempeste e bonacce, ingoiato bolle d’aria incandescenti e respirato infreddate repentine, spazzolati dai cloruri della salsedine d’altura, cullati da serate profumate. Infoiati, impastoiati, estenuati come una fisarmonica all’ultimo respiro. Dopo giorni e giorni e anche notti, asserragliati in una convivenza coatta. Dopo trentatré riunioni, undici assemblee plenarie, una ventina di incontri ristretti, un gran numero di stancanti chiacchiericci, seriosi confronti e discussioni concitate, oltre a cinque corsi di formazione e approfondimento, per lo più trascurati e disertati. Dopo svariati ingaggi senza regole, maneschi corpo a corpo, confronti a brutto muso e attacchi a tradimento, micidiali dai-e-vai ed entrate a gamba tesa, tre cortei interni, una mezza dozzina di invasioni di campo, varie occupazioni di sale, palcoscenici, piscine, cucine, lavanderie, spogliatoi, infermerie, gabinetti e uno, anzi due assalti alla presidenza. Dopo una dozzina di feste notturne, tre corsi di ballo latino, samba, salsa e tango, più diverse esibizioni di rock acrobatico, innumerevoli quanto infauste partecipazioni a eventi o spettacoli, con decine di prove arrangiate e ansimanti. Dopo reiterate improvvisazioni musicali eseguite in ogni dove e senza ritegno, canti strappati e sguaiati, archi allentati, fiati sfiatati, chitarre scordate e percussioni scartavetrate.
Dopo un centinaio, almeno, di animose partite di calcetto, pallavolo, pallacanestro e calcio-tennis, alcune delle quali finite in rissa, centinaia di sudatissimi tornei di ping-pong, di chiassosi quadrangolari di briscola, briscola chiamata, tresette e scopone, noiosissima scala quaranta e più vivace e sbrigativo ramino, una notevole quantità di poker assatanati e clandestini, sanguinosi duelli a morra, morra cinese, scassaquindici e perfino alcune penose tenzoni a tre-tre-giù-giù. Dopo un imprecisato ma ragguardevole numero di canne, spinelli, paglie, ciospe, spingarde e soffia-soffia di varia caratura e dimensione, fumate a frequenze variabili, in solitudine o in moltitudine, segretamente o sfacciatamente. Dopo migliaia di accoppiamenti e relativi scoppiamenti, questi ultimi notevolmente più faticosi e impegnativi, di ingombranti innamoramenti, ma di quelli che saziano e straziano, di pomiciate improvvisate che per fortuna lì si esaurivano, anche se non sempre, di svariate movimentazioni carnali e carnose arrampicate, sia spericolate che rigorose, approssimate e improbabili o con metodi più collaudati, in scioltezza o acrobatiche, su cui eleganza vuole si omettano ulteriori particolari. Ecco, dopo tutta questa gigantesca pappareale, in un’attesa consumata nella più totale frenesia, in un delirio stordente, rincorrendo albe e tramonti che non erano quasi mai quelli previsti. Dopo insomma questo straripante dispiego di fiati, sudori, nervi, pulsioni, umori, oltre a impudichi fluidi, ebbene, dopo tutto ciò, il dubbio che avessimo smarrito la meta o che ce l’avessero segretamente rubata o che proprio non ci fosse alcuna meta, credetemi, non sembrava così astruso. Eravamo arrivati. Sì, eravamo arrivati: ma dove? La sirena trombeggiava a distesa. E allora tutti a guardare dai ponti. A guardare non si sapeva dove, dal ponte di qua, dal ponte di là, anche a prua, e perfino a poppa, dove si vedeva solo un’orrida, putrida schiumaglia centrifugata. Chi già tutto vestito, calzato, sbarbato e pettinato; chi ancora in mutande e a piedi nudi, caccoloso, scricchiolante e non del tutto presente a se stesso. Chi già lavata, acconciata, truccata e depilata; chi scarmigliata, intorpidita e beatamente ignara. Nessuno vedeva quel che doveva esserci. Né terra né mare né cielo. Completamente avvolti da una nuvola tiepida che smorzava lo sguardo, a ciucciolare l’odore acido e greve di alghe ammassate e moribonde, accompagnati dal brontolío di motori ormai stanchi. Forse era appena l’alba, oppure già mattino, ma il tempo si era come spostato da un’altra parte, sospeso, sfinito come tutti noi, anch’esso straniato e appesantito, in attesa che qualcuno, qualcosa riaccendesse il suo battito, riavviasse il suo cammino. C’era però un gran gracchiare di gabbiani: di gabbiani e di chissà cos’altro, forse cormorani, pellicani o altri misteriosi uccelli. A tratti spuntavano da quell’aria spugnosa e li vedevamo volare bassi e lenti, sbiaditi e sporchi, sicuramente affamati, sgraziati in quell’ondeggiare senza vento. Sbraitavano striduli e stridenti, e non era piacevole sentirli. Ma erano gli unici a dire qualcosa. Gli altri, tutti noi, respiravamo in affanno e in silenzio. Con gli occhi che si spostavano come un compasso, nell’attesa di scorgere un’unghia di terra, una linea scura, solo appena più scura del biancore opaco e imbrunito che tutto circondava. L’antica rotta per quelle Indie che più tardi sarebbero diventate fatalmente Americhe era stata completata. Ma l’approdo ancora sfuggiva. Chissà, forse non gradiva essere raggiunto, e per render vano ogni inseguimento sembrava preferisse spostarsi lungo un Occidente mobile, proprio dove il Tropico ormai s’esaurisce e l’Equatore prova ad affacciarsi.
Avevamo viaggiato circondati da orizzonti sempre uguali e lineari, che finivano e ricominciavano ma sempre lì restavano, orizzonti che s’infiammavano al sole del mattino per poi oscurarsi fino a perdersi nel buio mare di notte, in un’altalena che aveva dondolato sopra e sotto il pianeta. Una vertigine orbitale ci aveva totalmente risucchiato. Pulsava nelle orecchie, sospirava nei polmoni e poi nuotava nelle vene, dalla nuca alle caviglie. Una vibrazione spaesante che aveva confuso ogni riferimento, spezzato ogni coordinata. E lasciava senza risposta le mille domande che speravo fossero rimaste dove le avevo invano accantonate. E che invece mi avevano accompagnato, ancora sospese e inevase, inesorabilmente riemerse in quel chiarore appiccicoso e puzzolente. Perché lì, tra sargassi, squali e coralli? Perché proprio allora e non prima o non dopo? Perché io, noi e non qualcun altro, qualcun’altra? Perché le trombe non squillano e le grancasse non tuonano, le bandiere non sventolano, i canti non inneggiano, gli sguardi non brillano, i pugni non si levano? E insomma cos’è mai questa storia che attraversa l’Oceano e da un continente all’altro cerca senso e ragioni, senza tuttavia trovarne, se non in qualche confuso accenno? Ma siamo sicuri che sia davvero necessario dire e fare cose che abbiano sempre un senso indiscutibile e ferree ragioni? Non si può seguire un desiderio vago, un impulso che sia, un riflesso istintivo, una volontà semilavorata, un sentimento spensierato? Non ci si può abbandonare a una suggestione, a un’emozione, a uno svolazzo segreto? È proprio impossibile lasciar scorrere, lasciar andare, lasciar volare, lasciare che sia, senza dover obbligatoriamente ragionare, argomentare, spiegare e allinearsi a una coerenza peraltro esile e vacillante, a volte forzosa e strumentale, oltreché sovente discutibile? Millenni di quel pensiero critico che aveva fatto dubitare il mondo, nel bene e nel male, più nel male che nel bene, sembravano concentrarsi in quell’unico punto galleggiante, a ventidue gradi a nord dell’equatore e settantanove a ovest dal meridiano zero. Mi sentivo sulle spalle tonnellate di contraddizioni politiche, l’eterno sinusoide dei cicli della storia, tra progressi e regressi, tra oppressioni e rivolte, avanzate e ripiegamenti, rivoluzioni e guerre. L’intero campionario dell’evolversi delle civiltà, comprensivo delle contorsioni del materialismo dialettico, che in quanto dialettico ognuno se lo piega e se lo spiega come preferisce. Perseguitato, nell’ordine: dal martirio di Spartaco crocifisso, innanzitutto, e poi, a seguire, dall’inconcludenza dei Ciompi e da quel lazzarone di Masaniello, dal pugnale girondino dell’infida Charlotte, da Pisacane e Garibaldi, dalla Repubblica Romana e dalla Comune di Parigi, dalla salma di Lenin, dal cranio sfondato di Trotskij, dal rinnegato Kautski e l’infame Noske, dai Quaderni di Gramsci e gli intrighi di Togliatti, dai fratelli Cervi e il partigiano Johnny, da Martin Luther King e Malcolm X, da Susanna e Giovanna, che erano le più belle del collettivo di Architettura, dall’inguardabile pizzetto di Ho Chi Min, dallo sguardo soffice di Nelson Mandela, dal sessantotto e dal settantasette ma non dall’ottantanove, che per fortuna era ancora lontano. Per non parlare poi di Freud e Joyce, della carrozzina rotolante di Ejsenštejn, del Bauhaus e del razionalismo, di Brecht e Sartre, di Orwell, Bradbury e Clarke, di Salinger e Bukowski, dei quadrilateri di Mondrian e le scatolette di Wharol, di John Fante e Jack Kerouac, di Kubrik e di Fellini, dei morti di Reggio Emilia e i treni per Reggio Calabria, della bianca gonna al vento di Marylin Monroe, dei cantautori genovesi e quelli romani, di Pasolini «il civile silenzio di uomini rimasti uomini» e di Pavese «verrà la morte e avrà i tuoi occhi», del matto sulla collina dei Beatles e del diciannovesimo esaurimento nervoso dei Rolling Stones. In compenso, mi lasciavano alquanto indifferente le spinose vicende di Caino e Abele, Ettore e Achille, Romolo e Remo, Bartali e Coppi, Borg e Panatta, Mazzola e Rivera, Arturo e Zoe. Restavo tuttavia alquanto indispettito per il mistero del furto della chitarra elettrica di Jimi Hendrix dopo il concerto del Teatro Brancaccio a Roma. Chi l’aveva rubata e, soprattutto, dov’era andata a finire? Anni e anni di vane ricerche tra gli spacciatori di rock estremo e i ricettatori di modernariato nostalgico. Se chi sta leggendo dovesse saperne qualcosa, è invitato a rivolgersi cortesemente all’editore o direttamente all’autore, ma con rispettosa cautela. Al di là della Fender biancolatte con effetto eco-potenziato, che rischia di distrarre e fuorviare, tutti quegli interrogativi, quelle inquietudini, quei turbamenti restavano impietosamente senza risposta e non offrivano alcuna certezza. Nemmeno quella di ritrovarsi con la terra sotto i piedi. Ma la terra infine affiorò. Appena accennata, poco più che un filo un po’ più scuro, un graffio grigio in mezzo al nulla, un lievissimo sbaffo che prima non c’era e che finalmente cominciava a scorgersi. L’entusiasmo di grida, fischi e canti pacchiani, applausi, sbracciate e salti scomposti. Ancora l’urlo della sirena, in una rombante pernacchia in fa maggiore. Con il querulo accompagnamento degli uccellacci al nostro seguito, che però cominciarono a volare più allegri e leggeri. Anche l’ombra nebulosa che ci aveva imprigionato a quel punto cominciò ad arrendersi, diradandosi lentamente e lasciando che i colori illuminassero l’aria. L’azzurro s’accendeva gradualmente, un verde via via sempre più nitido, il profilo di pietra della città, ancora velato ma sempre più riconoscibile. La terra si avvicinava e la nuvola di vapore puzzolente restava dov’era, barriera di confine tra il grande mare e l’isola agognata. L’avevamo superata, eravamo passati. Ma solo dopo aver consumato quel penoso tratto dell’ultimo, pensoso transito. Fu un sollievo. Forse potevamo cominciare a essere contenti. Nessun dirottamento, nessuna deviazione, nessun inganno, eravamo davvero arrivati a L’Avana. «Finalmente a Cuba, non ce la facevo più» – sussurrò il Carlino, martello modenese che schiacciava qualsiasi cosa gli capitasse nei pressi, palle, pallette, scarpe, cappelli, patate, banane, cetrioli e pagnottelle. Guardai il fazzoletto rosso che aveva al collo e precipitati in una felice disperazione. Riuscii perfino a sorridergli. L’Avana dunque. In un’esercitazione che potremmo definire inutilmente esibita, elenchiamo di seguito le più ricorrenti reattività al solo ticchettare delle sue tre agili a in successione fonetica o in estensione grafica. Per le categorie più immediate e lineari, siamo ai Caraibi, il sole, il mare e le palme al vento, i sigari e il rum (che là si chia- mano puros e ron), il mambo, la rumba e la salsa, ananas, noci di cocco, mango e patate dolci, forse le aragoste, sicuramente la generosa avvenenza delle signore cubane. Per i politicamente consapevoli tardo-ossessivi, difficile sfuggire al richiamo della rivoluzione di Che Guevara e Fidel Castro, il Granma e la Sierra Maestra, Cuba libre e frijoles, la Baia dei porci e la crisi dei missili, Kruscev, Kennedy e Papa Giovanni, l’embargo e la prigione di Guantanamo, e volendo, in uno dei rari casi di rilassamento ideologico, anche Guantanamera, ma cantata in forme partecipative, battendo ritmicamente le mani tutti insieme. Per le soggettività più rarefatte e volubili, inclini a uno studiato disincanto, lo scenario diventa stucchevolmente allusivo: si va dal Mojito alle vecchie Cadillac, ancheggianti e rossofuoco, da Hemingway al Tropicana, dal Barocco coloniale alla Playa del Este, dal son al bolero e all’habanera, da Tito Puente a Perez Prado a Chucho Valdés, da Omara Portuondo e Compay Segundo agli Orishas e a Los 4 e Gente de Zona per i più aggiornati, dalle fragole con il cioccolato alla generazione ipsilon. Qualsivoglia sia l’interpretazione o la percezione, eravamo dunque affacciati sul lungomare di L’Avana, che là chiamano Malecón. E stavamo per sbarcare. Era uno dei primi giorni dell’agosto del 1978. La nostra storia comincia novemila chilometri prima. In un altro mare, qui da noi in Italia, a Genova. In una mattinata di luglio strapazzata da un vento accaldato e sabbioso, un potente scirocco che era partito dalle coste africane e aveva sorvolato tutte le isole del Tirreno e aveva ancora voglia di soffiare. E lì sul molo numero due, dove pian piano stavano arrivando los delegados italianos, tirava ancora di più, spettinando le onde, spruzzando l’incolpevole pontile. Anche la grande nave, la formidabile motonave Sobinov, un po’ caracollava anch’essa, sotto la spinta del vento e gli schiaffi delle onde. Per quanto voluminosa e ancorata alla banchina, oscillava e rioscillava. Il suo profilo nero s’abbassava appena e poi risaliva. E l’acqua del porto schioccava e mugolava ai suoi fianchi. Sembrava impaziente di slacciarsi da terra e andarsene finalmente in mare aperto. E aveva ragione, partire, partirò, partir bisogna. Anche noi ci eravamo ormai spazientiti ad aspettare, sudando sul molo, con le magliette e le camicie che il vento ci appiccicava addosso, tra zaini e valigie, buste e fagotti, borse e borsette. Sotto quel sole genovese che saliva lento come il fumo di Guccini. A qualche metro ci aspettava la scala che s’arrampicava sulla fiancata della paratía. Sotto la quale formicolava una piccola folla che vociava e sbraitava. Un viavai di poliziotti e marinai, capidelegazione e accompagnatori, notabili e burocrati, sicuramente doganieri e funzionari, i soliti infiltrati, un compagnuccio veneto con una fascia rossa sulla fronte e la chitarra a tracolla che rideva e canticchiava, più la consueta quota di imprecisati fiancheggiatori o semplici curiosi che non si sa bene cosa facciano ma sembra comunque che qualcosa facciano. Era tutto un passare e ripassare di carte e documenti, un inforcar di occhiali e un impennarsi di penne a biro, un levarsi di schiamazzi, svolazzi e punti esclamativi. In un concentrato di lingue ostili e divergenti. Un russo tagliente, un italiano scattante, un inglese masticato, un po’ di francese, che non c’entrava niente ma che dà sempre un tocco di raffinatezza, e un po’ di spagnolo per gli esuli sudamericani senza passaporto in quanto espulsi o fuggitivi. Ed erano proprio loro, i cileni, gli argentini, gli uruguayani e i brasiliani, il problema. La causa che ci teneva ancora lì inchiodati al porto. La polizia di frontiera non autorizzava l’imbarco perché diversi passaporti non erano più validi, inesorabilmente scaduti o direttamente annullati in contumacia nei paesi d’appartenenza. Se ne intuiva del resto la ragione. Si trattava di op- positori politici, sfuggiti a repressioni e persecuzioni, in alcuni casi condanne, su cui pendevano anche richieste di estradizione, che tuttavia l’Italia non riconosceva. Ma erano pur sempre cittadini indesiderati, che avevano finito per perdere diritti di cittadinanza e disperdere la propria nazionalità. Identità estinta, appartenenza negata. Apolidi e senzapatria, clandestini del mondo. Non potevano imbarcarsi né lasciare l’Italia. Protetti dal diritto d’asilo, ma prigionieri di chi gliel’aveva concesso. D’altra parte, sarebbe stato impensabile rinunciare a loro, lasciarli a Genova e chissenefrega. Come succedeva in casi di questo genere, si sparse tra le nostre accalorate fila un riflesso d’indignazione solidale, oltreché spazientita. O si parte tutti o nessuno sale sulla nave. E lungo il molo numero due riecheggiò improvviso un antico canto di centinaia di voci spiegate: «Nostra patria è il mondo intero / nostra fede è la libertà…». Quel pompante rimbombo, così generosamente compatto, nessuno se l’aspettava. Men che meno i funzionari di polizia, che certo tutto avrebbero desiderato in quel momento, fuorché fronteggiare quel coro tonante, che, nonostante la scadente qualità canora, a loro doveva apparire alquanto minaccioso. Erano lì con tutti quei fogli in mano, a guardarsi apprensivi sul filo del panico. «Ritelefoniamo al ministero, cazzo! È a Roma che devono trovare una soluzione», disse sbuffando uno di loro, quello che si distingueva per la divisa che a stento conteneva le sue rotondità. Andò nel suo ufficio-gabbiotto con le scartoffie al seguito e tornò quasi subito. Chiese del comandante della Sobinov, che subito accorse dietro il suo sigaro e nella sua smagliante uniforme bianca che lo rendeva ancora più slanciato. Intorno al chiatto di fureria e allo smilzo di crociera, si formò un capannello, via via sempre più affollato. Non sapremo mai se l’ufficiale russo capì cosa chiedesse il sottufficiale italiano. Sfoderò quest’ultimo una penna e il comandante firmò a raffica ogni foglio o documento che gli passasse tra le mani, sfumacchiando e sorridendo nel suo allegro cirillico. Tanto bastò: il contenzioso si sciolse, il sollievo si sparse. Un funzionario appollaiato su un’imprecisata scrivania, un ministeriale come tanti in un ufficio come tanti, aveva eroicamente disciolto uno spinoso grumo diplomatico. In uno scatto di burocrazia creativa, si era inventato un affidamento temporaneo di tutti i rifugiati all’autorità navale sovietica, con l’impegno di una futura restituzione. Nella sua qualità di suprema autorità in mare, il comandante poteva prenderseli in custodia garantendone l’incolumità. Ma a condizione di riportarceli in Italia quanto prima, sani, salvi, abbronzati, un po’ ingrassati e possibilmente più allegri. Non restò a quel punto che dare l’assalto a quella sospirata scala, superando e scavalcando chiunque capitasse lungo la salita. In una ventina di minuti eravamo già tutti a bordo. Ufficiali sul ponte di comando, equipaggio agli ordini: timonieri al timone, macchinisti alle macchine. Turbine saltellanti, paratíe tremolanti. Tavoli apparecchiati, cabine attrezzate, letti rifatti e cessi ripuliti; bar aperti, cucine ribollenti. Rifornimenti eseguiti, stivaggio completato. Chiusi i boccaporti, pompe e stantuffi scatenati. Sciolte le cime, liberati gli ormeggi. I motori presero forza e rimbombanti soffiarono in cielo polveri e fumi. L’urlo della sirena si srotolò nell’aria: gli rispose un applauso a distesa. Si alzarono alte le grida di gioia, i canti di giubilo e l’intera declinazione del vaffanculo, rivolta a bersagli rimasti indefiniti ma pur sempre meritevoli di ingiurie e contumelie. Infine la prua si scostò dal molo: lenta, morbida, tremolante. Eravamo partiti, il viaggio poteva dunque cominciare. No, non ancora. È necessaria una piccola avvertenza. Lungo queste prime miglia di navigazione introduttiva, sarà bene av- vertire che questa storia verrà raccontata così come viene, così come gli eventi e le circostanze richiederanno. Mi scuseranno i custodi della grammatica letteraria, ma il narrante non seguirà né canoni né modelli, attraverserà i tempi e gli spazi spaziando e tempestando, varierà insomma secondo cadenze e registri del tutto arbitrari. Potrà essere collettivo o individuale o non di rado astratto, distratto e anche un tantino mendace, oppure potrà sentirsi partecipe o al contrario distante, a volte direttamente coinvolto, così come irresponsabilmente sfuggente e perfino reticente. Non c’è tuttavia nulla di cui preoccuparsi, almeno non più di tanto. Vedrete che ci divertiamo. E allora, buon viaggio.
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