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31 luglio 2016

 

Recensione a “L’Europa e la rinascita dei nazionalismi”

a cura di Giovanni Ciprotti

 

Il “manifesto di Ventotene” non sembra essere più un riferimento ideale per i cittadini e i politici europei. Non lo è mai stato per i cosiddetti euroscettici, lo è sempre meno anche per chi si dichiara europeista. Eppure, considerato il numero e la complessità delle questioni che ci preoccupano e la cui soluzione difficilmente potrà essere concepita su scala nazionale, mai come in questo momento si avverte la necessità di un’Europa diversa: la crisi economica, scoppiata nel 2008, della quale non si vede la fine; il fenomeno migratorio, straordinario nelle dimensioni; i rapporti con gli Stati Uniti da un lato e la Russia dall’altro; i conflitti armati presenti a ridosso dei confini orientali della Unione. Se è vero che l’Europa di Bruxelles – sebbene supportata dall’ombrello militare statunitense – ha garantito ai cittadini europei una pace durevole e un lungo periodo di benessere a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, le istituzioni europee hanno dato negli ultimi anni una pessima prova di sé nel fronteggiare le recenti sfide. Ma la responsabilità dei fallimenti delle politiche comunitarie possono essere attribuite soltanto alla Unione Europea, ai suoi politici e ai suoi funzionari? Gli Stati membri stanno remando tutti nella stessa direzione? Il successo dei movimenti secessionisti, presenti in diversi paesi europei, dipende soltanto da dinamiche interne alle singole nazioni?

Lo storico Valerio Castronovo, con il suo libro “L’Europa e la rinascita dei nazionalismi” edito da Laterza, ci aiuta nella ricerca di alcune risposte a questi e ad altri interrogativi. Nel libro si ripercorrono le tappe che hanno portato alla trasformazione della “Europa dei 12” alla Unione di 28 Paesi (o 27, se si considera la Gran Bretagna già fuori), alla istituzione della Banca Centrale Europea, alla introduzione dell’euro e alla distinzione, all’interno della Unione, tra i Paesi della Eurozona e gli altri che hanno deciso di restarne fuori.

Larga parte del libro è dedicata ai temi emersi, o anche soltanto divenuti più complicati, a seguito della crisi economica che ha duramente colpito l’Europa dal 2008 in poi: la linea del rigore imposta da alcuni paesi, in primis la Germania; il consistente aumento della disoccupazione in tutti i paesi dell’Unione; l’intensificarsi dei flussi migratori – in particolar modo dopo lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011 – e il dilagare degli atti terroristici sul territorio europeo.

Nel primo decennio post-Ottantanove prevaleva l’euforia per la fine della contrapposizione tra i due blocchi. Il primo importante banco di prova è stato la riunificazione della Germania, un processo portato a compimento in neanche dodici mesi, dopo aver superato alcune iniziali riserve manifestate da più di una nazione, Francia in testa, tra le quali era ancora vivo il ricordo delle due guerre mondiali.

Gli anni successivi furono caratterizzati da una serie di iniziative volte a migliorare il grado di integrazione tra i Paesi membri: il Trattato di Maastricht nel 1992; la stesura della Carta dei diritti nel 1999; la decisione, alla fine degli anni Novanta, di affidare ad una Convenzione l’incarico di stilare la Costituzione europea. Parallelamente, si era iniziato a riflettere sulla possibile inclusione dei paesi dell’Europa orientale, finalmente liberati dal giogo sovietico. Se l’obiettivo della adesione alla Comunità dell’altra metà dell’Europa non era in discussione, qualche dubbio era invece emerso relativamente ai tempi di attuazione del progetto. A tale riguardo, il professor Castronovo ci ricorda che “l’ex presidente dell’esecutivo europeo Jacques Delors aveva consigliato, a suo tempo, che sarebbe stato miglior partito procedere innanzitutto a un “approfondimento” della Ue: ovvero, a un rafforzamento in via preliminare della struttura esistente mediante una maggiore integrazione sia delle politiche economiche e sociali, sia di quelle concernenti le iniziative e le relazioni internazionali”.

La vicenda prese una piega diversa e portò all’ingresso, a partire dal 2004, di diversi paesi che un tempo chiamavamo “satelliti dell’Urss”. Un allargamento impetuoso che non facilitò il processo di integrazione politica. Infatti, l’autore spiega che “dopo l’allargamento ad Est delle frontiere della Comunità, non è che i nuovi soci della Ue fossero interessati al conseguimento di una mèta finale come quella degli Stati Uniti d’Europa, concepita a suo tempo dai padri fondatori della Cee. Ciò che più contava, per loro, in quanto segnati da un passato di asservimento a Mosca e di pressoché generale povertà, era sia il recupero della propria identità nazionale sia l’acquisizione dei benefici (a cominciare dai fondi strutturali) derivabili dall’integrazione economica nella Ue”.

E se l’allargamento a est aveva reso più difficile il cammino verso un’Europa politica, sul fronte delle riforme istituzionali le cose non andarono meglio: nel 2005 due referendum popolari, rispettivamente in Olanda e in Francia, bocciarono la Carta costituzionale faticosamente partorita due anni prima dalla Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing.

I progressi (pochi) e gli insuccessi (molti) delle politiche comunitarie sono stati, sostiene l’autore, alla base della avanzata delle destre e in generale dei movimenti nazionalistici: “era stata un’ondata di euroscetticismo, dovuta alla crisi economica e all’erosione del sistema di protezione sociale, a determinare lo smacco subìto dai partiti di centro-sinistra, socialisti e riformisti. Era così risultato evidente, dal successo dei partiti moderati e dalla performance di quelli dell’ultradestra, come si fosse manifestata, al di là delle loro differenze, una tendenza di fondo orientata verso la “rinazionalizzazione” dell’Unione europea”.

Sul fronte della politica estera comunitaria, il professor Castronovo non usa mezzi termini nel sottolineare “la scarsa capacità di Bruxelles di elaborare una linea di condotta univoca e coerente” in occasione delle diverse crisi in cui si è trovata coinvolta – Ucraina, Libia e Siria – così come nel comportamento nei confronti della Turchia, importante partner per una efficace gestione dei flussi dei profughi siriani e iracheni ma non sempre gradito candidato ad entrare nella Ue.

Nel capitolo conclusivo si legge: “se nella situazione così impietosa in cui è scivolata l’Europa è dovere di tutti i suoi partner fare ognuno la propria parte per scongiurare una disintegrazione della Ue, è un fatto comunque che da Berlino dipende, in primo luogo, il futuro dell’Europa comunitaria”.

L’auspicio del professor Castronovo è condivisibile, anche se attribuisce alla Germania un carico di responsabilità forse eccessivo. E’ invece necessario che tutti i Paesi membri dimostrino un grado di adesione all’idea di una Europa politica che finora non hanno manifestato: non la Gran Bretagna, che ha sempre dichiarato la sua contrarietà ad una più stretta integrazione politica, fino al recente referendum sulla Brexit; non la Francia, che non ha mai voluto rinunciare alla propria sovranità fin dai tempi della Ced; non la Germania della cancelliera Merkel, che ha preferito estendere la propria influenza senza i vincoli della gestione comunitaria; non i Paesi di più recente adesione, gli ex membri del Patto di Varsavia, che dalla Unione hanno finora soprattutto avuto, ma che sembrano restii a condividere con gli altri Stati membri oneri e responsabilità, come dimostra l’atteggiamento sul fenomeno migratorio e sul meccanismo di ripartizione dei profughi richiedenti asilo.

A questo riguardo, forse non sarebbe male dedicare uno studio specifico all’impatto che ha avuto l’allargamento della Ue – soprattutto ad est – sul processo di integrazione politica. In questo periodo in cui si è tornato a parlare di nuovi ingressi, a partire dalla Turchia del “sultano” Erdogan, sarebbe opportuno far tesoro delle parole di Jacques Delors già ricordate, accantonare l’idea di allargare ulteriormente i confini della Unione e dedicarsi al suo consolidamento istituzionale.

Far entrare la Turchia in Europa significa spostare i confini esterni della Ue fino alla Siria e all’Iraq. Ci troveremmo faccia a faccia con conflitti armati e senza poter contare su una politica estera e una difesa comunitaria. Per la nostra sicurezza saremmo costretti ad affidarci esclusivamente alle forze Nato e quindi a Washington. E’ una prospettiva allettante?

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