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Venerdì 15 aprile 2016

 

Nella terra proibita

di Bianca Saini

 

Il Jebel Marra è un vasto territorio montuoso, al centro della regione del Darfur. È stato praticamente chiuso al mondo esterno dal governo di Khartoum, per nascondere tutto quello che vi succede. Questa terra è stata raccontata dagli unici due giornalisti che l’hanno raggiunta negli ultimi anni.

 

Quest’anno due premi giornalistici importanti sono stati assegnati, non a caso, a una fotografa e a un reporter che l’anno scorso sono riusciti a raggiungere il Jebel Marra, una vasta area montuosa al centro della regione del Darfur, da sempre roccaforte dei movimenti di liberazione e, in particolare, del Movimento di liberazione del Sudan,  l’ala di Abdel Waid Alnoor.

 

I premiati

La fotografa, Adriane Ohanesian, di New York, ha avuto il secondo premio nel prestigioso World Press Photo, categoria "Fatti contemporanei". Premiata il suo scatto che ritrae un bambino di sette o otto anni, Adam, colpito da una bomba incendiaria, con parte della pelle del volto, della testa e delle braccia carbonizzata e senza nessuna medicazione; sullo sfondo la madre con un fratellino sulla soglia della loro capanna.

Il giornalista Klaas van Dijken, un freelance olandese, ha vinto il premio De Tegel (The Tile) per un reportage pubblicato sul giornale olandese Trouw. La motivazione della giuria è commovente: «Un reportage importante, scritto in modo emozionante, da un giornalista che ha viaggiato fuori dalle normali vie per permetterci di vedere un dramma dimenticato».

 

Zona inaccessibile

Infatti, Adriane Ohanesian e Klaas van Dijken, che hanno viaggiato e lavorato insieme, sono con ogni probabilità gli unici giornalisti ad aver raggiunto una zona controllata da un movimento di opposizione armata in Darfur da quando il Tribunale penale internazionale ha accusato il presidente sudanese Omar al-Bashir di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità per il modo di gestire la crisi nella regione, scatenando la repressione contro i civili oltre che contro le forze ribelli.

Era il 4 marzo 2009. Da allora il regime di Khartoum ha reso praticamente impenetrabile la regione all’informazione indipendente, avendo così buon gioco nel far scendere una cortina di silenzio su quanto vi succede.

In un’intervista rilasciata a Nuba Report, un’organizzazione che ha come obiettivo quello di fare informazione dalle zone di conflitto del Sudan (Monti Nuba, Nilo Azzurro e Darfur, appunto), Adriane Ohanesian dice che ci sono voluti quasi due anni per avere la garanzia di poter raggiungere, e poter lasciare in sicurezza, la zona su cui volevano lavorare. Sottolinea che hanno potuto lavorare solo nelle zone controllate dai movimenti di opposizione armata. «È importante sapere che nessuna delle zone controllate dal governo è accessibile… Khartoum attua un controllo ferreo. Non impedisce l’accesso al Darfur solo ai giornalisti, ma anche alle Nazioni Unite, alle ong; a tutti quelli che possono far uscire informazioni su quello che accade in quella regione». Aggiunge, anche, che ora sarebbe impossibile realizzare il viaggio che lei e Klaas van Dijken hanno fatto l’anno scorso.

Infatti, da metà gennaio è in atto un’offensiva governativa che punta a riconquistare il controllo dell’area. La metodologia è la stessa usata anche nel passato: bombardamenti ripetuti dei villaggi fino a distruggerli completamente, razzie, stupri e violenze di ogni genere sulla popolazione civile in modo da spingerla a lasciare la propria terra. Sono già 130mila gli sfollati scappati a causa di quest’ultima offensiva. Si aggiungono agli oltre 2 milioni che, da anni, si trovano nei campi profughi che punteggiano la regione.

 

Nascosti nelle grotte

Ma molta gente ha deciso di provare a resistere senza abbandonare il proprio territorio. Sono decine di migliaia le persone alla macchia. Entrambi parlano con particolare emozione dell’arrivo in una zona impervia, caratterizzata da profonde caverne. Racconta Klaas in un’intervista con Radio Dabanga: «Ricordo che un giorno ci siamo arrampicati in alto sulle montagne. Era mattino presto e abbiamo sentito un rumore in lontananza. Era gente che sussurrava, un bambino piangeva e noi siamo entrati in una grande caverna, piena di fumo. Non ho mai visto niente del genere in nessun’altra parte del mondo…Centinaia di famiglie vivevano lì. Le abbiamo intervistate e ci hanno detto che stavano nascoste perché il governo le bombardava. Sono civili sudanesi, così il governo bombarda il suo stesso popolo».

Adriane è rimasta particolarmente colpita dalla situazione delle donne. «C’erano così tante vittime di violenza sessuale, sia donne che ragazze… Molte hanno subito violenze ripetute da gruppi di soldati governativi o miliziani loro alleati, conosciuti come janjaweed. Quelle che abbiamo intervistato stavano in villaggi controllati dal governo e sono scappate sulle montagne».

Le zone controllate dai ribelli sono isolate, così la popolazione civile non riceve nessun aiuto, aggiunge Adriane. «Da quando la foto di Adam ha vinto il premio della World Press la gente mi chiede se Adam è stato curato per le sue ustioni. La risposta è no. Non ci sono organizzazioni che lavorano là, non c’è niente. Non ci sono ospedali. Non ci sono cure mediche. Il governo ha bloccato le strade e così i farmaci non arrivano. La gente lotta per coltivare un po’ di cibo e per raccogliere l’acqua. Se il governo bombarda i punti d’acqua, come può sopravvivere la gente?».

 

Referendum fasullo

Bisogna sottolineare che questa situazione drammatica è stata documentata l’anno scorso, in un momento in cui i combattimenti erano sporadici. Ora, come hanno già detto i due giornalisti, la situazione è ben peggiore perché da metà gennaio il governo ha sferrato una potente e prolungata offensiva, allo scopo di stanare le forze ribelli dalla zona, ma avendo come obiettivo la popolazione civile.

Nei giorni scorsi in Darfur si è svolto un referendum in cui la popolazione è stata chiamata ad esprimersi sull’assetto amministrativo della regione. Non sembra probabile che le operazioni referendarie siano potute svolgersi regolarmente durante un’offensiva militare, con migliaia di persone nascoste nelle caverne e altre decine di migliaia in fuga verso nuovi campi profughi. Solo questo dice chiaramente di come questo referendum non possa essere considerato un'espressione libera della volontà della popolazione darfuriana.

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