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Lunedì 02 maggio 2016

 

C’è un conflitto al cellulare

 

Una voce della giustizia e della pace è stata messa a tacere. Domenica 20 marzo è stato ucciso padre Vincent Machozi Karunzu. Da anni andava denunciando il genocidio del suo popolo, l’etnia nande nel Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, vittima dello sfruttamento illegale dei minerali che si trovano in quella terra. Recentemente, il sacerdote aveva chiesto un’indagine internazionale che avrebbe dimostrato il coinvolgimento dei presidenti congolese e rwandese nei massacri compiuti nella regione da gruppi armati. La sua voce era diventata troppo scomoda, per questo è stata zittita. Ora il suo popolo – orfano di una guida, ammutolito e terrorizzato – è più solo e isolato.

 

Ma che c’entriamo noi con l’uccisione di questo coraggioso sacerdote e di quella di milioni di persone, morte nella guerra che si combatte da oltre dieci anni nella regione del Kivu? La risposta è conosciuta ai più. Ma vale la pena rinfrescare la memoria. Alcuni dei minerali (columbite - tantalio, tungsteno…) che si trovano in quell’area dell’Rd Congo sono componenti essenziali per costruire cellulari, tablet e computer, che tanti di noi usano quotidianamente. Quei minerali si trovano anche nei giacimenti in Canada e Australia. Ma le multinazionali preferiscono quelli importati dal Kivu: hanno costi inferiori perché frutto – lo vogliamo ribadire – del lavoro schiavo in miniere illegali, dove non sono risparmiati neppure i bambini, impiegati a estrarre i minerali nei tunnel più stretti.

 

Quindi sì, c’entriamo anche noi, fruitori finali dei beni sottratti all’Rd Congo. Ogni volta che acquistiamo il cellulare e altri strumenti elettronici siamo indirettamente complici della violenza e della barbarie che si perpetuano nella regione orientale di quel paese. E la produzione di quei minerali è stimolata dalla martellante pubblicità che sollecita la clientela in ogni angolo del mondo ad acquistare cellulari della nuova generazione. Più che per necessità per inseguire una moda diffusa, senza pensare che tutto ciò va ad aumentare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori in Kivu, alimentando il clima di violenza nelle zone di conflitto.

La riduzione del consumo di manufatti elettronici è un primo passo di giustizia: contribuisce a far diminuire la produzione di quei minerali e ad abbassare il livello di conflittualità nella regione dove viene estratto.

 

Ma occorre fare anche un altro passo. A livello giuridico. Da tempo numerose associazioni, in Italia e in Europa, si stanno battendo affinché l’Unione europea si doti della legislazione sulla tracciabilità dei minerali, dall’inizio del processo di purificazione alla produzione dei manufatti, in modo che i consumatori possano acquistare telefonini e altri dispositivi elettronici sicuri di non finanziare la guerra con i loro acquisti.

Legislazione fortemente caldeggiata dalla Conferenza episcopale congolese e da oltre cento vescovi nel mondo, che sul tema hanno sottoscritto una petizione all’Ue. A dire il vero, il Parlamento europeo ha approvato, nel maggio del 2015, un progetto di regolamento chiamato a certificare l’origine legale dei minerali, come stagno, tantalio, tungsteno (i 3T) e oro. Ma, negli ultimi mesi, il Consiglio dell’Ue – formato dalla Commissione europea e dai 28 stati membri dell’Ue – ha annacquato il provvedimento a favore di un sistema volontario e parziale, non più vincolante per i paesi europei.

 

La battaglia legale, però, deve continuare, con l’appoggio di una opinione pubblica sensibile e informata. Per questo Nigrizia sostiene la campagna lanciata da enti come la Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario), la Rete per la pace in Congo in Italia e, a livello europeo, il Cidse (che raggruppa 18 organizzazioni impegnate per lo sviluppo) affinché l’Ue adotti un provvedimento legislativo che imponga l’obbligo della tracciabilità, in modo da recidere il legame tra l’estrazione dei minerali e il finanziamento dei conflitti armati. Un modo concreto per sostenere la campagna è la sottoscrizione della petizione che si trova sul sito www.justicepaix.be/minerali-di-conflitto/ 

 

La solidarietà verso i nostri fratelli e sorelle del Kivu ci spinge ad assumere la nostra responsabilità come consumatori e cittadini. Per far sì che il sacrificio di padre Machozi non sia vano e la sua gente possa godere delle ricchezze del territorio con un lavoro dignitoso, nella pace e nella legalità.

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