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29 gennaio 2015

Charlie il siriano
di Dima Wannus
Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio

Io non sono Charlie. Io sono una siriana che vive a Beirut, come molti altri siriani, gran parte dei quali sono sfollati, scappati da guerra e distruzione.

Alcuni di loro sono morti qualche giorno fa, sotto lo stesso cielo che ripara gli americani, i francesi, i russi, gli iraniani, i palestinesi, gli iracheni e i somali. Ad alcuni di loro il sangue si è gelato nelle vene e i loro piccoli polmoni non sono stati più in grado di inalare l’aria gelida in una tenda lacerata dal vento, appesantita dalla neve e spazzata via dai torrenti impetuosi su quella stessa terra su cui vivono i leader del mondo che hanno marciato l’altro giorno a Parigi.

“Io non sono Charlie”, perché non ho gli stessi diritti di Charlie: il diritto di esprimermi e di rompere i tabù. Perché mi sono ribellato quattro anni fa e per questo sono stato ucciso da un esercito che ha la mia stessa nazionalità e con cui condivido la terra, l’aria, l’acqua. Perché quegli stessi leader che hanno marciato a Parigi qualche giorno fa hanno tenuto la bocca chiusa, limitandosi a guardare mentre venivo torturato, sgozzato, mi venivano strappate le unghie, la carne mi si attaccava alle ossa per la fame ed il mio viso si tingeva di blu mentre soffocavo sotto le bombe chimiche. Loro erano lì, ognuno nel proprio palazzo, davanti alla tv, davanti ai dossier sulla mia tragedia, a guardare in silenzio, senza alzare un dito. Hanno soltanto espresso la loro preoccupazione e il loro dispiacere. Magari hanno anche versato una o due lacrime, ma mai una volta si sono riuniti in una fila compatta come il terrorismo li ha portati a fare a Parigi giorni fa.

“Io non sono Charlie”, ma sono contro il terrorismo dovunque esso esista. Sono un siriano che ha cambiato la sua immagine del profilo su Facebook con una foto di Charlie. E dopo pochi giorni l’ho sostituita con una foto di Raef Badawi, l’attivista saudita condannato a mille frustate e a dieci anni di carcere con l’accusa di aver “insultato l’Islam”. Prima di allora, l’avevo sostituita con una foto di un Babbo Natale arrestato ad Amman perché “faceva proselitismo”. Così come l’ho rimpiazzata con foto di attivisti iraniani condannati a morte in modo arbitrario, poi con una foto del poeta qatariano Muhammad bin al Dhib al Ajami. E non dimentico la foto delle vittime dell’attacco alla scuola di Peshawar in Pakistan.

Sì, sono un siriano che trova sempre il tempo per seguire le notizie di violenza e di violazione dei diritti umani nel mondo. Mentre tanti non trovano il tempo di essere solidali con la mia causa. Ogni mattina un nuovo Paese mi inserisce nella lista degli “indesiderati”. Ogni mattina trovo chi mi caccia via dal mio lavoro, dalla mia casa o dalla mia tenda. E ogni mattina perdo un pezzo della mia anima. Eppure sono ancora in grado di essere solidale con gli altri, perché sono dalla parte della libertà dovunque le persone ne abbiano bisogno e dovunque venga violato il loro diritto a esprimersi e a vivere con dignità.

“Io non sono Charlie” perché rifiuto ogni “ma”. Non dico: “Sono contro l’uccisione di civili, ma…”, oppure: “Sono contro i tiranni, ma sostengo la loro laicità”. Non dico: “Sono a favore della causa di liberazione dei popoli in Afghanistan, Bahrain, Arabia Saudita e Palestina, ma non in Siria”. E non dico di essere contro l’ingerenza straniera, a eccezione dell’ingerenza di iraniani, russi o americani. Trovo peraltro arduo condannare chi fa appello all’intervento americano contro un regime criminale e invece poi accogliere altri appelli volti all’intervento delle “forze della coalizione” contro lo Stato islamico.

Come potrei essere Charlie quando i leader del mondo che manifestavano dicevano di essere Charlie? Come potrei essere loro? Torno a interrogarmi sulla struttura psicologica dell’opinione pubblica mondiale. La lama dello Stato islamico è sicuramente terroristica, e l’attacco armato, l’aggressione e l’uccisione a sangue freddo di dodici giornalisti e vignettisti è terrorismo che va oltre il terrorismo. Ma – e qui il “ma” è sacro – cos’è che esonera il regime siriano dalla qualifica di terrorismo? Cos’è che rende l’uccisione di dodici persone più grave dell’uccisione e dell’esecuzione di oltre 200 mila siriani in poco meno di quattro anni?

Qual è stato l’effetto delle 50 mila foto, trapelate al canale americano della CNN e al quotidiano britannico The Guardian, dei corpi senza vita dei torturati all’interno delle carceri del regime siriano? Questo tipo di tortura non rientra nella categoria del terrorismo? O è l’identità dei torturati che definisce se si tratta di terrorismo o solo di una violazione dei principi dei diritti umani che solleva una certa preoccupazione? Se il regime siriano avesse praticato una minima parte di questo tipo di torture su giornalisti stranieri, l’Occidente avrebbe avuto la stessa reazione?

Io sarò Charlie solo quando mi permetterete di esserlo davvero. Quando ammetterete che io sono Charlie, vittima di un regime terrorista che mi bombarda, distrugge le mie case, mi tortura e fa a pezzi il mio corpo come fossi un pezzo di stoffa con sopra stampata la cartina della Siria che il regime vuole.

Sarei Charlie se mi deste il diritto di vivere con dignità e il diritto di esprimermi liberamente, senza che sia esposto alle mitragliatrici di terroristi o che un aereo mi bombardi o la fame mi uccida. Senza che il mio cadavere si smarrisca e la mia famiglia non trovi una tomba che contenga il mio corpo, dove i miei cari possano rifugiarsi quando la vita dovesse farsi più amara per loro. E quant’è amara…

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