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Settembre 9, 2015

 

Cosa sanno i tredicenni siriani e cosa non vogliono capire gli europei

di Rodolfo Casadei

 

Dice la verità il tredicenne che chiede all’Europa di «fermare la guerra». La vita dei profughi e la lotta all’Isis non sono gli obiettivi delle alleanze schierate in Medio Oriente

 

Anticipiamo un articolo tratto dal numero del settimanale Tempi in edicola da giovedì 10 settembre – Che bella la scena del corteo di auto che ha fatto la spola fra Vienna e Budapest per portare in territorio austriaco decine di famiglie di profughi in attesa di proseguire il proprio cammino verso la terra promessa tedesca. Dal Cielo avrà sorriso Viktor Frankl, lo psicologo ebreo viennese sopravvissuto ai lager nazisti che curava nevrosi e depressioni aiutando le persone ad “autotrascendersi”, a scoprire che il bisogno di significato è più importante del freudiano principio di piacere, e che il significato della vita sta nell’uscire da sé e consacrarsi agli altri.

Che piacevole sorpresa la decisione di Angela Merkel di aprire senza restrizioni le frontiere ai profughi siriani: finalmente i tedeschi in Europa non si limitano a fare i propri interessi di bottega ammantandoli di ipocrite paternali sul rigore di bilancio e sull’austerità finanziaria, ma assumono qualcosa che assomiglia a una leadership morale dell’Unione Europea. Cristianamente geniale l’appello di papa Francesco a parrocchie, comunità e santuari d’Europa: «Ognuno accolga una famiglia di profughi, un gesto concreto in preparazione dell’Anno santo». La maggior parte dei profughi – siriani, iracheni, afghani, somali – sono musulmani: immaginate l’impatto positivo sulle masse dell’umma islamica delle immagini di chiese e santuari dove suore e preti con la croce al collo accudiscono i bisogni di adulti e bambini fedeli dell’islam; migliore contributo alla pace fra i popoli non si potrebbe immaginare. L’ingiusta e insopportabile morte del piccolo Aylan sembra mostrare un misterioso significato buono. La grande ingiustizia delle migrazioni forzate si trasforma in benedizione per noi, attirati irresistibilmente da una possibilità di fare il bene che ci redime e ci guarisce interiormente.

Ma, come dice un proverbio arabo, una mezza verità è una bugia intera. Se sulla questione dell’ondata dei profughi verso l’Europa non diciamo tutta la verità, tutti i bei fatti sopra ricordati rischiano di degradarsi in reazioni sentimentali che dureranno il tempo di una campagna di stampa di fine estate, che svaniranno come svanisce il suono della grancassa mediatica che passa, si allontana e si perde. E la prima verità è quella che ha rivelato con candore un profugo 13enne a Budapest: «Fermate la guerra e noi non verremo in Europa». Sì, perché in Siria c’è una guerra che dura da quattro anni, così come ci sono guerre in Iraq, Afghanistan e Somalia. Sono queste guerre la causa principale, attualmente, dell’esodo di centinaia di migliaia di persone verso l’Europa. E in queste guerre, in grado diverso l’una dall’altra, sono coinvolti anche i nostri paesi europei: per questo i profughi ci dicono “fermate la guerra”.

Prima che noi ci accorgessimo del cadaverino di Aylan sulla spiaggia di Bodrum, altri 240 mila siriani, uomini donne e bambini, erano stati trasformati in salme senza che ciò scuotesse le nostre coscienze e senza provocare cambiamenti nella politica estera e di gestione delle frontiere dei nostri paesi. Nonostante il fatto che in quella guerra noi europei siamo parte attiva. La politica ufficiale dell’Europa rispetto alla guerra civile internazionalizzata siriana continua a essere la stessa dei primi tempi delle primavere arabe: dalla parte dei ribelli, contro il governo dittatoriale. Per l’Europa (e per gli Usa) la priorità numero uno continua ad essere la fine del regime di Bashar el Assad: per questa ragione manteniamo in vigore sanzioni economiche ad ampio spettro contro la Siria, abbiamo chiuso le sue ambasciate, riconosciamo come rappresentanti del popolo siriano gli insorti della Coalizione nazionale siriana delle forze di opposizione e li finanziamo.

 

Il doppio gioco di Erdogan

Nel frattempo è sorta l’Isis e ha occupato più di un terzo del territorio siriano, i rivoluzionari democratici hanno lasciato il posto a islamisti radicali, jihadisti e fiancheggiatori di Al Qaeda, e i paesi che insieme a Ue ed Usa si erano impegnati a sostenere l’ala moderata della ribellione – Turchia, Qatar e Arabia Saudita – in realtà stanno armando e finanziando islamisti e jihadisti. In particolare la Turchia, paese membro della Nato, risulta da molteplici fonti e rapporti complice non solo di jihadisti, islamisti radicali e alqaedisti come quelli di Jabhat al Nusra e Jaysh al-Islam, ma della stessa Isis, favorita da Ankara in funzione anticurda e anti-Assad.

Lo stesso esodo di profughi siriani dalla Turchia verso l’Europa va interpretato nel contesto della politica di pressioni del presidente turco Erdogan sull’Europa: la Turchia è stata generosa nell’ospitalità verso i profughi siriani finché ha visto in essi una massa di manovra contro il regime di Damasco e nei loro campi profughi le retrovie ideali per organizzare, armare e addestrare i ribelli anti-Assad. Adesso che la guerra si è impantanata, Ankara spinge i profughi verso la Grecia e il resto del nostro continente sia per punire l’Europa, che non è voluta intervenire direttamente contro Assad al fianco della Turchia e dei ribelli da essa sponsorizzati, sia per alleggerirsi di un fardello che non è più politicamente conveniente.

 

Il bersaglio di Obama

Oggi Londra e Parigi annunciano un’intensificazione dei bombardamenti aerei contro l’Isis, ma si tratta della solita foglia di fico: per debellare l’Isis serve una forza terrestre, ma per mandare una forza terrestre (che farebbe un boccone delle truppe di al-Baghdadi in meno di un mese) serve un accordo internazionale, e l’accordo internazionale non si fa perché la Siria è campo di battaglia di alleanze geopolitiche contrapposte: Usa, Europa e paesi arabi da una parte; Russia, Iran e sciiti libanesi ed iracheni dall’altra. La lotta per l’egemonia in Medio Oriente è per queste due alleanze più importante della vita dei profughi e della lotta all’Isis: è notizia di questi giorni la richiesta americana alla Grecia di negare il diritto di sorvolo ad aerei militari russi diretti in Siria. Verosimilmente gli aerei trasportano aiuti militari destinati a rinforzare le difese della città di Latakia, culla della famiglia Assad e probabile bersaglio di un’imminente offensiva di una coalizione fra ribelli filo-americani e ribelli islamisti e alqaedisti. Per Barack Obama e per John Kerry l’indebolimento del regime di Damasco rimane l’obiettivo prioritario anche adesso che l’Europa si trova ad affrontare la difficile crisi dell’ondata migratoria e che l’Isis governa col terrore un territorio grande come l’Austria.

Ma queste cose che i 13enni siriani ben sanno, gli europei ancora non le capiscono, o non le vogliono capire. Sono immersi, direbbe Alain Finkielkraut, nel sentimentalismo umanitarista post-ideologico. L’eccesso di giustificazione politica della sofferenza umana nella prima metà del XX secolo (le ideologie totalitarie spiegavano che è necessario sacrificare generazioni di esseri umani al sol dell’avvenire) li ha condotti a rinunciare alla ricerca delle cause politiche dei drammi umanitari odierni. Col risultato di farsi menare per il naso da chi sa politicamente quel che vuole: la Turchia di Erdogan, gli Usa di Obama, il capitale internazionale alla ricerca di manodopera a basso prezzo e altri ancora.

 

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