http://www.sirialibano.com/ 6 giugno 2015
Per una cittadinanza fondata sulla legge e non sull’identità di Antoine Courbane
“Vivere insieme come uomini liberi richiede di essere onorati con una cittadinanza fondata sulla legge e non sull’identità”, affermava a Roma lo scorso 26 maggio Antoine Courbane, docente all’Università Saint-Joseph di Beirut. Courban ha partecipato all’incontro “La Siria di Padre Paolo… e oltre” promosso da Articolo 21 e dalla Federazione nazionale della stampa italiana. Di seguito il testo completo.
Voglio per prima cosa ringraziare gli organizzatori e i familiari di padre Paolo Dall’Oglio qui presenti: intervenire davanti a voi è per me un privilegio.Permettetemi di ringraziare anchè Madame Marie Peltier, che mi ha messo a parte di alcune conversazioni inedite con padre Palo e che citerò.
PROLEGOMENI. Io vengo dal cuore del Levante arabo. Le nostre società non sono secolarizzate come le vostre. Dopo 14 secoli, malgrado delle difficoltà, il vivere insieme multi-religoso e pluriculturale ha potuto operare una sorta di osmosi inconsapevole che permette oggi di affermare per esempio: «Non sarei il cristiano che sono senza la parte di islam che è in me» ; ma anche: «non sarei il musulmano che sono senza la parte di cristianesimo che è in me». Questo è divenuto possibile perché i cristiani di diverse tradizioni liturgiche si sono appropriati, dopo molto tempo, della lingua araba e l’hanno protetta. Nel levante l’arabo non è solo la lingua del Corano, ma anche quella di tutte le liturgie cristiane con venerabili anzianità. Pregare e lodare Dio nella stessa lingua è un autentico successo culturale, testimonianza, per i cristiani, del genio dell’Incarnazione in mezzo all’islam. Pregando per il rapido ritorno di padre Dall’Oglio tra le sue genti, in Siria e non solo, esprimo il desiderio che questa osmosi possa essere condivisa e vissuta dalle future generazioni.
TESTO. Non parlerò di politica. Sono un cittadino libanese. La situazione siriana mi riguarda in primo luogo sul piano umanitario e su quello del vivere insieme, tra cittadini di religioni e culture diverse. Il mio Paese, il Libano, accoglie attualmente un milione e 500mila rifugiati siriani, registrati regolarmente presso l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu, a fronte di una popolazione complessiva libanese di 4 milioni. La violenza più estrema ha dei limiti. Il male avrà sempre dei confini. Solo il bene rimane infinito. E quanto dice san Paolo nella Lettera ai Romani: «Non lasciarti vincere da male, ma vinci il male con il bene» (Ro 12:21). Oggi noi possiamo andare fino al confine del male, usare ogni violenza, distruggere tutto. Ma domani, cosa faremo? Domani? Non possiamo che ricominciare a vivere insieme perché siamo uomini, quindi portiamo in noi come segno del divino, «Il gusto innato del bene, del vero e del bello», come ha detto papa Benedetto XVI al palazzo presidenziale di Beirut nel settembre 2012. Per parlare di questo Oriente che è quello di padre Paolo Dall’Oglio, voglio rendere omaggio alla sua opera come testimonianza in favore dell’umanesimo integrale, né teocentrico né antropocentrico. Un umanesimo nel quale l’uomo non è schiavo di Dio né suo rivale. L’umanesimo integrale, nella fedeltà all’incarnazione, riconcilia nell’uomo il cielo e la terra, e costituisce la pietra angolare dell’ordine politico di domani in un mondo travolto dalla spirale dell’odio. Questa a mio avviso è la pietra angolare del messaggio di padre Paolo. Ieri non si parlava che di pace e amore. Oggi è l’odio che sembra dominare. La maggioranza delle ideologie contemporanee sono utopie negative, ispirate dall’odio. Tutti gli antropologi e gli psicologi conoscono il carattere iniziale dell’odio sotto la forma di «narcisismo primario», fase iniziale e indispensabile dello sviluppo dell’individuo. Pertanto oggi, il lungo apprendimento dell’alterità e la sua umanizzazione sembrano attenuarsi. L’odio non si vergogna più di nascondersi dietro la retorica, sembra quasi divenuto il principio di una morale nuova: «Odio, dunque sono». E questo il principio distruttore all’opera, e che si fa percepire nella violenza che si sta abbattendo sull’oriente arabo in nome di tutti i narcisismi: quelli dei poteri dittatoriali ; ma anche quelli dei radicalismi religiosi e delle tensioni identitarie. I cristiani orientali oggi tendono a ripiegarsi su se stessi, e quindi a rompere i legami con le loro radici storiche. La prima volta che ho sentito parlare di padre Paolo è stato nel 2000 ad Aleppo. Mi trovavo con un amico aleppino, una persona di grande cultura, un pio e sincero musulmano. Prendevamo una tazza di tè alla porta di Antiochia quando, conversando, mi ha parlato della sua visita al monastero di Mar Moussa e del suo incontro con padre Dall’Oglio. Mi ha detto: «Mi ha sorpreso sentirmi a mio agio con lui, proprio come con te. Non c’era traccia in lui di quella barriera che percepisco quando incontro un cristiano non orientale. Avevo la sensazione di trovarmi davanti un cittadino siriano o uno dei miei amici cristiani di Aleppo, di Damasco o di Beyrouth». Ciò che sorprese maggiormente il mio amico è che Paolo, questo straniero, aveva potuto impregnarsi dello spirito del levante installandosi nel deserto, in un monastero dimenticato, del quale aveva fatto una fortezza del dialogo, della tolleranza, della riconciliazione e dell’amore per l’altro. Questo mio amico musulmano non conosceva, di sicuro, il Libro della consolazione di Isaia: «Una voce gridava: nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni carne la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato» (Isaia 41:3-5). Deserto, bocca e carne sono qui associati. Il deserto, il midbar delle antiche lingue semite come l’ebraico, è lo spazio arido, o quello del caos primordiale, ma anche la bocca come luogo della parola. Nel minbar/deserto/bocca la Parola trasforma il caos della natura in un cosmo articolato. L’innografia bizantina araba mete in bocca all’Angelo che si rivolge a Maria queste parole sorprendenti: «Mi sento fremere quando vedo ciò che è scritto nel tuo seno all’annuncio delle mie parole». Il deserto/minbar è come le viscere di Maria. Il luogo dell’incarnazione della parola. I teologi e gli storici conoscevano il «genio carnale» degli antichi cristiani di tradizione antiochiea tra i quali padre Paolo ha scelto di vivere come testimone dell’Incarnazione, attraverso un umanesimo integrale non esclusivo ma aperto a tutti, in particolare a quell’islam del quale si proclama innamorato quale ardente testimone di Gesù Cristo. «Le acque si rompono dal deserto e torrenti dalla solitudine» (Isaia 35:6). Se dobbiamo radicare l’opera del Padre Dall’Oglio in ogni tradizione, sarebbe nella visione che emerge da uno dei più bei testi del cristianesimo, la «Lettera a Diognetes», scritta nel II secolo d.C., da un anonimo cristiano di Siria a un amico pagano, per parlargli di quel cristianesimo che è stato chiamato una superstizione. I cristiani a quel tempo erano pochissimi, vivevano in un contesto ostile che li perseguitava. Questa lettera non riflette alcuna paura ma una grande fiducia in se stessi e nel valore morale della fede cristiana dei tempi apostolici. Il cristianesimo che rivela questa Lettera è innanzitutto una disposizione aperta all’altro, a tutti gli altri. Il gruppo cristiano, in quei tempi lontani, non era una minoranza allucinata dall’ossessione identitaria e preoccupata soltanto dalle briciole di potere che la maggioranza poteva concedere a loro. La Lettera dice: «Ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani sono nel mondo». Pertanto, la loro unica preoccupazione è quella di mantenere la coesione del corpo, fare ogni sforzo per garantire che tutti i suoi componenti siano strutturati armoniosamente per il bene comune. E quello che padre Paolo chiamava il «vivere personalmente e individualmente il proprio battesimo». I cristiani della Lettera a Diognetes non reclamano per se stessi alcuna distinzione specifica. «I cristiani non si distinguono dal resto degli uomini né per il loro paese, né per la loro lingua, né per loro specifici modi di vivere: non hanno altre città che la vostra, non hanno altra lingua che la vostra, né abitudini singolari». Dove vivono «si conformano agli usi che trovano stabiliti, ma pongono sotto gli occhi di tutti il sorprendente spettacolo della loro vita difficile da credere». L’autore indica una scala di valori morali che, fondati sul significato di assemblea e solidarietà, conferiscono al gruppo cristiano la sua originalità. «Abitano le loro città come stranieri, ma prendono parte a tutto come cittadini». «Soggetti alle leggi vigenti, sono nelle loro vite superiori a tali leggi. Amano tutti e tutti li perseguitano». Così era per padre Paolo, lo straniero totalmente a casa sua in Siria per via della sua fede cristiana, che gli ha fatto apprendere la dolcezza infinita di Gesù di Nazareth , sempre definitosi il figlio dell’uomo. Grazie a Marie Peltier, riferisco alcune parole di padre Paolo: «Rifiuto il proselitismo perché contradicce la dolcezza del mio maestro di Nazareth. …Per me l’universalismo non è sbagliato quando non è violento. Ma lo può diventare cosi se non sa percepire la bellezza della tradizione altrui, se non se ne innamora, e se oppone l’universalismo cristiano all’universalismo musulmano». Di qui il suo amore sincero per l’islam che percepisce come luogo d’apertura alla «Rivelazione». Il dialogo come luogo di rivelazione. Ma questo dialogo-rivelazione non saprà iscriversi nella tradizione abramitica senza l’ebraismo. E quanto risulta chiaro dalle note di Marie Peltier, che contengono queste parole di padre Paolo Dall’Oglio: «Alla fine dei conti, non è sorprendente che gli ultimi oggettivi alleati del regime siriano siano coloro che a tutt’oggi negano il genocidio degli ebrei e che oggi negano la rivoluzione del popolo siriano». Il vicino Oriente di domani è fondato sulla pace e sulla giustizia. Per tutti gi uomini di buona volontà l’impegno in favore dei popoli del levante giace su tre pilastri fondamentali.
Il desiderio di non lasciare i cristiani di fianco all’ingiustizia e all’oppressione. Per questo non dovete guardarci come a una specie animale in pericolo ma come si guardano degli esseri umani. Ascoltate l’uomo arabo senza i pregiudizi delle crociate. Sappiate che la maggioranza dei musulmani, sunniti e sciiti del levante, non rifiutano la modernità né la democrazia. E necessario aiutarli per incoraggiare i cristiani a superare le loro paure.
Il desiderio di lottare al fianco di tutti i siriani per la giustizia e la democrazia Questo non è pacifismo angelico. «L’Europa attende dall’altro lato del Mediterraneo mentre i siriani si fanno massacrare… Perché i cristiani dovrebbero essere senza muscoli? Perché le armi gli sarebbero proibite? Da dove viene questo pacifismo angelico?».
L’urgenza della riconciliazione tra sunniti e sciiti. «Per aprire alle generazioni di domani un avvenire di pace, il primo compito è dunque quello di educare alla pace per costruire una cultura di pace» (Benedetto XVI – 2012). «Si tratta di dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza richiederle, e infine di perdonare. Perché solo il perdono dato e ricevuto offre fondamenta stabili di riconciliazione e pace per tutti» (Benedetto XVI-2012) (cfr.Rm12, 16b.18).
CONCLUSIONE. «… I cristiani di Siria possono vivere nel loro paese, che è tale da più di 2mila anni, in pace con i musulmani, loro fratelli e loro vicini» (Dall’Oglio). Vivere insieme come uomini liberi richiede di essere onorati con una cittadinanza fondata sulla legge e non sull’identità. (Roma, 26 maggio 2015). |