http://www.ilfoglio.it Negli occhi del prigioniero Theo Padnos è stato ostaggio di Jabhat al Nusra in Siria per due anni. Ci racconta di che cosa parlava con i terroristi (anche di Parigi), della notte più brutta e del loro desiderio: “Blowing shit up”. Theo Padnos è un giornalista americano che è stato prigioniero di al Qaida in Siria per quasi due anni e ieri è passato nella redazione del Foglio per un cappuccino e una chiacchierata su quello che sta succedendo tra Parigi, dove ora vive, e Damasco, dove è passato di nascosto pochi mesi fa mentre era ancora rapito. Padnos scrive per il magazine del New York Times, per l’Atlantic e New Republic. Quando ha deciso di volere fare meglio il suo lavoro ha fatto un percorso parallelo a quello che scelgono molti foreign fighters, i volontari che combattono il jihad: prima è andato in Yemen per imparare l’arabo e poi si è trasferito per anni a Damasco, la capitale della Siria, per avere una conoscenza di prima mano del mondo islamico. Nell’ottobre del 2012 ha deciso di raccontare il pezzo di paese più a nord, quello fuori dal controllo del governo e in mano ai gruppi della rivoluzione anti Assad e ha provato a entrare dalla Turchia. Per alcuni si trattava della Siria liberata, per altri era invece la Siria incubatrice dei gruppi del terrore: era come se fossero due dimensioni parallele che coesistevano e si sovrapponevano nello stesso tempo e nello stesso luogo a causa di una catastrofe spazio-temporale. Lui si è messo d’accordo con alcuni ribelli che stavano anche loro per passare il confine, quelli hanno finto di essere brave persone e arrivati in Siria lo hanno fatto sedere in una casa, lo hanno ripreso con una telecamera, poi hanno svelato di essere di al Qaida e lo hanno preso a calci. Per Padnos è cominciata una sequenza infinita di pestaggi, periodi di isolamento, interrogatori credevano fosse una spia della Cia e spostamenti. Quando è riuscito a uscire, nell’agosto del 2014, è spuntato all’altro capo del paese, al confine con Israele, e sotto la luce del sole c’era soltanto la Siria dei gruppi del terrore. “Dal confine israeliano si vedono le bandiere nere con scritto ‘Tanzim al Qaida” (gruppo al Qaida). Una settimana prima del rilascio, lo Stato islamico aveva postato su internet la decapitazione di un altro giornalista americano, James Foley. Molti dei suoi carcerieri avevano il video nella memoria del telefonino, glielo mostravano, volevano sapere: “Tu cosa ne pensi?”. Padnos non ha fatto un solo giorno da uomo libero in Siria, ma è entrato con una conoscenza di tipo superiore rispetto al solito, non ultima la lingua araba. Mentre parla, spesso per aiutarsi ricorre ai termini originali arabi anche se, dice, “ho sprecato il mio tempo, vorrei avere imparato l’italiano. E’ così bello. Durante la prigionia ho passato mesi a leggere soltanto il Corano in originale, poi un giorno mi hanno dato un pezzo di cibo avvolto in un pezzetto di carta, era una pubblicità su come trattare bene i tuoi cuccioli di cane, era in italiano. Che lingua bella! Ho passato settimane a leggere e rileggere con amore quel pezzetto di carta, non ho mai capito come fosse finito lì”. Il suo è stato anche un contatto intensivo con l’ideologia del jihad siriano. Nel novembre del 2013 davanti a lui si è parato un uomo alto, con una massa di capelli. “Sai chi sono?”. “Sì, sei Abu Mariya al Qahtani”. Abu Mariya è il secondo uomo più importante di Jabhat al Nusra, appena dopo il capo, Abu Mohammed al Joulani. Ha un account su Twitter che è considerato molto divertente secondo gli standard jihadisti e aveva la responsabilità della parte est della Siria, quella che ha i pozzi di petrolio e che confina con l’Iraq. La sede del comando era a Deir Ezzor, prima che il suo gruppo fosse cacciato via dall’avanzata del gruppo rivale, lo Stato islamico (ora è nella zona di Deraa, a sud). Lui è iracheno, ha cominciato a combattere contro gli americani nel 2004 nell’area di Mosul, era nella stessa fazione con Abu Bakr al Baghdadi, che lo comandava, e oggi è diventato il capo dello Stato islamico. In manette davanti ad Abu Mariya, Padnos ha conversato in più occasioni del mancato rispetto per il Profeta Maometto che c’è in occidente. Era una questione che ritornava spesso, e affiorava nei discorsi, a dispetto del fatto che in occidente fosse diventata da tempo una questione marginale (sì, le vignette hanno fatto infuriare i gruppi radicali, c’è una situazione di pericolo, ma non si andava oltre). Il jihadista iracheno ripeteva uno dei capisaldi della dottrina: l’occidente può avere la sua libertà di pensiero e la libertà di irridere quello che vuole, il jihad ha la sua libertà di azione e di intervento (di punizione) a difesa della religione. “Se continuate a offendere il Profeta, sono pronto a mandare i miei uomini di Jabhat al Nusra in occidente, con i giubbetti esplosivi”, diceva al Qahtani seduto di fronte al giornalista. A quel tempo non sapeva ancora se alla fine lo avrebbe liberato, ma intanto lavorava per affidargli il suo messaggio personale all’occidente. C’erano anche jihadisti occidentali? Ho visto soltanto un australiano e due canadesi. Erano più o meno motivati degli altri? Uguale, in due anni tutti quelli che ho incontrato mi hanno sempre detto di cercare la morte: “Ana biddi istishad”, voglio il martirio. Questo è quello che succede nell’est e nel sud della Siria, in case con le porte chiuse per lasciare fuori il sole e la polvere e in bunker sotterranei dove ci si sente al sicuro dai raid dell’aviazione e c’è soltanto il Corano da leggere e qualche pezzo di carta che riparava il cibo e il canale satellitare Al Jazeera, sempre acceso in qualche stanza se e quando c’è elettricità. Si parla delle offese al profeta Maometto, come se fosse accaduto ieri, come se facesse sbiadire per contrasto qualsiasi altra offesa e tutte le ferite all’uomo viste da in mezzo a una guerra civile. Si medita la rappresaglia, su come e quando potrebbe essere efficace. Si parla del gruppo rivale, lo Stato islamico. Si guardano i suoi video sullo schermo dei cellulari. Non arriva il suono delle marce della Repubblica, in quelle case. “E’ come se i jihadisti di Parigi fossero in occidente soltanto con il corpo, con la mente sono rimasti là, la testa sta combattendo in quei posti. Vengono dall’Europa per combattere un paesaggio che sembra la luna, distese bianche di calcinacci. E non lo lasciano più anche quando riescono a tornare nei loro luoghi di partenza”. Padnos racconta al Foglio le ore più terrificanti della sua prigionia. A luglio lo Stato islamico attacca Jabhat al Nusra nella zona di Deir Ezzor, i soldati hanno l’ordine di sparare a vista, conquistano i pozzi di petrolio. Abu Mariya deve ritirarsi con i suoi uomini, parte l’ultimo convoglio di venti automobili, prende lo shampoo perché cura molto i suoi capelli lunghi, gli altri mettono tutti i soldi che rimangono in una busta di plastica come quelle che si usano per fare la spesa, quello che non si può trasportare è lasciato sul posto. Comincia il viaggio verso sud, lo Stato islamico avanza alle spalle, le basi del regime attorno, si cambia posto ogni notte, di giorno si sta fermi. Si viaggia a luci spente, si mette il nastro adesivo sugli stop delle macchine e sui quadri di tutti i cruscotti, perché anche la luminosità più debole può tradire la posizione, soprattutto vista dall’alto, dagli aerei che attraversano il cielo a caccia di auto ribelli. Il convoglio passa a quattro chilometri da Damasco. Una notte c’è un passaggio particolarmente difficile, c’è da attraversare il deserto e imbucare una pista invisibile, pochi metri di larghezza, tutto fuoristrada, per evitare i checkpoint. Al volante c’è il cugino di Abu Mariya, 23 anni, ha sempre fatto il mujahid da quando gli americani sono arrivati in Iraq da quando avevi tredici anni? Sì lui o il capo si tengono sempre Padnos vicino perché è l’asset più prezioso. Si arriva a una base sotterranea, ma manca metà del convoglio: nell’oscurità più completa e nel silenzio radio totale quelli dietro hanno mancato il passaggio giusto nel deserto. Violano la regola, si chiamano, Abu Mariya è rimasto là in mezzo, è furente, venite a prenderci. Quelli di al Nusra rimontano in macchina , trovano il pezzo di convoglio rimasto allo scoperto, ma in quel momento arrivano gli aerei. “Quella è la volta in cui le bombe mi sono cadute più vicine. Tutti sono scesi dalle macchine e sono corsi via in mezzo al deserto, io sono rimasto dov’ero, le bombe cadono dove cadono, se cadono nel deserto tocca a loro se cadono sulle macchine sono finito io”. Invece se la cavano tutti, si riprende verso la meta, il bunker, Padnos deve tenere lo scotch contro il cruscotto con le mani perché si è staccato, all’arrivo Abu Mariya tira fuori la pistola, urla contro il cugino, mi hai lasciato tra le basi nemiche, se avessimo continuato in qualsiasi direzione ci avrebbero ucciso, manca poco che gli spari. Ordina che sia imprigionato. Abu Mariya racconta al reporter che all’inizio del 2011 si accorgono assieme a Baghdadi cosa sta succedendo nel mondo arabo. Tunisia, Egitto, Yemen sono in rivolta. Baghdadi, che allora è il capo dello Stato islamico in Iraq, è assieme ad al Joulani, futuro capo del gruppo rivale al Nusra, e ad Abu Mariya, in una piccola zona del deserto iracheno di Anbar. Decidono di attaccare le stazioni di polizia siriane nell’est del paese, appena al di là del confine. Sono posti sorvegliati da due-tre poliziotti al massimo, pieni di armi. Si pensa che in futuro si potrà anche mettere le mani sui pozzi di petrolio. Pochi mesi dopo Baghdadi manderà Al Joulani e Abu Mariya, assieme ad altri cinque uomini, a fondare Jabhat al Nusra in Siria. Due anni più tardi i due gruppi si divideranno e diventeranno nemici mortali. Abu Mariya e Baghdadi ancora si chiamano al telefono al telefono? Si fidano? Padnos allarga le braccia con un’espressione che dice “che posso farci?” si parlano, si accusano a vicenda. Baghdadi chiede ad Abu Mariya di avvicinare al Joulani con una scusa e di ucciderlo, lui rifiuta: “Lo amo troppo”. Mi dicevano di voler fondare uno Stato islamico anche loro, quelli di Jabhat al Nusra, dice il reporter ed ex sequestrato. Mi dicevano di volere attirare ingegneri, per costruire nuove infrastrutture, e insegnanti, per educare i bambini, e anche dottori, per curare la gente. In realtà a loro interessa fare saltare in aria le cose. A loro piace. “Blowing everything. Blowing shit up”. E’ questo quello che desiderano, e questo che a loro interessa soprattutto. Far saltare in aria tutto. All’inizio alla gente piacevano, avevano bersagli selezionati, i comandi dei servizi segreti più temuti, il famigerato Settore Palestina, l’intelligence militare, i servizi segreti dell’Aviazione (quelli più vicini ad Assad). Poi hanno cominciato a far esplodere tutto. Padnos guarda un ritratto di Lenin appeso a un muro della redazione. Mi ricordano gli anarchici russi, mi ricordano quei motti politici come “Long live destruction! Long live death! Long live chaos!”. La conversazione finisce. Il giornalista dopo due anni di prigionia è sottile, va in cerca di una bicicletta da affittare per girare per Roma. Sullo schermo del telefonino ha come salvaschermo la foto più nota di Greta e Vanessa, le due italiane sequestrate in Siria.
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