http://www.eastjournal.net/ 6 maggio 2015
Gli Stati Uniti scendono a patti con Assad di Lorenzo Marinone
Con un radicale cambio di rotta sulla Siria, la diplomazia americana ha deciso di riabilitare il presidente Assad. L’idea è stata avanzata dal segretario di Stato John Kerry nel corso di un’intervista alla CBS, anche se con prudenza. In pratica gli Usa vorrebbero includere il regime di Damasco nel processo di pacificazione e stabilizzazione della Siria. Una posizione diametralmente opposta a quella seguita finora, visto che gli Usa già a fine 2011 avevano riconosciuto il Consiglio Nazionale Siriano come legittimo rappresentante del Paese. Cosa ha spinto Washington a fare questo passo? E quali potranno essere gli sviluppi nel prossimo futuro?
C’era una volta il Free Syrian Army Il problema di Washington è che tutte le strategie per porre fine alla guerra civile seguite finora si sono rivelate fallimentari. Il destino del Free Syrian Army (FSA) è un esempio lampante. Fin dalle prime fasi del conflitto gli Usa hanno cercato un interlocutore alternativo ad Assad, ma la magmatica e volubile realtà delle formazioni ribelli ha creato non poche difficoltà. Il tentativo mirava a separare – del tutto artificialmente – milizie “laiche” da gruppi armati “islamisti” e privilegiare le prime. Il FSA doveva essere proprio questo: una coalizione di gruppi dichiaratamente moderati, capaci di assicurare una transizione politica immune da derive religiose o jihadiste. Ma sul campo le alleanze e le offensive congiunte non hanno mai seguito questa divisione, tutt’altro. Il FSA, e buona parte delle formazioni minori che sono nate negli anni dopo il suo progressivo sbandamento, hanno continuato a collaborare con gruppi salatiti come Ahrar al-Sham o persino con il ramo di al-Qaeda in Siria, il Fronte al-Nusra, che disponevano di più uomini e un migliore addestramento. Difficile pensare che una volta allontanato Assad da Damasco, questi gruppi non rivendicassero il ruolo svolto durante il conflitto. Poi c’è un problema di immagine. Il supporto americano passa attraverso forniture di armi ai ribelli “moderati”. Ma vista la situazione sul campo, ciò significa sponsorizzare anche i movimenti più radicali. Negli ultimi mesi l’ipotesi è poi definitivamente tramontata. Da un lato gli ultimi reparti di ribelli appoggiati dagli Usa (in particolare Harakat Hazzm) sono stati decimati da al-Nusra, che ha subito postato sui suoi profili twitter foto di miliziani in possesso di armi anti-carro a stelle e strisce. Dall’altro lato gli unici progressi significativi contro Assad sono arrivati da offensive congiunte fra FSA e gruppi islamisti.
L’avanzata dello Stato Islamico Dall’inizio del 2014 inoltre lo scenario siriano è radicalmente mutato a causa dell’avanzata dello Stato Islamico (IS). Innanzitutto per gli Usa. L’amministrazione Obama aveva rinunciato a intervenire direttamente contro Assad nonostante le famose red lines sull’impiego di armi chimiche, ma non ha esitato a bombardare il Califfato. Nel contesto iracheno la priorità era salvaguardare le regioni curde settentrionali, ricche di petrolio, mentre nel caso della Siria l’intenzione era evitare che l’intero Paese cadesse sotto il controllo dell’IS. Ma il risultato immediato era stata una scomoda alleanza di fatto proprio con Assad, impegnato anch’egli contro i miliziani di al-Baghdadi. A peggiorare la situazione c’è poi una pungente verità: l’unica forza in grado di contrastare efficacemente l’IS è proprio il regime di Assad. Lo ha dimostrato di recente l’attacco al campo profughi palestinese di Yarmouk, alla periferia di Damasco. Yarmouk è stato preso con relativa facilità dall’IS all’inizio di aprile. La difesa approntata da al-Nusra e altre milizie minori (formate da palestinesi e appoggiate da Hamas) è stata pressoché nulla. Solo l’intervento di Assad, che a differenza dei ribelli può contare sul fondamentale supporto dell’aviazione, ha fatto arretrare i miliziani del Califfato.
La Siria vista dal Golfo La proposta di Kerry ha messo in allarme tutti i Paesi del Golfo, che vedono come il fumo negli occhi l’eventualità che Assad resti dov’è. I suoi legami con l’Iran da un lato e con gli Hezbollah libanesi dall’altro, infatti, sono una delle principali fonti di preoccupazione per gli Stati sunniti della regione. Se gli Usa hanno l’urgenza di arginare l’IS o – più probabile – non possono permettersi di vedersi costretti a un intervento di terra, quindi sono disposti ad accettare una continuità di regime a Damasco, l’ordine delle priorità per Arabia Saudita, Qatar e Emirati è l’esatto opposto. Alcuni segnali fanno pensare che gli interessi americani e arabi sunniti sulla Siria possano a breve divergere ancora più di quanto già non siano distanti ora. Il problema di trovare una fazione ribelle su cui puntare, infatti, attanaglia tanto Washington quanto i Paesi arabi coinvolti, per non aggiungere la Turchia. All’inizio di marzo il Qatar ha offerto pubblicamente ad al-Nusra armi e finanziamenti in cambio di un’esplicita e definitiva rottura del rapporto con al-Qaeda. La proposta a quanto pare è stata rispedita al mittente. L’aspetto più rilevante non è il supporto materiale – i canali sono già aperti e attivi da tempo – ma il tentativo di riconoscere anche una fazione radicale come al-Nusra come possibile interlocutore legittimo. Ed è altrettanto chiaro che la richiesta di svincolarsi da al-Qaeda sia la classica foglia di fico, che nei fatti non cambia nulla. Se questi due ordini di priorità, americane e arabe sunnite, non troveranno un punto di equilibrio e d’incontro, la via diplomatica che gli Usa sembrano voler seguire è morta in partenza.
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