al Quds al arabi

23 febbraio 2015

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10 maggio 2015

 

Siria, Libano e il gioco degli Asad

di Elias Khury

per al Quds al arabi.

Traduzione dall’arabo di Khouzama Reda

 

Il gioco di Hafez al Asad ha ora raggiunto la sua logica fine, ed ecco che la Siria si dissolve trasformandosi in un protettorato iraniano e nell’arena di un selvaggio conflitto regionale. Tutto ciò fa sembrare la guerra civile libanese un preludio o un semplice allenamento per la guerra in atto in Siria.

Il dittatore siriano che inviò le sue truppe a invadere il Libano nel 1976 con la scusa di far cessare la guerra civile libanese ed evitare la partizione del Paese, non solo non pose fine alla guerra, ma la utilizzò per mettere fine al Libano stesso. Così le guerre si sono auto-fecondate all’infinito sotto l’egemonia militare siriana e i suoi servizi segreti. Il sistema politico libanese entrò in tal modo in una spaventosa fase di disintegrazione che lo portò alla totale subordinazione al dominio siriano.

I complicatissimi giochi politici di Asad padre richiesero alleanze contraddittorie ed evasive nonché la contemporanea liquidazione degli avversari all’ingrosso e al dettaglio. Ciò si tradusse in un’alleanza tra la Siria e l’Arabia Saudita da un lato, e tra la Siria e l’Iran dall’altro. Il tira e molla con Israele, invece, portò all’espulsione della resistenza palestinese dal Libano. Poi in seguito al conflitto sanguinoso in Libano, Asad consegnò le chiavi della resistenza contro Israele unicamente a Hezbollah e questo lo portò a mettersi a capo della confessione sciita.

Assad giocò perfettamente in Libano il gioco del conflitto confessionale. Lo stato siriano “laico”, o presunto tale, si rivelò il più abile nell’arte di manipolare le confessioni libanesi e giocherellare con esse. Avviò un massiccio processo di liquidazione della sinistra laica per dedicarsi completamente alla gestione delle confessioni libanesi, nella loro ascesa e nel loro declino.

Il suo vicepresidente Abd al Halim Khaddam si distingueva per impersonare Fuad Pasha, il ministro ottomano che curò la fine della guerra civile libanese del XIX secolo, con un compromesso internazionale che fondò il sistema del mutasarrifato, la prima formazione politica della regione che adottò le quote confessionali.

In Libano − nel bel mezzo del sanguinoso gioco confessionale − Asad stava gettando senza rendersene conto le fondamenta della guerra siriana che ha raggiunto la sua svolta iraniana. Infatti, il generale iraniano Qasem Soleimani è diventato il governatore militare di quello che è rimasto della Siria nelle mani del regime, mentre Asad figlio è solo un’immagine di copertura nel conflitto siriano.

Il giornalista inglese Patrick Seale, amico di Asad padre, ne ha scritto una biografia in cui ha lavato la sua vicenda come fa la mafia con i propri soldi. In precedenza Seale aveva pubblicato un libro dal titolo “The Struggle for Syria”, la biografia di Asad, che sembrava un tentativo per suggerire che il conflitto sulla Siria fosse finito. La storia però è capace di vendicarsi, e quando lo fa, offre una lezione di crudeltà e meschinità. Ed ecco la storia che, vendicandosi, trasforma il regime fondato da Asad in uno straccio sporco, e la Siria in una arena regionale di stermini e tragedie.

Oggi possiamo vedere dietro la maschera del potere assoluto indossata per anni dal regime tirannico. Ci sono intessuti equilibri fragili che hanno consentito al regime di rimanere e hanno dato al terribile meccanismo repressivo un potere assoluto sul popolo siriano. Il regime costruito da Asad padre si fondava su un equilibrio delicato in cui l’Arabia Saudita ha giocato un ruolo decisivo, e s’è fatto scudo dietro un’alleanza che ha portato il mondo arabo al baratro: l’alleanza saudita-egiziana-siriana.

La componente saudita del regime si è materializzata non solo nell’equilibrio libanese sedimentatosi dopo gli accordi di Ta’if attraverso la condivisione del potere tra l’harirismo nascente e le forze del sistema di sicurezza interno; ma era anche parte della struttura interna del regime di Asad stesso. La sovversione di questo equilibrio è cominciata in Siria prima con l’esclusione e poi con l’annientamento dell’asse Khaddam-Kanaan-Shihabi e ha raggiunto infine il culmine con l’assassinio di Hariri.

Dietro la maschera del potere assoluto, il regime di Asad era prigioniero di equilibri regionali delicati che cominciano con l’Arabia Saudita e finiscono con l’Iran. Così, quando il regime − guidato dal figlio inesperto − ha deciso di voltare faccia a una parte delle sue alleanze precedenti, è iniziata la fase della sua caduta. Le rivoluzioni arabe sono poi giunte a decretare l’inevitabilità di tale caduta.

Il percorso siriano verso la “libanizzazione” è stato indotto da un disperato aggrapparsi del regime al proprio potere, dalla sua pronta volontà criminale di uccidere centinaia di migliaia di siriani, di far fuggire milioni di persone e di distruggere città e paesi con bombardamenti brutali. Tutto ciò ha fatto dell’esperienza sanguinosa libanese un modello superato rapidamente in direzione di un crimine totale.

A uno dei teorici dell’Isis, chiamato Abu Bakr al Naji, viene attribuito un libro intitolato “La gestione della ferocia”: è una sorta di guida ideologica che invita a stabilire un sistema di valori basato sull’intimidazione e la minaccia attraverso l’impiego di metodi brutali di uccisione e repressione.

È vero che l’Isis ha dimostrato seriamente la sua atrocità col sangue e con filmati professionali. Tuttavia, quello che oggi sfugge ai media è che il vero fondatore del sistema di atrocità è stato la tirannia e che la brutalità del regime siriano eguaglia, se non supera, quella dell’Isis. Questo regime maschera la sua ferocia con discorsi politici sulla resistenza e sulla mumanaa, mentre porta la Siria e tutta la regione a un conflitto religioso confessionale il cui orizzonte è solo altra crudeltà.

L’operazione israeliana nel Golan ha rivelato la presenza nella regione di alcuni capi dei Pasdaran iraniani al fianco di Hezbollah. Sembrava che Hezbollah volesse capovolgere l’equazione in Siria e in tutta la regione appiccando la miccia della resistenza sul fronte del Golan, ma l’annuncio della presenza di Qasem Soleimani nel sud della Siria − quale comandante dell’attacco ai siti dell’opposizione siriana armata − ha rapidamente cancellato questa lettura degli eventi.

Il generale iraniano non è quindi venuto per guidare la resistenza contro Israele, ma per condurre una delle battaglie della guerra siriana, confermando il fatto che chi interviene in una guerra civile confessionale perde la capacità e la volontà di resistere all’occupazione.

Alla trasformazione della Siria in una carta hanno contribuito tutte le parti regionali e internazionali: dai Paesi del Golfo alla Turchia agli Stati Uniti. Ma la responsabilità più grande è del regime. Dallo scoppio della rivoluzione popolare questo regime si è comportato in modo mafioso e ha reso le sue forze armate simili a un esercito di occupazione straniera.

La Siria di Asad è finita. È Bashar al Asad stesso ad aver sottoscritto il documento finale, quando ha convocato le milizie sciite dal Libano, dall’Iraq e dall’Iran per combattere i salafiti jihadisti, i cui capi sono stati liberati per lo più dalle sue stesse prigioni. Quest’uomo credeva di essere in grado di manipolare a suo vantaggio le correnti estremiste, come aveva provato a fare con la miserabile esperienza di “Fath al Islam” in Libano. E così Asad e gli islamisti sono diventati due facce della stessa medaglia, la cui immagine è la frantumazione della Siria nel sangue e la sua conseguente trasformazione in un sanguinoso parco divertimenti dove a giocare sono gli altri.

La storia è dura e crudele. Hafez al Asad credeva di poter cavalcare il mostro confessionale e manipolarlo in Libano, ma quel mostro si è ritorto contro di lui, facendo preda del suo regime e riducendolo a brandelli.

 

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