Maan News Hamas ritorna cautamente all’Asse della Resistenza Nonostante il successo della resistenza contro l’avanzata dell’esercito israeliano a Gaza, le mosse di politica regionale di Hamas negli ultimi anni non hanno portato risultati. I progressi dell’accordo tra Hamas e Fatah l’anno scorso, seguiti dalla formazione di un nuovo governo, dovevano costituire i prerequisiti per ulteriori cambiamenti, compresa la riforma dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La promettente spinta iniziale verso l’unità è stata interrotta dalla violenta guerra di Israele, la cosiddetta operazione “Margine Protettivo”, che ha portato alla morte e al ferimento di migliaia di persone. La guerra ha inoltre lasciato la già disastrata Gaza in condizioni ancora peggiori. Neanche il tentativo di Hamas di coinvolgere l’Egitto alla ricerca di una via alternativa per rompere l’assedio ha prodotto risultati. L’Egitto lo scorso marzo ha dichiarato Hamas organizzazione terrorista. Più recentemente, l’ala militare di Hamas, la Brigata Izz al-Deen al-Qassam, si è ritrovata dichiarata fuorilegge ed accusata di “terrorismo” da un tribunale egiziano. L’anno scorso una conferenza di donatori al Cairo ha preso l’impegno di ricostruire Gaza, ma pochi hanno inviato aiuti. Le Nazioni Unite e la Lega Araba stanno nuovamente facendo appello perché le promesse di aiuto vengano mantenute. Ma anche se ciò avvenisse, gli Stati Uniti ed i loro alleati pretendono che il denaro non venga gestito da Hamas. Prima delle cosiddette primavere arabe del 2011, la regione era divisa in due aree politiche. Una è nota come “asse della resistenza”, o anche lo schieramento del “rifiuto”. Ne fanno parte Iran, Siria, Hezbollah e Hamas. L’altra è il campo dei “moderati”, che aggrega gli alleati regionali degli Stati Uniti. Quest’ultima aveva la scopo di controbilanciare la prima. Inizialmente le primavere hanno suscitato grandi speranze, prima che sconvolgessero l’intera regione. Hanno portato alla guerra ed a sanguinosi conflitti, ma anche ad una polarizzazione politica e settaria senza precedenti. Una guerra in Siria è sembrata il miglior scenario per diversi poteri occidentali, compresi Stati Uniti e Israele. L’Iran, la Russia e i paesi arabi sono entrati nella mischia, ognuno con differenti obbiettivi. Per l’Iran la guerra probabilmente ha rappresentato l’opportunità di estendere la propria influenza regionale. Con l’entrata di Hezbollah nel conflitto – che da allora ha coinvolto diversi gruppi sia locali che stranieri – l’aspetto sunnita-sciita del conflitto è diventato evidente. La massiccia distruzione delle infrastrutture di Gaza non era la consueta crudeltà di Israele nei confronti dei palestinesi. Era finalizzata ad assicurare che Hamas non avrebbe avuto possibilità di governare Gaza dopo la guerra, e sarebbe semplicemente collassato di fronte al compito impossibile di ricostruire la Striscia senza aiuti, senza cemento né un’ancora di salvezza materiale di alcun tipo. Gli arabi da un lato erano impegnati con i loro problemi interni, dall’altro osservavano la tremenda punizione di Israele nei confronti di Gaza con un misto di angoscia, soddisfazione e attesa. Quelli che spingevano Hamas ad allontanarsi dall’Iran non si sono fatti avanti per colmare la disparità di armamenti, denaro ed altri aiuti concreti. Non solo parecchi, all’interno di Hamas, lo hanno visto come un tradimento, ma altri, che non avevano mai preso in considerazione una rottura con l’Iran, hanno iniziato a premere perché il movimento riconsiderasse le proprie alleanze politiche. Un manifesto a Gaza City ringrazia l’Iran per il suo sostegno alla causa Di fatto, il processo di ricucitura dei rapporti con l’Iran è durato mesi, e molti segnali – benché vaghi – di qualche forma di riavvicinamento tra Iran ed Hezbollah da un lato e Hamas dall’altro sono sembrati condurre ad una prevedibile conclusione. Quando un elicottero da combattimento israeliano ha colpito un convoglio nella provincia siriana di Quneitra il 18 gennaio, uccidendo sei combattenti di Hezbollah e un comandante iraniano, Hamas ha subito fatto le condoglianze. Il più rilevante di questi messaggi è stato quello di Mohammed al-Deif, il capo delle Brigate al-Qassam. Deif ha invocato una lotta comune contro Israele. Sono stati inviati anche messaggi politici, uno dei quali da parte dell’ex Primo Ministro del governo di Hamas, Ismail Haniyeh. “Dichiariamo la nostra piena solidarietà al Libano e alla resistenza libanese”, ha scritto, invitando all’unità contro “il principale nemico dell’ummah [comunità di tutti i fedeli musulmani, ndt.]”. Ciò indicava, insieme al richiamo alla resistenza pacifica in Siria da parte del leader di Hamas, Khaled Meshaal, che il tentativo di Hamas di rientrare nel campo dell’Iran era questione di tempo. Effettivamente quel rientro avverrà al più presto, come indicato da Ahmed Yousef, ex consigliere principale di Haniyeh e membro influente del movimento. Egli ha affermato che Meshaal si sarebbe presto recato a Tehran per incontrare i principali leaders iraniani. Il possibile ritorno di Hamas nel campo iraniano sarà probabilmente improntato alla cautela, ben studiato e probabilmente avrà dei costi. Vi è una crisi di fiducia tra tutte le parti. Per qualcuno all’interno di Hamas comunque questo ritorno era inevitabile. Ma anche l’Iran e Hezbollah hanno bisogno di Hamas, almeno per farla finita con l’impostazione settaria prevalente, in cui si è invischiata la regione. L’immagine di Iran e Hezbollah, quest’ultimo un tempo considerato il baluardo della resistenza, è ai suoi minimi da sempre. Qualcuno criticherà la nuova strategia di Hamas, altri apprezzeranno il suo ritorno al buonsenso. Ma per Hamas e per la resistenza palestinese a Gaza si tratta di una semplice questione di sopravvivenza. Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia inedita di Gaza.” |