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16 agosto 2015

 

Le scuole palestinesi non servono

di Patrizia Cecconi

 

L'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi non ha i soldi per aprire le scuole. Anzi, è meglio che chiuda. E' venuto il tempo per cancellare, in un colpo solo, il diritto all'educazione, quello al ritorno dei profughi e, con essi, la causa palestinese?

 

I grandi media non hanno ancora raccontato il clima di angoscia che dilaga nei campi dei profughi palestinesi. E nemmeno le manifestazioni che da giorni si svolgono sotto le sedi dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, l’Unrwa. E’ probabile che stiano aspettando che la protesta contro la soppressione del diritto all’educazione per mezzo milione di bambini, potenziali terroristi del futuro, si faccia più disperata. Potranno denunciare l’incomprensibile violenza dei palestinesi nei confronti di un’istituzione che serve solo a proteggerli. Sarebbe il consueto, abietto capovolgimento di ruolo tra la causa e gli effetti che segna questa guerra dal suo inizio. Stavolta servirebbe a proteggere i paesi che strangolano l’Unrwa sottraendo i 101 milioni di dollari indispensabili a far cominciare l’anno scolastico nelle 700 scuole in cui lavorano 29 mila insegnanti e ausiliari. C’è bisogno di indicare il governo del paese che dirige l’orchestra di un piano tanto astuto quanto perverso? Mai come oggi le divisioni nel mondo arabo potrebbero favorire uno scacco matto nel conflitto più immorale e ammantato di falsità narrative dei nostri tempi: la definitiva liquidazione del diritto al ritorno (sancito dall’Onu) per i profughi palestinesi cacciati nel 1948 e, di conseguenza, la liquidazione dell’ingiustizia da sanare, quella che ha dato vita alla “causa” palestinese.

 

C’è un’agenzia dell’Onu che riesce a stento – e forse quest’anno non riuscirà più – a rendere tutti i servizi per cui venne creata con una Risoluzione ad hoc nel dicembre del 1949. Si parla di mancanza di finanziamenti, ma forse a monte c’è dell’altro: c’è un diritto che, seppur sancito dall’Onu, è così fastidioso per chi dell’Onu s’è regolarmente fatto beffe, che ora potrebbe essere tranquillamente liquidato con la scusa dei finanziamenti mancanti.

Sto parlando dell’Unrwa, cioè l’agenzia per i rifugiati palestinesi che nel 1948 furono cacciati o costretti a fuggire dalle loro case e che da allora aspettano di potervi tornare come, appunto, stabilisce l’articolo 11 della Risoluzione Onu n. 194. Da diversi mesi il Commissario generale Unrwa invia appelli preoccupati ed ha recentemente scritto a Ban Ki Moon parole accorate affinché venga saldato il debito di 101 milioni di dollari che permetterebbe di iniziare regolarmente l’anno scolastico. Questo consentirebbe a 500.000 bambini dai 5 ai 14 anni di usufruire del diritto allo studio e ricorda che “l’educazione è riconosciuta a livello globale come fattore primario di crescita e sviluppo umano” e che “Niente è più importante per questi bambini in termini di dignità e identità dell’educazione che ricevono.” Queste le parole del Commissario generale Unrwa Pierre Krähenbühl, il quale aggiunge che in questo “momento di crescente instabilità in tutto il Medio Oriente, il ruolo di UNRWA è sempre più importante.” Ma nel suo rapporto-appello al Segretario generale dell’Onu conclude con quello che forse è visto come il peccato originale che Unrwa deve espiare e cioè “la capacità dell’Agenzia di contare pienamente sulla riconferma della volontà della comunità internazionale … in attesa di una giusta soluzione alla loro (dei rifugiati palestinesi) causa”. “In attesa di una giusta soluzione alla loro causa”. Questo l’hanno ben capito alcuni dirigenti scolastici dei 58 campi profughi diffusi in Palestina (sia Cisgiordania che Gaza) oltre che in Libano, Siria e Giordania.

La partita non si sta giocando solo sul diritto allo studio, per quanto importante esso sia in termini di dignità e identità. È un altro il diritto che si vuole eliminare, e basta leggere le tante dichiarazioni contro l’Unrwa reperibili su numerosi siti israeliani per capire il perché profondo dell’angoscia di tanti palestinesi di fronte alla chiusura di 700 scuole e 8 centri di formazione, privando 500.000 studenti e circa 29.000 docenti e ausiliari del diritto allo studio i primi e del loro lavoro gli altri.

E’ l’enunciato dell’articolo 11 della Risoluzione 194 la vera posta in gioco. È quel “diritto al ritorno” che Israele legge in funzione anti-israeliana e che rappresenta la memoria storica di un’ingiustizia da sanare e l’intralcio al piano D (cioè l’occupazione dell’intera Palestina fino al Giordano) che è nel progetto di fondazione di Israele e che scavalca totalmente la stessa Risoluzione 181 relativa alla partizione della Palestina storica dopo il mandato britannico.

Del resto basta leggere, tra le tante, anche solo le sincere dichiarazioni rilasciate al Parlamento europeo – e non contestate – dal leader dei coloni Gershom Mesika, ospite di un nostro europarlamentare e capo del Consiglio regionale degli insediamenti nel nord della Cisgiordania, che lo stesso si ostina a definire col nome biblico di Samaria, regione che rappresenterebbe “il cuore stesso dello stato di Israele” e che, pertanto, deve farne parte in toto insieme alla “Giudea”.

Meglio ancora, per fugare ogni dubbio, sarebbe opportuna l’analisi della sostanza illegale della recente nomina ad ambasciatrice di Israele in Italia di una cittadina … italiana (!) occupante di una casa in un insediamento dichiarato illegale dal Diritto internazionale e, quindi, in totale spregio della legalità internazionale, per capire quali siano le mire israeliane e quali e quanti i suoi supporter. Non va dimenticato che gran parte di questi supporter sono anche donatori Onu che non stanno effettuando le loro donazioni all’Agenzia Unrwa nonostante il Segretario generale Ban Ki Moon abbia definito “imperativo” che l’Agenzia riceva il denaro necessario ai suoi scopi ed abbia esortato i paesi donatori a non indugiare oltre.

Fino ad ora i nostri media non hanno ancora dato notizia delle manifestazioni che si stanno svolgendo da giorni sotto le sedi dell’Unrwa in Palestina e del clima di angoscia che si respira in tutti i campi profughi. Solo il manifesto ha pubblicato un articolo chiaro e circostanziato della situazione, ma il manifesto è un giornale indipendente, diciamo pure che i lunghi tentacoli che inducono all’autocensura non raggiungono il suo inviato in Medio Oriente. Purtroppo però è un quotidiano di nicchia e non arriva a quel pubblico abitualmente nutrito dal leit motif “Israele ha diritto a difendersi”, frase magica che pone in ombra ogni altra verità e che, nonostante l’abuso reso ormai grottesco dai fatti, ancora non conosce tramonto.

Detto con chiarezza: l’Unrwa deve sparire, perché la sua esistenza è un atto d’accusa, sebbene poco efficace, contro Israele, contro i suoi crimini – commessi e tuttora registrati nel suo atto di nascita e, prima ancora, nella sua gestazione – e contro i suoi sostenitori tout court che nella fattispecie meglio si caratterizzano come complici.

I palestinesi che non hanno ceduto alla rassegnazione, dopo settant’anni di occupazione e d’inganni, leggono quindi in quel che sembra un mero problema finanziario la volontà politica di eliminare l’istituzione che concretizza questo atto d’accusa e che tiene vivo il diritto al ritorno, diritto in senso proprio, come sancito dalla citata Risoluzione Onu. Essi sanno bene che la situazione in Medio Oriente in questo periodo è talmente caotica, tra massacri e cambi di alleanze, terrorismo indotto e terrorismo di regime che potrebbe essere il momento buono per raggiungere la soluzione finale delle questione palestinese. Questo temono quei numerosi palestinesi che sanno leggere oltre il contingente e che vedono nella mappa geografica ridisegnata dagli Usa nel 2003 un progetto in corso di compimento. Non caso le tre forze politiche più significative (Fatah, Hamas e Fronte popolare) pur nelle loro divisioni, concordano nel ritenere artificiale la crisi finanziaria dell’Unrwa. Ma forse sbagliano, cittadini e istituzioni politiche, ad attribuire all’agenzia Onu la responsabilità di tale situazione. Del resto, una delle forme più scaltre ed anche più diffuse per neutralizzare l’avversario è quella di fornirgli un avversario-specchio. In tal modo l’opposizione si concentra su chi viene trasformato in nemico invece che in possibile alleato e il processo cammina secondo il disegno del suo ideatore.

Ma la realtà che si vive in questo momento nei campi profughi non è caratterizzata solo da comprensibile grande agitazione, quanto dall’accavallarsi di posizioni lucide e coraggiose, come quella di far iniziare lo stesso l’anno scolastico pur senza i fondi Unrwa, con quelle di chi preferisce portare i propri figli altrove dichiarando così la propria rassegnazione insieme al proprio disprezzo per l’ente che non riesce a offrire il servizio scolastico. Lo sforzo di chi ha capito che cedere in questo momento significa lasciar liquidare la situazione dei profughi (come desidera Israele appoggiato dai suoi sostenitori) è uno sforzo da sostenere come possibile.

 

Liquidare la situazione profughi significa in ultima analisi liquidare la causa palestinese e accreditare la vittoria all’illegalità e all’illegittimità di uno Stato nato col pretesto della Risoluzione 181 (mai rispettata) e col progetto di espandersi fino al Giordano utilizzando forme diverse di “pulizia etnica” della popolazione autoctona. Le divisioni nel mondo arabo mai come ora renderebbero semplice questo passo. E dietro la scelta di non finanziare l’Unrwa solo pochi nell’opinione pubblica mondiale vedrebbero la lunga mano capace di artigliare perfino la Grecia di Syriza sporcandola con un accordo militare che ne cancella l’etica su cui aveva ottenuto i consensi per esistere, o di accarezzare intellettuali occidentali sempre attenti alla democrazia e ai diritti umani fino al momento della micidiale carezza sionista, o di offrire ghiotte occasioni di successo politico capaci di far chiudere gli occhi di fronte allo scadimento dei valori fondanti della democrazia, andando ben oltre il conflitto più immorale e più ammantato di falsità narrative degli ultimi cento anni.

Ma dove sono i media mainstream? forse stanno aspettando i primi disordini seri per dare notizia che “la violenta protesta” palestinese si è scagliata proprio contro un’agenzia Onu destinata a proteggerli, concludendo secondo copione questo ennesimo capitolo di mortificazione di un popolo che aspetta giustizia.

Per questo è importante che quanto sta succedendo – e che investe 193 paesi Onu – venga alla luce in modo corretto e prima che l’inversione temporale tra azione e reazione confonda la cronaca e la realtà dei fatti. Non è importante solo per il popolo palestinese e per chi ne sostiene i diritti, è importante per chiunque creda nel rispetto del Diritto universale.

12 agosto 2015

 


Patrizia Cecconi, studiosa di psicologia sociale e presidente dell’associazione Oltre il mare. Ha scritto diversi libri: Lessico deviante e Vagando di erba in erba. Racconto di una vacanza in Palestina, Città del sole edizioni; Belle e selvatiche. Elogio delle erbacce Chimienti editore. Tra le molte altre cose, cura un blog dedicato alla vita delle piante in Palestina, la terra che le scorre nelle vene, dove pubblica i testi che ha scelto di inviare a Comune-info e all’agenzia di stampa Nena News, diretta da Michele Giorgio, storico corrispondente del manifesto, la fonte italiana più autorevole e attenta alle notizie mediorientali.

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