Il Manifesto

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9 luglio 2015

 

Quando Annibale calpestò Rafah

di Michele Giorgio

 

Un anno fa Israele lanciava l’offensiva “Margine protettivo”. Tra le pagine più insanguinate della scorsa estate c’è quella del 1 agosto a Rafah, quando i comandi dello Stato ebraico diedero il via libera al codice di condotta previsto quando un soldato viene catturato dal nemico: bombardamenti continui su tutta la zona. Fu strage nella città palestinese

 

Rafah (Striscia di Gaza), 9 luglio 2015, Nena News

 

Una lacrima scende lentamente sul bel viso di Fatma Abu Musa. Si ferma all’altezza del labbro superiore. Una mano corre veloce ad asciugarla, per farla sparire subito. È un dolore composto quello della giovane donna, tenuto dentro, manifestato solo a tratti dalla voce rotta dall’emozione. «Karam era la mia migliore amica, ci volevamo bene. L’avevo aiutata io a indossare l’abito da sposa e quattro mesi dopo sono stata io a lavare il suo corpo prima della sepoltura. Delle volte mi dico…è stato solo un brutto sogno e presto ti sveglierai… ma non è così. Karam non c’è più», racconta Fatma, tecnico di laboratorio dell’ospedale “Kuwaiti” di Rafah. La sua amica Karam Dheir, 26 anni, è rimasta uccisa il 1 agosto del 2014 durante quello che rimarrà scolpito nella memoria collettiva della popolazione di Rafah come il “Venerdì Nero”.

E’ una delle pagine più insanguinate dell’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” cominciata l’8 luglio dello scorso anno e andata avanti fino al 26 agosto. Cinquanta giorni di bombardamenti aerei, tiri di mezzi corazzati e di artiglieria, cannonate dal mare, di incursioni e combattimenti che hanno ucciso circa 2.200 palestinesi, tra i quali molte centinaia di civili indifesi, oltre 500 bambini e ragazzi. Tante famiglie sono state decimate, colpite da bombe mentre erano riunite in casa. Undicimila i feriti, centinaia di migliaia di persone sfollate per settimane, decine di migliaia di case ed edifici distrutti o danneggiati gravemente, anche ospedali, in particolare nella fascia orientale di Gaza. Beit Hanoun, Shujayea, Khuzaa, Zayton, Zannah e, appunto Rafah, sono i nomi di alcuni dei centri abitati ridotti a una distesa di rovine. Migliaia sono i razzi e i colpi di mortaio che il movimento islamico Hamas e altre organizzazioni palestinesi hanno sparato verso il territorio israeliano, facendo sette morti civili (tra i quali un bambino di 4 anni) e centinaia di feriti. 66 sono i soldati israeliani rimasti uccisi un anno fa, quasi tutti, negli scontri a fuoco con i combattenti di Hamas e di altri gruppi.

Uno di questi militari morti era il sottotenente Hadar Goldin, di una unità di ricognizione della Brigata Givati, caduto quel 1 agosto. La sua vicenda genera ancora emozione nell’opinione pubblica israeliana. Il suo corpo, e quello del sergente Oron Shaul, sempre della Givati, sarebbero nelle mani di Hamas. Per i palestinesi il nome di Goldin invece è sinonimo di strage, di civili fatti a pezzi dalle cannonate. Il 1 agosto 2014 gli abitanti di Rafah hanno appreso sulla loro pelle dell’esistenza della “Direttiva Annibale”. «Era stata annunciata una tregua di diverse ore a Rafah – ricorda Fatma Abu Musa –, perciò andai al lavoro più rilassata rispetto agli altri giorni. Le strade erano affollate, alcuni andavano ai forni per comprare il pane, altri si procuravano un po’ di frutta e ortaggi. Tanti ancora ne approfittavano per tornare per qualche ora alle case che avevamo dovuto abbandonare perchè troppo esposte alle cannonate». Poco dopo, aggiunge Fatma, si sarebbe scatenato l’inferno: «All’improvviso cominciarono a cadere bombe sulla parte est di Rafah, le esplosioni erano continue, tanti scappavano urlando e in preda al panico. I colleghi dell’ospedale ‘Abu Yusef al Najjar’ (il principale di Rafah, ndr) ci dissero di tenerci pronti perchè loro erano in pieno codice rosso per l’arrivo di decine di feriti in condizioni gravissime e che presto ci sarebbe stato bisogno del nostro intervento». Saleh Mohsen, quel giorno era in Sharaa Bildesi, una delle strade più colpite. «Chiedevo a Dio di farmi ritrovare in vita la mia famiglia – dice Mohsen – non mi importava di morire, pensavo solo alla salvezza dei miei figli. I colpi cadevano ogni 10 secondi, in modo indiscriminato». Alle ore 12 i morti erano già decine, centinaia i feriti. Fu colpito – da due missili, secondo testimoni palestinesi – anche l’ospedale “Abu Yousef al Najjar” e i medici furono costretti ad evacuare i feriti e gli ammalati. «Cominciarono a portarli da noi, nonostante si trattasse di un ospedale specializzato in ostetricia e ginecologia– spiega Fatma Abu Musa –, nelle nostre piccole sale operatorie i medici facevano quattro inteventi chirurgici alla volta. Era talmente continuo l’afflusso dei feriti che chiedemmo ai proprietari delle case vicine di ospitare quelli meno gravi». Andò avanti così per tre giorni. Ad un certo punto, aggiunge Fatma, «con l’obitorio pieno, svuotammo i frigoriferi dei gelati nelle sale di attesa e li usammo per conservare i cadaveri dei bambini e i corpi smembrati che i medici non avevano potuto ricomporre». Fatma in quei giorni si sarebbe trovata davanti agli occhi anche il corpo senza vita della sua amica Karam, uccisa dall’esplosione di missile sganciato da un drone, nessuno sa contro chi e contro cosa.

Quel “Venerdì nero” 1 agosto scattò la “Direttiva Annibale”, in risposta all’uccisione di due soldati israeliani e alla cattura – ma forse era già morto – del sottotenente Hadar Goldin da parte di uomini di Hamas. Si tratta di un codice di condotta delle forze armate israeliane – deciso nel 1986 e revocato nel 2003 ma tornato in vigore dopo il caso del caporale Ghilad Shalit, fatto prigioniero da un commando palestinese nel 2006 e tornato a casa solo nel 2011 in cambio della liberazione di un migliaio di detenuti politici – che impone di “non lasciare indietro nessuno” a costo di ucciderlo: meglio un soldato morto che prigioniero del nemico. La direttiva prevede un bombardamento violento e intenso, per ore, dell’area dove potrebbe trovarsi il militare catturato. Rafah però non è un deserto o una enorme campagna vuota e disabitata. E’ la terza città della Striscia di Gaza per numero di abitanti. Sparare a tappeto sulla zona est della città e i suoi sobborghi significa provocare una strage di civili.

Quella mattina del 1 agosto tutto comincia a cavallo dell’inizio della tregua. Le versioni di Israele e di Hamas sono opposte. I soldati, afferma Tel Aviv, erano in perlustrazione, alla ricerca di tunnel sotterranei e Hamas avrebbe approfittato della cessazione delle ostilità per tendere un agguato alla pattuglia, fare prigioniero un militare e trascinarlo dentro Gaza attraverso un tunnel. Il movimento islamico nega e afferma che sarebbe stato proprio l’esercito israeliano a violare la tregua mandando in esplorazione i suoi soldati a ridosso delle linee palestinesi in segno di sfida e per provocare la ripresa dello scontro. Neppure la Commissione d’inchiesta del Consiglio dell’Onu per i Diritti umani, che ha ascoltato 22 testimoni, visionato filmati e immagini satellitari sui fatti del 1 agosto, è stata in grado di determinare se lo scontro a fuoco e la cattura di Goldin siano avvenuti prima o dopo l’inizio della tregua. Ha accertato però che Rafah finì sotto un bombardamento spaventoso, con i civili in trappola.

Una pioggia di oltre 1000 proiettili solo nelle prime tre ore, caduta su strade e case. Un grandine di fuoco che ha devastato Mashru Amer, Tannur, Hay al Jneina, Via Uruba, Al Shawka, Zallata, la zona dell’aeroporto e la superstrada Salahuddin. Il 95 per cento delle vittime della “Direttiva Annibale” viveva in queste zone. Un caso riferito alla Commissione dell’Onu è quello di un’ambulanza colpita mentre trasportava civili feriti a Msabbeh. Il veicolo prese fuoco uccidendo le otto persone a bordo. Secondo i dati delle Nazioni Unite a Rafah si sono avuti 100 morti solo il 1 agosto, tra cui 75 civili (24 bambini e 18 donne). I media palestinesi hanno parlato di circa 200 morti a Rafah dopo la cattura di Hadar Goldin. Il bagno di sangue è andato avanti anche nei giorni successivi, segnati dalla strage (10 morti), il 3 agosto, in una scuola dell’Unrwa (Onu) che, come molte altre di Gaza in quei giorni, ospitava sfollati. I comandi israeliani dissero di aver ordinato di sparare contro miliziani armati e non verso la scuola.

In Israele della “Direttiva Annibale” si discute ancora, e sui fatti del 1 agosto ha indagato la Procura militare. Ma solo in riferimento al sottotenente Goldin e a una possibile negligenza che potrebbe avere segnato la sorte della pattuglia finita sotto attacco. Non certo per le conseguenze devastanti che la sua applicazione ha avuto sulla popolazione di Rafah. Il tenente colonnello Eli Gino, comandante durante “Margine Protettivo” delle unità di ricognizione della Brigata Givati, ha dichiarato che il fuoco delle forze armate israeliane è stato «proporzionato» e sottolineato che quando «viene rapito un soldato, tutti i mezzi sono leciti» anche se esigono un prezzo elevato. Il 26 settembre 2014, il quotidiano Yediot Ahronot ha ricostruito l’accaduto in un lungo articolo, “Impedire un altro incidente Ghilad Shalit”, in cui si ribadisce che la linea seguita era quella di impedire, ad ogni costo, che Goldin rimanesse vivo nelle mani di Hamas. E nonostante Israele sostenga, contro gli esiti delle indagini dell’Onu, di non aver commesso alcun crimine la scorsa estate, l’esercito si è premurato di nascondere l’identità di un capitano e di un maggiore che, si comprende dallo stesso articolo di Yediot Ahnorot, sono coinvolti nella attuazione della direttiva e rischiano di finire davanti alla Corte penale internazionale. La “Direttiva Annibale è l’inizio del fascismo in Israele”, scrisse l’opinionista Uri Arad il 12 agosto del 2014. Inizio del fascismo non per la strage di civili innocenti a Rafah in quel “Venerdì nero” ma perchè il premier Netanyahu riteneva e forse ancora ritiene sacrificabile la vita di un soldato israeliano. Nena News

 

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