http://www.eastonline.eu/

Lunedì, 24 Agosto 2015

 

Perché i mercati hanno paura della Cina e di cosa farà Pechino

di Fabrizio Goria

 

L’estate, e quindi la calma, è finita. I mercati finanziari globali sono rientrati nel clima che ha contraddistinto il 2007 e il 2008. È stato già chiamato il Black Monday della Cina. E in effetti, tutto sembra essere simile a quanto successo il 19 ottobre 1987 negli USA, o a quanto accaduto il giorno del collasso di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008.

Oggi lo Shanghai Stock Exchange Composite Index ha lasciato sul terreno l’8,49 per cento. facendo segnare una delle peggiori sedute della sua storia. E si è tirato dietro tutte le Borse mondiali. Alle 14.10, ora italiana, i futures relativi all’indice statunitense Dow Jones segnavano un ribasso di 700 punti. Le piazze europee, invece, erano già in perdita dalle prime contrattazioni. Non bisogna stupirsi di quanto potrebbe accadere nei prossimi mesi. Il periodo nero della Cina è appena cominciato. 

Nei giorni più bui della Grecia, fra giugno e luglio, c’era uno spettro che aleggiava sull’economia globale. Le continue perdite del mercato azionario cinese stavano facendo riflettere gli analisti finanziari di mezzo mondo, ma lo stallo nelle negoziazioni legate al futuro di Atene aveva distratto i più. I corsi azionari di Hong Kong, Shanghai e Shenzhen subirono abbondanti perdite e i regolatori furono costretti a misure radicali nel tentativo di frenare l’ondata di vendite sul mercato azionario del Dragone. Due su tutte: è stata sospesa la vendita di circa 1.400 titoli azionari cinesi. Nella sostanza, i regolatori finanziari cinesi hanno impedito agli azionisti rilevanti, i manager delle società e gli amministratori, per un minimo di sei mesi, di vendere le azioni cinesi in portafoglio. Un estremo tentativo di bloccare un sell-off che sembrava inarrestabile. E questo a luglio. Non è bastato, come prevedibile. Questo perché la bolla azionaria cinese è più grande di quanto si possa immaginare. A fine luglio Schroders scriveva che “l’indice composito cinese (quindi non solamente quello di Shanghai, ndr) è arrivato persino a guadagnare il 60% da inizio anno”. Cifre da capogiro, non supportate dai fondamentali macroeconomici, più deboli che mai, come ricordano da mesi le principali case d’affari internazionali, insieme alle istituzioni monetarie di mezzo mondo. 

 E poi c’è stata la correzione del cambio fra renminbi e dollaro statunitense. Dopo anni di apprezzamento, la Cina ha iniziato a fare il contrario, spiegando che non seguirà il corso del dollaro nel caso di rivalutazioni una volta che la Federal reserve alzerà i tassi d’interesse. È una scelta interessante, specie in ottica futura, perché dimostra che le autorità cinesi hanno compreso che possono, e devono, puntare a un’indipendenza valutaria sempre maggiore. La libertà di fluttuazione del renminbi è positiva, ma richiede correzioni che possono essere pesanti nell’immediato. Poi, come ricorda anche Morgan Stanley, ci sarà una stabilizzazione. 

Nonostante ciò, nel breve la situazione è lungi dall’essere vicina a una soluzione. Oggi il ministero delle Finanze cinese ha deciso di imporre un tetto massimo al debito delle amministrazioni locali, composto dalla quota di emissione prevista per il 2014 più quella per il 2015. Oltre, non sarà possibile effettuare emissioni. È il tentativo di porre un freno a una delle tre problematiche principali del settore finanziario cinese, insieme agli squilibri sul mercato azionario e su quelli del debito corporate. Come ha spiegato a inizio agosto la banca anglo-asiatica HSBC, “è assai complicato che gli investitori si plachino nel breve periodo”. Questo perché “le attuali azioni correttive della Cina non sono sufficienti a risolvere problemi strutturali che esistono da decenni”. In pratica, si è arrivati al punto di saturazione del mercato azionario. 

Allo stesso modo, e questo è in via potenziale il lato positivo, le autorità cinesi si sono accorte di due cose fondamentali. La prima è che i suoi problemi sono, appunto, strutturali. Stanno cercando, da tre anni ormai, di completare il ribilanciamento dei fattori produttivi interni per evitare che la crescita economica rallenti sotto la soglia limite del 7% annuo. Azioni del genere richiedono tempo e pazienza, ma la Cina sta accelerando il processo. Difficile che basti a frenare l’ondata di vendite sul mercato azionario cinese, ma potrebbe esserci una riduzione del sell-off. La seconda è che i cinesi hanno bisogno di tempo per modificare le loro abitudini. Un cambiamento di mentalità, in altre parole. Sia nella propensione al rischio negli investimenti sia nella struttura dei mercati. Le liberalizzazioni sono in corso. Come scriveva pochi giorni fa Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, “il mondo chiede alla Cina di liberalizzare il più possibile ma la liberalizzazione porta a dislocazioni (inclusi fallimenti) nel mondo produttivo e a volatilità sul cambio e in borsa. È un prezzo inevitabile, che porterà però benefici nel medio termine”. Vale a dire: le fluttuazioni nel breve potranno anche essere significative, ma dopo ci sarà tranquillità.  

Ciò che ci si può aspettare, nel breve periodo, è l’intervento - l’ennesimo - della People’s Bank of China (Pboc), la banca centrale cinese. Come ha rimarcato anche la banca statunitense Goldman Sachs, “è difficile che la Pboc resti ferma a guardare il crollo del mercato azionario. È troppo rischioso per la crescita globale”. Infatti, è quest’ultimo il principale rischio legato alla Cina, come ha ricordato il Fondo monetario internazionale (Fmi) più volte negli ultimi due anni. La crescita economica cinese sarà del 6,8% annuo per l’anno in corso, sei decimali in meno rispetto all’anno passato, secondo le previsioni del Fmi. E per il 2016 potrebbe esserci una correzione al ribasso. 

Sebbene ci siano tutti gli elementi per ragionare razionalmente sulle correzioni della Cina, il panico si è trasmesso velocemente fra gli investitori. Il Financial secretary di Hong Kong, John Tsang Chun-wah, stamattina ha cercato di gettare acqua sul fuoco. “La caduta dei mercati azionari locali non è una crisi finanziaria, ma il suo impatto è comunque severo”, ha detto. La speranza è che quanto farà a breve la Pboc sia sufficiente a placare il panico degli investitori internazionali. Sennò, a farne le spese sarà l’economia globale. 

http://sbilanciamoci.info/

25/08/2015

 

La bolla cinese

di Andrea Baranes

 

Il crollo delle Borse cinesi ha contagiato i principali mercati finanziari. Ma l'incendio è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. E se non si parte da questa evidenza, la bolla cinese sarà unicamente l'ennesimo – ma non l'ultimo – episodio di una lunghissima serie

 

Una crisi che nasce da una guerra monetaria, in cui ogni Paese svaluta nel tentativo di aumentare l'export per migliorare il proprio bilancio pubblico; una conseguente guerra commerciale e una concorrenza esasperata tra nazioni per esportare più del vicino; un inevitabile rallentamento del gigante asiatico, dopo anni di crescita in doppia cifra. Sono diverse le spiegazioni che si leggono negli ultimi giorni, dopo il crollo delle Borse cinesi e il conseguente contagio ai principali mercati finanziari. Diverse spiegazioni che contengono sicuramente elementi di verità, ma che trascurano probabilmente l'aspetto determinante. Le Borse cinesi venivano da tre anni consecutivi di rialzi praticamente senza interruzione. Più che rialzi, anni di esplosione irrefrenabile. Per quella di Shenzen parliamo di circa + 150% in 12 mesi, poco meno per quella di Shanghai.

Era davvero così imprevedibile pensare che un tale aumento fosse insostenibile, che si trattasse di una bolla? E' davvero possibile oggi sorprendersi per un repentino crollo di fronte all'ennesima, evidente manifestazione del (mal)funzionamento della finanza? E' possibile imputare tale scoppio a una crescita che potrebbe fermarsi al 6 o 7% del PIL invece dell'8% previsto? Il problema è in un 1% in meno di PIL o nel 150% in più di valore degli attivi finanziari?

Per capire cosa stia succedendo in Cina, si può tornare indietro di qualche anno. Il Paese ha intrapreso una profonda trasformazione della propria economia, cercando di passare dall'essere la “fabbrica del mondo” con una produzione prevalentemente orientata all'export, a un sistema maggiormente rivolto ai consumi e alla domanda interna. Una trasformazione che ha subito una forte accelerazione dopo lo scoppio della bolla dei subprime nel 2007, quando le esportazioni hanno subito un brusco rallentamento a seguito della crisi delle principali potenze occidentali.

Per rilanciare la domanda interna il governo ha messo in piedi enormi investimenti in infrastrutture, mentre in parallelo si assiste a un aumento degli stipendi e quindi del potere d'acquisto. Prima ancora, però, è stato chiuso un occhio – se non incentivato – il ricorso all'indebitamento da parte dei privati. Sia quello bancario, sia soprattutto tramite canali informali e paralleli, una sorta di sistema finanziario ombra fatto di prestiti personali, di società più o meno autorizzate dai trust ai fondi strutturati ai più diversi canali. La speranza era di sostenere la crescita tramite una domanda interna fondata sull'indebitamento.

Il problema di fondo è però che sempre più persone sono ricorse a tali strumenti non per finanziare i propri consumi o l'acquisto della casa, ma per acquistare azioni e titoli finanziari, attratte dagli aumenti degli indici di Borsa. L'arrivo massiccio di capitali spingeva al rialzo i titoli, il che attirava nuovi investitori, spingendo ulteriormente al rialzo i titoli, in una spirale che si auto-alimenta. Un numero incredibile di persone si sono lanciate in questa apparente corsa all'oro. Secondo un articolo di luglio del New York Times, c'erano 112 milioni di conti aperti alla Borsa di Shanghai e 142 a quella di Shenzen. Circa 20 milioni di nuove posizioni sono state aperte nella sola primavera del 2015. In massima parte, parliamo di piccoli risparmiatori totalmente a digiuno di finanza, e che si sono lanciati non solo impiegando i propri risparmi, ma spesso indebitandosi.

Capitali a cui si sono sommati quelli in arrivo dall'Europa, dagli USA e dagli investitori di tutto il mondo, attratti dall'Eldorado delle Borse cinesi a fronte di un ristagno dell'economia in patria. In altre parole, l'ennesima bolla che testimonia l'intrinseca instabilità della finanza. Alla base della teoria dei mercati efficienti che domina l'attuale visione economica, c'è il fatto che domanda e offerta formano il prezzo, e il libero mercato ha quindi un meccanismo per l'appunto incredibilmente efficiente di auto-regolamentazione: se aumenta la domanda di un prodotto tende ad aumentare il prezzo, ma questo porta a una diminuzione della domanda, e quindi a un nuovo equilibrio. Peccato che il mercato più centrale e importante del capitalismo moderno, il mercato dei soldi, ovvero la finanza, funzioni in maniera diametralmente opposta: la domanda di un titolo ne fa salire il prezzo, e questo, all'opposto della teoria dei mercati efficienti, porta a un ulteriore aumento della domanda, il che spinge al rialzo il prezzo, e così via, fino all'inevitabile formazione di una bolla.

All'inizio dell'estate gran parte delle quotazioni azionarie era al di fuori di qualsiasi fondamentale economico. Uno dei principali indicatori del valore di un'azione è il rapporto P/E (Price / Earnings). Semplificando, il rapporto tra la quotazione di un titolo e gli utili che genera. Si stima solitamente che un valore “corretto” del P/E sia intorno a 15 (chiaramente il dato dipende da diversi fattori). A fine giugno il valore medio a Wall Street era 21,2, quello sulle Borse cinesi un incredibile 85. Eppure sempre più persone continuavano a comprare, fino a che la bolla, come sempre avviene, non è scoppiata.

Ci si può adesso interrogare sui motivi, ma probabilmente poco importa sapere quale sia stato il classico battito d'ali di farfalla che ha scatenato la tempesta, se una mossa sbagliata di una banca centrale, una stima leggermente rivista al ribasso di crescita del PIL o altro. Semmai nel dibattito attuale colpisce vedere come molti riescano a dare le responsabilità del panico che ha colpito i mercati di tutto il mondo all'incapacità del governo cinese di porre un freno al crollo delle Borse. Spesso gli stessi che invocano l'efficienza del libero mercato finché le cose vanno bene sono poi in prima fila per implorare il sostegno pubblico quando il giocattolo si rompe.

Difficile invocare l'aiuto del pubblico solo per raccogliere i cocci. Difficile imputare la situazione attuale a questioni monetarie o commerciali, che sono al più la scintilla che ha scatenato l'incendio. L'incendio, per l'ennesima volta, è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. Ma se non si parte da questa evidenza, la bolla cinese sarà unicamente l'ennesimo – ma non l'ultimo – episodio di una lunghissima serie.

.

.

.

.

.

.