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26 ottobre 2014

 

L’ordine mondiale di Henry Kissinger

di Mariangela Matonte

 

Tra declino americano, guerre di religione, ritorno della Russia e avanzata della Cina, l’equilibrio mondiale è tutto da definire. Mentre lo scontro ideologico sembra tornato a fare da paravento ai più tradizionali istinti di potenza, Henry Kissinger, campione di arte diplomatica, addita nel ritorno all’equilibrio di potenza in una cornice di governance globale condivisa la strada da seguire per ristabilire l’ordine mondiale

L’occasione era troppo ghiotta per il Grande Vecchio della diplomazia moderna. Henry Kissinger torna a farsi sentire con il suo ultimo lavoro, World Order, e lo fa con un titolo evocativo in un momento di estremo disordine mondiale. World Order è un compendio del pensiero storico-politico di Kissinger, una lectio, (forse l’ultima, Kissinger ha 91 anni), sulle dinamiche e sui princìpi che determinano stabilità e sicurezza internazionale. Lo scenario geopolitico mondiale è letto con la lente della Storia – quella dell’Occidente, naturalmente. Tutti gli avvenimenti attuali sono interpretati guardando al passato. Il Medio Oriente è paragonabile all’Europa della guerra dei Trent’anni, dilaniata da sanguinari conflitti di religione; la Russia di oggi a quella di secoli fa con il suo incessante tentativo di  espansione.

World Order mette insieme storia, geografia, politica e passione. La premessa dell’opera, che è poi il suo leitmotiv, è l’impellente necessità di tracciare le linee guida di quello che da tempo oramai viene enfaticamente annunciato come nuovo ordine mondiale. Più si moltiplicano gli appelli alla “comunità internazionale”, più risulta evidente quanto questa sia magmatica e indefinita. Non ne sono chiari gli obiettivi, i metodi o i limiti che dovrebbe avere. Il nodo centrale attorno cui si sviluppa il lavoro di Kissinger è il ruolo degli Stati Uniti nell’evoluzione della nuova governance globale. «Al caos, – scrive Kissinger, – si affianca una interdipendenza senza precedenti». Già, perché la globalizzazione, con le sue interconnessioni planetarie, ha cambiato il paradigma della politica di potenza tradizionale. Le grandi catene di rifornimento su scala globale fanno sì che la sicurezza di una potenza dipenda dalla forza, e non dalla debolezza delle altre. Ma la globalizzazione non è più in grado di tenere insieme le diverse sfere di influenza: molte sfide trascendono i confini e il mondo sembra avviato a vivere continui conflitti per l’egemonia globale, impensabili durante la Guerra fredda.

Tuttavia Kissinger pare temere assai più un conflitto tra regioni che tra Paesi:

La domanda attuale di ordine mondiale richiede una strategia coerente in grado di stabilire un concetto di ordine all’interno delle varie regioni e di collegare fra loro questi ordini regionali. Questi obiettivi non sono necessariamente compatibili fra loro: il trionfo di un movimento radicale può stabilire l’ordine in una regione ma destabilizzarne altre. Il dominio militare di una regione, anche se può determinare un ordine apparente, può produrre una crisi per il resto del mondo.

Maestro di realpolitik, il vecchio Henry non nasconde il suo scetticismo sulla difficoltà di equilibrare interessi nazionali di potenze in competizione, fra quelle che hanno scritto le regole dell’ordine internazionale (Stati Uniti in testa) e quelle che non le accettano (Cina e mondo islamico). L’alleanza che nei fatti si sta costituendo tra Cina e Russia, tra i più influenti campioni mondiali di capitalismo autoritario, animata da interessi economici e cementata dal comune rifiuto dell’ordine mondiale imposto dagli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni, si presenta come un’alternativa al binomio americano democrazia-capitalismo.

Da dove ripartire allora? Qui lo storico Kissinger prende il sopravvento. È al power of balance che bisogna guardare, a quella regola aurea sancita dalla pace di Westfalia che vede nel contenimento reciproco di ambizioni di potenza il miglior antidoto al caos internazionale. Kissinger ne dimostra la validità ripercorrendo momenti storici salienti che ne hanno segnato il trionfo (il Congresso di Vienna) o l’eclissi (i due conflitti mondiali). Ricorda come l’odine globale affermatosi  durante la Guerra fredda sia stato possibile grazie al mantenimento di questi stessi princìpi irrorati da una buona dose di idealismo americano. Oggi lo scenario è assai più complesso. Il groviglio islamico ne è la prova. Ma sull’Islam Kissinger è generico. Oltre a darne per scontata l’omogeneità, si limita a indicare nella mancata separazione tra Stato e moschea la causa principale del caos mediorientale. Tralascia di osservare che l’Islam è in guerra con se stesso prima che con il resto del mondo. E che a questa guerra, solo apparentemente religiosa, non sono estranei decenni di infauste interferenze straniere e il recente inabissamento USA nella regione.  L’interrogativo (che resta senza risposta) è su come sarà possibile  inglobare, in un sistema di norme e valori comuni,  esperienze storiche e  culturali diverse. La cooperazione dipende dalla leadership. L’Europa non è più il demiurgo dell’ordine mondiale. Qui Kissinger, senza infingimenti, rivela tutto il suo scetticismo sul ruolo presente e futuro del Vecchio continente. Non più comunità di Stati sovrani, ma non ancora Stato, l’Europa gioca al ribasso, soffre di un vuoto di autorità all’interno e di uno squilibrio di potere lungo le frontiere esterne. E, non in ultimo, ha confuso la sua costruzione interna con il suo scopo geopolitico.

 

Chi guiderà allora il nuovo ordine? La risposta è scontata, non possono essere che gli Stati Uniti.  Kissinger ne evidenzia i limiti, gli errori (tra i più recenti l’approccio idealista verso le Primavere arabe), ma anche la statura. Tuttora insuperata. Nessun ordine internazionale, scrive Kissinger, può durare senza collegare «power to legitimacy». Finora solo gli Stati Uniti sono riusciti in questo scopo.  «Qualunque sistema mondiale per essere sostenibile deve essere accettato e ritenuto giusto non solo dai Governi, ma anche dai cittadini». C’è un evidente rimando all’eccezionalismo americano, alla ferma convinzione della indispensabilità della leadership americana al servizio di un ordine liberale. Il messaggio finale è chiaro, pur senza esplicite critiche alla presidenza Obama. Il mondo sta andando alla deriva e gli Stati Uniti sono impreparati alle nuove sfide. L’America riuscirà a difendere il suo eccezionalismo solo se riuscirà a confrontarsi con altre identità storiche e ad accettare che la sua visione non è universale, bensì unica. Questa è una condizione necessaria, ma non sufficiente, a salvare il mondo dal caos. L’idealismo dei valori universali, chiosa Kissinger,  non può nulla senza il realismo di una strategia geopolitica globale.

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