L'eccidio di Porzûs consistette nell'uccisione, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, di diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani – in prevalenza gappisti – appartenenti al Partito Comunista Italiano. L'evento – considerato uno dei più tragici e controversi della Resistenza italiana – fu ed è tuttora fonte di numerose polemiche in ordine ai mandanti dell'eccidio e alle sue motivazioni. Le vicende legate a Porzûs hanno travalicato il loro contesto locale fin dagli anni in cui si svolsero, entrando a far parte di una più ampia discussione storiografica, giornalistica e politica sulla natura e gli obiettivi immediati e prospettici del PCI in quegli anni, nonché sui suoi rapporti con i comunisti jugoslavi e con l'Unione Sovietica.


 

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24 aprile 2015

 

L’eccidio di Porzûs, la Resistenza spezzata

di Matteo Zola

 

Diciassette partigiani, membri delle Brigate Osoppo, furono fucilati da altri partigiani, in prevalenza garibaldini, nei pressi dell’alpeggio di Porzûs, in Friuli. E’ forse l’evento più controverso di tutta la guerra partigiana combattuta sul suolo italiano e, ancora oggi, è motivo di scontro e strumentalizzazioni politiche.

La guerra partigiana ha visto tragedie che non esauriscono la loro carica emotiva e dividono, anziché unire, le memorie di quell’evento fondamentale nella storia italiana che fu la Resistenza al nazifascismo. Alcuni lo definiscono come un “secondo Risorgimento” combattuto da una élite, ma assai particolare. Non una élite di censo, ma di dignità, composta da studenti, operai, soldati, professori, avvocati, sbandati e qualche farabutto. I soliti “mille” che tengono in piedi l’Italia quando è necessario. Quel “Risorgimento” ebbe giocoforza anche un carattere nazionale e patriottico che, nelle regioni nord-orientali dell’allora territorio italiano, diede luogo a peculiari tensioni che sono all’origine di eventi come l’eccidio di Porzûs.

Siamo nel febbraio del 1945, la guerra sta finendo. Ci troviamo nella “Slavia friulana“terra da secoli abitata da genti slave ma annessa all’Italia fin dai tempi della Repubblica di Venezia. La località di Porzûs si trova oggi nel Friuli orientale, nelle Valli del Torre. All’epoca però la regione era contesa. Vi operavano infatti diverse formazioni partigiane: quelle garibaldine, formate soprattutto da gappisti appartenenti al partito comunista italiano; quelle jugoslave, in particolare gli sloveni del IX Korpus, fortemente organizzati e inseriti all’interno dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia; e quelle “verdi” che raccoglievano cattolici, socialisti e azionisti. Queste ultime si erano organizzate nelle Brigate Osoppo, formatesi già il 12 settembre del 1943, a soli quattro giorni dall’armistizio. Il nome scelto richiamava la località di Osoppo che durante i moti risorgimentali del 1848 resistette per ben sette mesi agli austriaci e al momento della resa ebbe l’onore delle armi dallo stesso avversario e fu insignita della medaglia d’oro al valor militare. Fin dal nome i partigiani “osovani” vollero sottolineare come la loro lotta fosse anche una lotta nazionale, legata ai destini della patria, in opposizione ai desideri di espansione territoriale jugoslavi e alle istanze socialiste rivoluzionarie dei garibaldini.

Le formazioni garibaldine intendevano procedere a una rivoluzione sociale di tipo marxista che fosse avulsa dal retaggio nazionale e nazionalista. Tuttavia fino al 1944 le formazioni osovane e garibaldine collaborarono realizzando un comando unificato. Fu poi l’offensiva tedesca a spezzare l’unità e l’inserimento dei partigiani jugoslavi complicò la situazione. Il PCI, congiuntamente al Partito comunista jugoslavo, si dichiarò a favore dell’autodeterminazione degli slavi residenti in Friuli financo alla secessione dall’Italia poiché l’obiettivo era la “liberazione dagli stati imperialistici che sono l’Italia, la Jugoslavia e l’Austria”, nel contempo affermando che “chi non lavora e non lotta per realizzare questa linea politica non è un comunista, ma un opportunista contro il quale si deve combattere”.

Una posizione condivisa da parte jugoslava. In una nota lettera inviata alla direzione del PCI Alta Italia, Edvard Kardelj, dirigente comunista sloveno e collaboratore di Tito, scriveva che occorreva “fare un repulisti” di quelle unità partigiane in cui “lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici”. In un passaggio ci si riferisce alla Osoppo che, di quello spirito, sembra essere pervasa in quanto “sotto una forte influenza di diversi ufficiali badogliani e politicamente guidata dai seguaci del Partito d’Azione”. Nella stessa missiva si confermava il desiderio di vedere l’intera regione passare nella nuova Jugoslavia socialista.

Queste dunque le posizioni in campo e le relative aspirazioni e ideologie. I fatti di Porzûs si inseriscono in questo complesso quadro nel quale controllo del territorio, prestigio delle diverse formazioni partigiane, obiettivi politici immediati e futuri diversi, contribuirono a far crescere la tensione all’interno del fronte partigiano via via che la fine della guerra – e quindi i nodi da venire al pettine – si avvicinavano.

Ci fu però un fatto a scatenare la tragedia. E qui seguiamo la ricostruzione dei fatti proposta dall”ANPI. Nell’inverno ’44 – ’45 si intrecciano una serie di colloqui clandestini tra la direzione dell’Osoppo, che aveva rifiutato di inquadrarsi nelle formazioni titine, e il comando delle SS tedesche e  - almeno in un caso –  tra l’Osoppo e la X MAS di Junio Valerio Borghese, con l’intento da parte fascista e nazista di costituire un fronte contro l’avanzante “slavocomunismo” – e almeno retrospettivamente, da parte dell’Osoppo, con l’intento di raggiungere un’accordo dopo le feroci rappresaglie naziste che nel settembre 1944 colpirono duramente la popolazione innocente.

Agendo in questo modo le formazioni Osoppo ricaddero sotto l’ordinanza del CVL, il Comando Volontari della Libertà riconosciuto dal governo Badoglio e dagli alleati, che aveva il compito di coordinare la guerra partigiana nell’Alta Italia. L’ordinanza del CVL qualificava come “tradimento” – e questo in tempo di guerra equivale alla fucilazione – ogni trattativa con il nemico (direttiva ripresa dal CVL del Triveneto nel novembre 1944). Tali trattative, tuttavia, non giunsero a nessuna conclusione e in nessun caso le Brigate Osoppo collaborarono con i nazifascisti. Ma il sospetto bastò.

Fu così che il 7 febbraio del ’45 un centinaio di partigiani garibaldini, capeggiati dal gappista comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, salirono al quartier generale della Brigata Osoppo. Qui disarmarono il comandante Francesco De Gregori e lo uccisero insieme al commissario politico del Partito d’Azione e fecero prigionieri altri 16 osovani, tra cui Guido Pasolini (“Ermes”), fratello dello scrittore Pier Paolo. Nei giorni seguenti, dopo sommari processi, li fucilarono. Chi furono i mandanti di quell’azione è ancora oggi dubbio, forse il PCI udinese (una delle ipotesi più probabili), forse quello milanese, forse i comandi jugoslavi, forse avvenne con il benestare di entrambi mentre per alcuni Toffanin era un agente tedesco, per altri uno che agì di testa sua. Sappiamo solo che Toffanin fuggì in Jugoslavia e non fece mai più ritorno in Italia, dove era stato condannato all’ergastolo per l’eccidio e poi, nel 1972, graziato. Quel che è certo è che Toffanin e i suoi agirono senza un mandato del CLN. I processi intentati dopo la guerra non portarono a una verità risolutrice e furono in parte influenzati dal clima politico del periodo. Ancora oggi gli storici sono divisi sulle reali responsabilità di quei fatti. Alcune ombre recenti si sono poi andate a sommare con quelle più vecchia, creando un nodo inestricabile di dietrologie e teorie del complotto, come quelle su Gladio, un’organizzazione anticomunista di tipo stay-behind legata alla NATO, a cui aderì un numero imprecisato di ex partigiani della Osoppo.

A settant’anni dai quei fatti resta solo la certezza delle morti e degli esecutori. Dal 2008 Porzûs è monumento nazionale e dal 2009 anche l’ANPI – di cui i reduci della Osoppo non fanno parte – partecipa alla cerimonia che ogni anno si tiene all’alpeggio di Porzûs. Nel 2012 l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pose una targa in memoria dell’accaduto dichiarando: “Le ragioni, quelle palesi e quelle occulte, per le quali dei partigiani garibaldini, membri di una formazione legata al Partito Comunista Italiano, uccisero altri partigiani, della formazione Osoppo, ci paiono oggi incomprensibili, tanto sono lontane l’asprezza e la ferocia degli scontri di quegli anni e la durezza di visioni ideologicamente totalitarie. Ne fu certo questo – occorre ribadirlo con forza – il carattere fondamentale della Resistenza italiana, che seppe mantenere uno spirito unitario e condusse con comune impegno la lotta contro il nazismo ed il fascismo repubblichino”. A  Porzûs la lotta di Resistenza fu spezzata. Ma quell’evento, unico e terribile, lo possiamo oggi ricordare proprio perché forti e consapevoli del carattere unitario della guerra partigiana.

 

 

NOTA:

Sull’eccidio di Porzûs è stato girato nel 1997 un film, discusso e discutibile, dal titolo Porzûs. Acquistato dalla RAI è stato trasmesso solo molti anni dopo su Rai Movie. Più interessante è invece la puntata de Il tempo e la storia, con lo storico Raoul Pupo. Dal canto suo Pupo, che è docente di storia contemporanea a Trieste, è accusato dai suoi detrattori di essere “anticomunista e antijugoslavista”. Segno di quanto, anche in ambito accademico, questi temi siano ancora oggetto di controversie.