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25 aprile 2015

 

Lettera di un partigiano sulla moralità della Resistenza

di Angelo Cannatà

 

Avevo vent’anni quando nella “brigata Garibaldi” combattevo, sulle montagne, contro i nazifascisti. Sono vecchio, ora. E stanco. Ma ho deciso di rompere il silenzio. La memoria, quella sì, è pronta e veloce e mi spinge a un confronto, doloroso, tra gli ideali di allora e il presente. L’idea dominante era la libertà. Il sogno di una società democratica, tollerante, pluralista. Concetti semplici – e tuttavia dotati di una potenza inaudita –, ci permisero di sfidare, ogni giorno, il pericolo e la morte.

Tutto è cambiato, adesso. Volevamo un’Italia giusta e solidale, fondata sul lavoro. Abbiamo il Jobs Act: l’inganno d’una riforma che toglie diritti al lavoro. Faceva freddo sulle montagne e avevamo paura, perché negarlo?, il pericolo e la morte erano in agguato. Ma si lottava. Dopo, a guerra finita, avremmo avuto tutti pari dignità sociale: senza distinzione di sesso, di razza, di religione. Cosa resta? Si negano i diritti agli omosessuali, oggi, e la Chiesa cattolica condiziona ancora – incredibile! – l’attività parlamentare.

 

Quando decisi d’entrare in clandestinità, d’iniziare la guerra partigiana, avevo grandi speranze: ero sicuro che il nuovo Stato avrebbe rimosso gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’eguaglianza dei cittadini. Non è così. Settant’anni dopo gli ostacoli permangono: le industrie delocalizzano dopo decenni di aiuti statali, l’operaio è carne da macello, i giovani sono umiliati: lottavamo per la libertà di pensiero, di parola, di manifestazione; i nostri figli vengono bastonati nella scuola Diaz, durante il G8, come nelle peggiori dittature. E’ per questo che abbiamo rischiato la vita? Per difendere principi e uomini ci facemmo torturare dalla polizia nemica. Non tradimmo. Oggi, la polizia “amica” tortura e tradisce.

 

Credevo nella politica. E nella giustizia assoluta: a vent’anni l’ingenuità è inevitabile. Combattere il Duce significava distruggere l’idea – anche l’idea – che un solo uomo potesse dominare il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. La divisione dei poteri. Ecco. Con la Repubblica avremo un ordinamento democratico, pensavo. E’ così? Oggi, la legge sulla responsabilità civile dei giudici depotenzia la magistratura. “Lotteremo la corruzione”, dicono. Parole. In realtà attaccano i magistrati che devono combatterla.

 

Cosa resta dei miei ideali, delle speranze, delle ragioni che mi hanno spinto sulle montagne, tra i partigiani, a combattere una guerra che fu – anche – guerra civile?

 

Dice bene Calamandrei: la Resistenza non deve essere celebrata come un fatto consegnato al passato (evento storico), ma come il primo atto della costruzione di una nuova Italia. Tuttavia questa nuova Italia io non la vedo. I partigiani morti ci giudicano: questo intendeva e – se capisco – il giudizio non è positivo.

 

Non sopporto la retorica che certa politica si appresta a vomitare addosso agli italiani. Sono passati settant’anni e i principi fondamentali della Costituzione sono calpestati. Ben vengano libri e studi ma la retorica politica, no. Anche la scuola, che volevamo pubblica e libera, è derisa, umiliata da una riforma che ne snatura compiti e funzioni. “I privati hanno diritto a istituire scuole”. Vero. “Senza oneri per lo Stato”, recita la Costituzione, ma è un “particolare” trascurato da troppi (improvvisati) “statisti”.

 

Infine, l’esodo biblico dalle coste africane. L’Italia ripudia la guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. E’ un’idea forte e giusta. La politica è mediazione. Altrimenti a che serve? Oggi, vogliono bloccare l’immigrazione sparando sui barconi di disperati che scappano dalla morte. Programmano l’uso delle armi e si dichiarano cristiani e solidali. Un’indecenza.

 

No, non sono contento ora che – proprio il 25 aprile – compio novant’anni. Avrei voluto festeggiarli in un clima diverso. In un’Italia migliore. Ha ragione Pavone a parlare di moralità della resistenza. Le guerre civili sono le sole che meritano di essere combattute. E tuttavia, mi chiedo, qual è il risultato? Un condannato a morte della Resistenza scrive: “…sono parole che mi escono dal cuore in questo triste e bel momento di morte”. Sta per essere fucilato, Renzo, ma vive un “bel momento di morte”. Significa: il mio dolore vi salva. Ne valeva la pena se penso al disastro politico di oggi, alla devastazione morale che sembra non lasciare scampo?

 

Post scriptum. Leggo sull’ultimo numero di MicroMega: le celebrazioni della Resistenza verranno condite col marcio degli appelli alla “riconciliazione”. In realtà l’unica “memoria condivisa” è quella che riconosca “come propria identità lo schierarsi di cuore e di ragione con chi scelse la Resistenza” contro il fascismo repubblichino. Il partigiano, che ho provato a immaginare nell’articolo, vive di questi sentimenti.