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24 aprile 2015

 

 

Lavoro, Costituzione e Resistenza

di Domenico Tambasco

 

C’è un filo sottile che collega Lavoro, Costituzione e Resistenza. Un filo creato 70 anni fa dalla lotta di resistenza e tessuto dai padri costituenti. Un filo reciso, tuttavia, negli ultimi trent’anni di sfrenato neoliberismo. Ma è proprio il concetto di Resistenza che ci propone una nuova via, radicalmente alternativa alla “grande trasformazione”. Resistere, infine, significa anche “stare con Erri”.

 

C’è un filo sottile che lega, in modo stretto e a tratti invisibile, Lavoro Costituzione e Resistenza; nei giorni della celebrazione dei 70 anni dalla liberazione del Paese dal giogo fascista attraverso l’impegno e il sacrificio resistenziale, è d’obbligo esaminare e svelare quei nessi che, tra le attuali rovine socio-economiche, ben potrebbero rappresentare un modello di progettazione e di ricostruzione di un “mondo nuovo”, in antitesi al pensiero unico dominante.

 

Una diversa via d’uscita c’è, in contrasto rispetto al grido neoliberista “there is no alternative”[1]: seguiamola.

Il cammino segue subito il dipanarsi del filo nell’articolo di apertura della Costituzione, che espone l’equazione fondativa del sistema repubblicano[2]: quella tra democrazia e lavoro, secondo cui “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro[3].

 

Per comprendere appieno il senso dell’equazione democrazia/lavoro (che sembra apparentemente far leva su un elemento – qual è il lavoro – più prosaico rispetto, ad esempio, al valore della dignità o alla triade rivoluzionaria libertà-eguaglianza-fraternità) è necessario porre lo sguardo ai volti e alle storie dei Costituenti: persone concrete, pragmatiche, profondamente segnate dai drammatici decenni della devastante crisi economica e sociale del ’29, dalla dittatura fascista, dalla durezza del confino e dell’esilio, dall’abominio dei campi di concentramento e di “lavoro”. Persone che sanno, proprio in ragione di un plumbeo passato, di che lacrime e sangue sia fatta la vita quotidiana e, soprattutto, di quanto vano sia parlare di diritti fondamentali, se in concreto non sia stata prima garantita la precondizione materiale per l’esercizio degli stessi. I diritti, infatti, sono tali solo se effettivi, solo se viventi e pulsanti nel sudore e nelle lacrime della realtà, pena il ridursi ad un mero flatus vocis, ad un’elegante ma inutile scrittura a caratteri d’oro sulla carta: è l’emancipazione dal bisogno, la liberazione della persona dalla schiavitù della necessità materiale a rendere davvero effettive le condizioni per lo sviluppo della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà[4].

 

Il lavoro, dunque, è lo strumento principale, fondamentale e fondativo del progetto di emancipazione collettiva che i costituenti pongono nell’epigrafe della Costituzione: è, per riprendere le parole dell’altro cruciale snodo costituzionale – ovvero l’art. 3, 2° comma – il primario mezzo per consentire di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

 

Ecco il primo membro dell’equazione democrazia/lavoro: la democrazia è tale solo se i diritti fondamentali vengano effettivamente tutelati e, dunque, solo e soltanto se a tutti sia garantito il lavoro, primo mezzo di affrancamento individuale e sociale.

 

In un’equazione biunivoca, ovviamente, deve essere valida anche la relazione inversa ovvero, nel caso di specie, che non può darsi lavoro laddove non sia garantita anche la democrazia; più precisamente, non tutte le attività lavorative sono tali per la Costituzione ma, alla luce dell’assioma dell’art. 1, sono ammissibili – in una società costituzionale e democratica – solo e soltanto quella attività che si conformino al parametro democratico disegnato dalla Costituzione: possiamo ben dire che, nella tessitura costituzionale, emerge nitido il disegno del lavoro costituzionale democratico. Esaminiamone i profili.

 

In primo luogo, il lavoro democratico delineato dai padri costituenti è il lavoro legato al diritto ad una retribuzione decorosa, degna e giusta, così come prescritto dall’art. 36 Cost., secondo cui “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il salario, per riprendere un tema di discussione di alcuni decenni orsono, è per una parte preponderante del suo contenuto una variabile indipendente rispetto ad ogni altro indice economico[5], aspetto ben rappresentato dall’espressione “in ogni caso” che manifesta la non negoziabilità e l’inderogabilità della quota di salario necessaria a garantire la libertà e la dignità personale e familiare, espressione del diritto ad un’esistenza libera e dignitosa.

 

In questo quadro, dunque, non rientrano quelle forme sempre più diffuse di “lavoro gratuito” (si pensi alle migliaia di volontari fittizi assunti per Expo 2015)[6] o di “lavoro povero”[7], ossimoro quest’ultimo che comunemente sta ad indicare le innumerevoli attività lavorative flessibili (part-time involontario, lavoratori a progetto, contratti a termine, contratti di apprendistato, lavoro a chiamata e simili) retribuite con una “paga da fame”, per mutuare il titolo di una inchiesta giornalistica che a suo tempo fece scalpore[8]; salari che, spesso, non riescono a mantenere le persone sopra la soglia della povertà ma che, al contrario, contribuiscono a cristallizzare i lavoratori nelle varie trappole della povertà o della precarietà, simbolo di un sistema sociale ormai stratificato in “caste” non comunicanti ed in cui l’unica mobilità possibile è quella dall’alto verso il basso.

 

Né, del resto, possono considerarsi conformi alla coordinate costituzionali neanche quelle attività le cui retribuzioni siano sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato: ci riferiamo, in particolare, agli stipendi dei molti top manager e di coloro che sono impegnati nella finanza speculativa, i cui lauti compensi (spesso ulteriormente arricchiti da generose stock option, da bonus, da buonuscite milionarie anche in presenza di gestioni fallimentari) sono passati da un rapporto di 40 a 1 ad un rapporto di 400 a 1 rispetto ai livelli salariali medi[9]. Il diritto ad una retribuzione giusta, dunque, si traduce anche in un’equa e proporzionata distribuzione delle risorse.

 

Il secondo elemento del lavoro democratico reperibile all’interno delle coordinate costituzionali è il diritto ad un lavoro che sia espressione del proprio daimon ed al contempo realizzazione personale ed accrescimento del proprio patrimonio di professionalità[10]: l’art. 35, 2° comma della Costituzione, che prescrive il cogente obbligo di cura della formazione e dell’elevazione professionale dei lavoratori, ne è la più chiara ed evidente espressione, concretata a livello legislativo dall’art. 2103 c.c. (così come modificato dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori) che tutela il patrimonio di professionalità individuale da illegittimi ed arbitrari demansionamenti.

 

Fuori da queste coordinate, dunque, è il lavoro precario, forma estrema e patologica di flessibilità lavorativa[11], che involgendo il lavoratore in una successione interminabile di mansioni segmentate, sempre diverse ed eterogenee, spesso poco qualificate, frammenta l’identità e la qualificazione della persona in un collage di “occupazioni” prive di senso, di scopo e di prospettiva e, soprattutto, prive di valore professionale: dalla carriera, lento cammino di accrescimento professionale, al job, insieme spezzettato di lavori incoerenti[12]. Così come, analogamente, si può considerare contrastante rispetto al modello del lavoro costituzionalmente democratico anche il lavoro demansionato, ultima forma di flessibilità che a breve sarà introdotta nel nostro ordinamento[13], quale sacrificio estremo consumato sull’altare delle esigenze tecnico-organizzative aziendali: le leggi di mercato s’impongono sulle leggi fondamentali.

 

Abbiamo dunque finora incontrato, nel nostro cammino alla ricerca dei fili che legano lavoro, Costituzione e Resistenza, il duplice contenuto individuale del lavoro democratico-costituzionale, che si lega alla persona esprimendone la natura giuridica di pretesa ad una retribuzione equa e di diritto ad un lavoro qualificante. Natura che ben può sintetizzarsi e sublimarsi nel valore della dignità, riconosciuta e tutelata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in sede di apertura, con la solenne dichiarazione per cui “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.

 

Ma vi è un ulteriore contenuto, che ha natura deontica, di dovere, e che deriva direttamente dal precetto dell’art. 4, 2° comma della Costituzione, che individua nel lavoro anche il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

 

Il lavoro, nella prospettiva della società democratica delineata dai costituenti, è tale solo se non si esaurisce alla mera sfera individuale, ma si espande anche alla società, assumendo in sé un fine ed uno scopo sociale, sia esso di incremento della ricchezza materiale sia esso di accrescimento del progresso spirituale della comunità umana. L’attività lavorativa, dunque, è anche un dovere che lega e salda la persona alla società, vincolandola ad uno scopo utile per il progresso collettivo: emerge chiaramente, sotto tale angolo visuale, la natura relazionale e sociale del lavoro[14], che si sostanzia nel valore della solidarietà e nella correlativa eclissi della “neutralità morale del lavoro”[15]. Solidarietà che, a sua volta, dà il titolo al capo IV della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea in cui viene garantita la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30) e, soprattutto, viene stabilito il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 31), nonché il diritto alla sicurezza e all’ assistenza sociale (art. 34): sono continui, come abbiamo visto anche in precedenza, i richiami e i rimandi tra la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali Ue, vera e propria “costituzione europea”.

 

Sotto tale prospettiva, pertanto, non possono considerarsi lavori – ad esempio – quelle attività della finanza speculativa che si risolvono unicamente nell’arte di far soldi a danno degli altri, come ben dimostrano i numerosi “crac” dell’ultimo decennio, da Parmalat a Lehman Brothers, e che hanno dato vita al sistema socio-economico del finanzcapitalismo[16], punta estrema del neoliberismo imperante negli ultimi trent’anni.

 

Ed il mercato autoregolato con le sue naturali ed ineluttabili leggi della domanda e dell’offerta, dove si colloca nella prospettiva costituzionale? Sullo sfondo e comunque in una posizione subordinata rispetto al lavoro.

Se, infatti, all’iniziativa economica privata (essenza del mercato) è riconosciuta la libertà (art. 41 comma 1° Cost.), al contempo essa deve esplicarsi in un preciso alveo, costituito dal rispetto dell’ “utilità sociale” e dalla tutela della “sicurezza”, della “libertà” e della “dignità umana” (art. 41 comma 2° Cost.). Il che significa dire che, ove l’iniziativa economica leda l’essenza individuale (dignità) o sociale (solidarietà) del lavoro, nel contrasto deve sempre prevalere il lavoro, cardine della democrazia.

 

Non si dà democrazia se non è garantito il lavoro; non si può parlare di lavoro se questo non è democratico, nei termini che abbiamo poc’anzi esaminato: questo è il fulcro ed al contempo l’equazione fondativa della Repubblica Italiana; questa è, di più ed oltre, l’unità di misura ed il parametro che ci consente di valutare la conformità o meno al progetto dei costituenti dell’attuale sistema del lavoro, così come si è venuto stratificando negli ultimi “trent’anni ingloriosi”.

 

Proprio nell’esaminare lo stato contemporaneo del lavoro, è opportuno considerare come esso sia l’esito ed il frutto di una sedimentazione progressiva di provvedimenti, leggi e accordi collettivi volti a deregolamentare il “mercato del lavoro” seguendo il dogma della eliminazione delle rigidità attraverso una continua “flessibilizzazione”: è la mercificazione del lavoro, diventato merce tra le merci, sciolto dai lacci della legislazione vincolistica dei primi trent’anni “gloriosi”, variabile dipendente dalle altre forze economiche e di mercato, bene sempre plasmabile a misura delle esigenze tecnico-produttive aziendali: dal lavoro solido o rigido dei decenni ‘50/’70 si è passati al lavoro liquido degli anni ‘80/2000 fino ad arrivare alla sua liquefazione attuata, con fredda e lucida determinazione, negli ultimi interventi del 2012 (la cosiddetta Legge Fornero[17]) e del 2014-2015 (il cosiddetto Jobs Act[18]).

 

Basteranno solo dei brevi cenni, avendo già in altre sedi esaminato criticamente gli ultimi interventi normativi[19].

Gli atti del 2012 e del 2014-2015 si assomigliano per la parziale coincidenza dell’area di intervento: entrambi, infatti, “liberalizzano” rispetto al periodo precedente sia i contratti a termine sia i contratti standard a tempo indeterminato ricadenti nella tutela “forte” dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Da un lato, se la Legge Fornero apre una breccia nell’obbligo di causalità del termine contrattuale, introducendo soltanto per la prima assunzione la possibilità di stipulare un contratto a scadenza senza l’indicazione delle causali (ovverosia senza l’indicazione delle ragioni organizzative o tecnico/produttive alla base dell’assunzione temporanea), dall’altro il Jobs Act, con il “decreto Poletti” del 2014, porta a termine la “deregulation” ammettendo l’indiscriminata assunzione “a scadenza” dei lavoratori senza l’indicazione di alcuna ragione, anche per i contratti successivi al primo. Allo stesso modo, se la legge Fornero introduce nell’area della cosiddetta “tutela reale” una prima rilevante deroga, eliminando di fatto la reintegra per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e sostituendola con un’indennizzo monetario (di norma compreso tra le 12 e le 24 mensilità), il Jobs Act invece (con il “contratto a tutele crescenti”) giunge all’ultimo stadio della deregolamentazione, disponendo la pressoché totale abolizione della reintegra per i nuovi assunti, sostituita da indennizzi monetari esigui[20] e crescenti[21] sulla base della sola anzianità lavorativa.

 

Un cammino coerente quello del legislatore nazionale degli ultimi anni, almeno rispetto alla famosa lettera del 5 agosto 2011 con cui l’allora Presidente della Banca Centrale Europea Trichet e il suo successore designato Mario Draghi -a quei tempi ancora governatore della Banca d’Italia- inviarono al governo in carica e al paese le linee di un programma di governo di emergenza da seguire perentoriamente, al fine di sviluppare e concludere tutte le riforme economiche liberiste avviate da tempo, anche e soprattutto in materia di mercato del lavoro[22].

 

Con il Jobs Act, tuttavia, si è andato oltre e, come è stato acutamente osservato, si è “voluto stravincere[23], tanto da andare ad incidere sullo svolgimento del rapporto di lavoro, attraverso la legittimazione dei demansionamenti unilaterali giustificati dalla “modifica degli assetti organizzativi aziendali[24] e l’apertura all’utilizzo di più ampi strumenti e poteri di videosorveglianza[25].

 

Tuttavia, è l’analisi delle concrete conseguenze delle “riforme” del lavoro che lascia attoniti e senza parole. La costruzione, infatti, di meccanismi contrattuali che consentono alla parte datoriale un’agevole chiusura del rapporto di lavoro in qualsiasi momento (vuoi per la scadenza del termine apposto al contratto vuoi per la possibilità di irrogare anche arbitrariamente un licenziamento, con la sola conseguenza di una sanzione economica di modesta entità), comporta la naturale perdita di potere contrattuale a scapito dei lavoratori, che non hanno conseguentemente più nessun valido strumento né per resistere ad eventuali condotte illegittime né per fondare le proprie rivendicazioni salariali o lavorative. Dall’altro, l’ignobile attacco al principio di irriducibilità del patrimonio professionale del lavoratore che ha legalizzato - a tutti gli effetti - i demansionamenti lavorativi (che ricordiamo essere la prima stazione nella via crucis del mobbing), ha colpito al cuore il valore costituzionale della dignità professionale. Da qui al lavoro povero di salario, di professionalità e di diritti il passo è breve: siamo giunti, in poche mosse, agli estremi confini del lavoro servile.

 

Facciamo un passo indietro, e raffrontiamo l’odierno punto di arrivo con il punto di partenza fissato dai padri costituenti: il confronto è drammatico. Siamo passati dal lavoro quale diritto ad una retribuzione equa e degna al lavoro povero o addirittura gratuito, dal lavoro quale diritto alla realizzazione personale al lavoro demansionato e precario, dal lavoro sociale al lavoro antisociale, quest’ultimo espressione della speculazione finanzcapitalistica[26]. Stiamo parlando, dunque, dell’ormai avvenuta trasformazione dal lavoro democratico al lavoro servile, e del correlativo scardinamento dell’art. 1 della Costituzione.

 

Questo mutamento, peraltro, reca con sé una più ampia, “grande trasformazione”, che coinvolge l’intero assetto democratico: come abbiamo visto, democrazia e lavoro si tengono insieme e, dunque, simul stabunt simul cadent. Se il lavoro costituzionale è quindi manifestazione della democrazia, il lavoro servile non può non essere la massima espressione dell’oligarchia, oggi comunemente definita “società dell’1%”[27]. L’ultima svolta del nostro cammino ci presenta, dunque, i profili attuali della società oligarchica, in cui la rendita ed il privilegio sono gli architravi di un sistema governato dai pochi (oligoi), in cui la disuguaglianza è l’humus comune della società, in cui la concentrazione del potere economico e politico sono i pilastri dell’edificio sociale: in questa architettura, il lavoro ed il suo sostrato umano occupano il sottoscala delle merci.

 

Siamo di fronte alla stessa situazione di circa un secolo fa[28], che venne così stigmatizzata da un autorevole studioso nella sua più importante opera: “La presunta merce forza-lavoro non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale uomo che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti della stessa società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione. La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente ed il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime, distrutta……”[29].

 

Possiamo rassegnarci ad una simile conclusione?

Certamente no, ed è proprio il concetto di Resistenza che, unito ai solenni principi della Costituzione, ci prospetta una via d’uscita.

 

Resistenza sta ad indicare, infatti, non solo il fatto storico, concretatosi nell’eroica lotta di liberazione contro il dominio nazi-fascista, ma anche uno specifico diritto, il diritto – appunto – di resistenza. Diritto già presente nella dichiarazione rivoluzionaria francese del 1789 (che all’art. 16 dichiarava non aver Costituzione la società in cui non fosse garantita la tutela dei diritti e la separazione dei poteri[30]), positivizzato nella costituzione tedesca (il cui art. 20.4 stabilisce che “Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non è possibile alcun altro rimedio”), qualificato come “ultima istanza” nel Preambolo della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948[31] e discusso anche nei lavori dell’Assemblea Costituente italiana da Giuseppe Dossetti, il quale propose un articolo che così recitava: “ La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”[32].

 

Anche se di questo progetto di articolo non è rimasto nulla nella stesura definitiva, ben possiamo ritenere il diritto-dovere di resistenza implicitamente ricompreso nel corpo dell’art. 54, 1° comma Cost., che nello statuire il dovere di tutti i cittadini “di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”, a fortiori non può non ammettere la civile resistenza dei cittadini stessi nel caso in cui la Repubblica, la Costituzione e le leggi (conformi alla costituzione) siano posti in grave pericolo.

 

Dinanzi a questo panorama, dunque, emerge naturale la spinta e lo stimolo ad emulare ciò che, 70 anni orsono, fecero i partigiani i quali, scendendo dalle solitudini delle loro montagne, combatterono eroicamente per riconquistare ciò che, dopo oltre vent’anni di dittatura, era stato totalmente perduto. Allo stesso modo noi oggi, dunque, scendendo dalle montagne delle solitudini estreme in cui ci hanno relegato trent’anni di finanzcapitalismo, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di resistere, unendoci in un “contromovimento sociale”[33] che ponga fine alla rozza finzione[34] del neoliberismo: quella rozza finzione che ha portato alla mercificazione di ogni aspetto della vita, dal lavoro alla politica, dall’economia ai sentimenti.

 

Movimento pacifico, legalitario, di una legalità tutta costituzionale, che si avvale di uno strumento fondamentale, la “libertà di parola contraria[35], ed ha un unico scopo: restituire a noi e alle future generazioni quella democrazia che, lentamente e di nascosto, ci è stata sottratta in questi ultimi trent’anni di delirio neoliberista.

Dimenticavo: anche chi scrive sta con Erri.

 


Questo articolo è tratto, con alcune correzioni ed ampliamenti e con il corredo di note bibliografiche, dalla relazione tenuta il 13 aprile 2015 presso l’aula Consiliare del Comune di Cormano nell’ambito dell’iniziativa “Costituzione e Resistenza. Art. 1 e non solo: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, con la partecipazione di Giorgio Cremaschi e Guglielmo Giumelli.


 

NOTE

 

[1] Slogan (di frequente contratto nell’acronimo TINA) utilizzato spesso dal primo ministro britannico Margaret Thatcher per significare la mancanza di alternative al sistema neoliberista: il sistema del libero mercato autoregolato, dunque, appare in questa visione l’unica strada percorribile per lo sviluppo di una società moderna. Concezione, questa, il cui massimo rappresentante è stato, a livello teorico, Francis Fukuyama con il noto saggio “La fine della Storia e l’ultimo uomo”, Rizzoli, Milano, 1992.

 

[2] Luigino Bruni, Fondati sul lavoro, Vita e Pensiero, Milano, 2014, p. 23 e ss.

 

[3]In quanto presuppone l’uomo che lavora, e non semplicemente un proprietario di forza lavoro che la offre sul mercato, il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno, fissata nell’art. 1 della Costituzione del 1947, che proclama essere il nostro ordinamento fondato sul lavoro”, in Luigi Mengoni, Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 127, citato anche da Stefano Rodotà, Solidarietà – Un’utopia necessaria, Laterza, Milano-Bari, 2014, p. 72.

 

[4] Si rimanda, sul concetto di “basic rights” e di diritto all’esistenza, a Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 232 e ss. Si veda anche G. Zagrebelski, Fondata sul lavoro – la solitudine dell’art. 1, Einaudi, Torino, 2013.

 

[5] Sul dibattito relativo al salario quale “variabile indipendente”, si rimanda allo stimolante pamphlet di Giorgio Cremaschi, Lavoratori come farfalle, Jaca Book, Milano, 2014, pp. 65 e ss. Si veda anche L. Gallino, L’impresa responsabile, Einaudi, Torino, ed. 2014, pp. 54-55.

 

[6] Giorgio Cremaschi, L’expo della precarietà, in blog Micromega, 5 febbraio 2015.

 

[7] Si rimanda alla recente trattazione sul tema svolta da Chiara Saraceno, Il lavoro non basta, Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 51 e ss., in cui si distingue tra i “poveri da lavoro”, ovverosia lavoratori a basso salario e i “lavoratori poveri”, ovvero lavoratori con salari superiori al minimo necessario per vivere, ma poveri in ragione della peculiare situazione personale e dei carichi familiari.

 

[8] Barbara Ehrenreich, Una paga da fame, Feltrinelli, Milano, 2002.

 

[9] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Milano-Bari, 2012, p. 116. Si rimanda anche a W. Passerini e I. Marino, La guerra del lavoro, Rizzoli, Milano, 2014, p. 345.

 

[10] L. Bruni, Fondati sul lavoro, cit., p. 27 e ss.

 

[11] Ricordiamo che non sempre la flessibilità si traduce in precarietà: in Italia, tuttavia, politiche estreme di flessibilizzazione non accompagnate da interventi finalizzati a garantire la sicurezza sociale (attraverso una rimodulazione in senso universalistico degli ammortizzatori sociali), hanno portato alla flexinsecurity, come evidenziato da F. Berton – M. Richiardi – S. Sacchi, Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna, 2009.

 

[12] Sulla differenza tra carriera e job si rimanda a R. Sennet, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, ed. 2010, p. 9 e ss.

 

[13] Si tratta dell’art. 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” che contiene radicali modifiche all’art. 2103 c.c.

 

[14] L. Bruni, Fondati sul lavoro, cit., p. 33 e ss. Si veda anche S. Rodotà, Solidarietà, cit., pp. 71 e ss.

 

[15] Da questo angolo visuale acquista rilievo la teoria di Gunther Anders che, nel tentativo di ricongiungere l’essere umano con il prodotto del suo lavoro, si fa promotore dell’immaginazione morale dei lavoratori, finalizzata ad impegnare gli stessi nello “sciopero ippocratico”, ovverosia nel rifiuto di prestare la propria opera in produzioni che possano recare danno all’umanità (l’esempio è quello dell’industria nucleare bellica). Si rimanda a Gunther Anders, Lo sciopero ippocratico, a cura di Devis Colombo, in Micromega 2/2015, pp. 165- 179.

 

[16] L. Gallino, Finazcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.

 

[17] Si tratta, più precisamente, della legge n. 92/2012.

 

[18] Ad oggi articolato nel D.L. 20 marzo 2014, n. 34 (cd Decreto Poletti), convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78, nella legge delega n. 183/2014 e nel dlgs. n. 23/2015, “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, entrato in vigore il 7 marzo 2015.

 

[19] Si rimanda agli articoli Jobs End, ovvero la fine del lavoro, Micromega 29 dicembre 2014; Jobs act, il ritorno del padrone, Micromega 5 gennaio 2015; Il Jobs Act e i lavoratori “carne da macello”, Micromega 23 febbraio 2015; La neolingua del Jobs Act, Micromega 11 marzo 2015.

 

[20] Gli indennizzi, infatti, partono da un minimo di 4 mensilità per arrivare fino ad un massimo di 24 mensilità, almeno per i casi più frequenti previsti dalla normativa in esame.

 

[21] Sempre con riferimento ai casi più frequenti, la crescita dell’indennizzo è di due mensilità per anno di anzianità lavorativa.

 

[22] G. Cremaschi, Lavoratori come farfalle, cit., p. 52.

 

[23] G. Cremaschi, Lavoratori come farfalle, cit., p. 113.

 

[24] Locuzione ricompresa nell’art. 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” di modifica all’art. 2103 c.c.

 

[25] Art. 1 comma 7 lett. f ) legge 183/2014.

 

[26] Si pensi a quello che è stato definito da Stiglitz il “potenziale distorsivo della retribuzione a incentivo nel settore finanziario, che ha portato i banchieri ad assumere rischi eccessivi: “Negli anni buoni potevano portarsi a casa ampie percentuali di profitto, in quelli cattivi le perdite venivano lasciate agli azionisti e in quelli davvero cattivi ricadevano su obbligazionisti e contribuenti. Era un sistema di retribuzione a senso unico: quando andava bene, i banchieri guadagnavano, altrimenti a perdere erano tutti gli altri”, cit., pp. 176-177.

 

[27] Si rimanda a J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino, 2013, pp. 3-36. Interessante, inoltre, è la considerazione svolta dall’autore in ordine alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, che qui di seguito si riporta: “E’ opinione comune da trent’anni a questa parte che mercati del lavoro flessibili contribuiscano a rafforzare l’economia. Personalmente direi invece che forti tutele del lavoro correggono quello che altrimenti sarebbe uno squilibrio di potere economico. Tale protezione porta ad avere una forza lavoro di qualità superiore, con lavoratori più fedeli alle loro aziende e più disponibili a investire su se stessi e sul proprio lavoro. Contribuisce anche a creare una società più coesa e luoghi di lavoro migliori”, p. 108.

 

[28] Si veda anche Marco Revelli, “La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi”, Laterza, Roma-Bari, 2014, che evidenzia come nell’osservazione della curva di lungo periodo (dal 1913 al 2013) relativa alla concentrazione di ricchezza negli Stati Uniti, i picchi di reddito dell’1% più ricco siano stati raggiunti agli estremi del periodo: nel 1913 e nel 2013: analisi definita da Revelli un “terribile presagio”, p. 95-96.

 

[29] Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, ed. 2010, pp. 94-95.

 

[30] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, p. 29.

 

[31]Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione”, Preambolo, 3° cpv, Dichiarazione Universale dei diritti umani approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

 

[32] Per un’ampia trattazione sul tema, si rimanda al saggio di Ermanno Vitale, Difendersi dal potere – per una resistenza costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 36 e ss.

 

[33] Per il concetto di “doppio movimento” e di “contromovimento sociale”, si rinvia a K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 98 - p. 170 - p. 186 - p. 192.

 

[34] K. Polanyi, La Grande Trasformazione, Einaudi, Torino, 2010, p. 95.

 

[35] Erri De Luca, La parola contraria, Feltrinelli, Milano, 2015. “…..quella ossequiosa è sempre libera e gradita. Sarà in discussione la libertà di parola contraria, incriminata per questo”, p. 40.