http://www.treccani.it/enciclopedia/leone-ginzburg_(Dizionario-Biografico)/ http://www.patrialetteratura.com/leone-ginzburg-editore/
Caduto il regime fascista è a Roma dove prende contatti con esponenti del Partito d’Azione, erede di Giustizia e Libertà. Il 27 agosto 1943 partecipa a Milano alla fondazione del Movimento Federalista Europeo con Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Vittorio Foa, Franco Venturi. Dopo l’otto settembre e l’occupazione tedesca di Roma entra in clandestinità. Cura la pubblicazione del giornale clandestino “L’Italia libera”, organo del Partito d’Azione. E nella tipografia in via Basento 22, dove si stampa il giornale, viene arrestato il 20 novembre 1943. Trasferito a Regina Coeli e riconosciuto, viene consegnato ai tedeschi e torturato, durante gli interrogatori gli viene fratturata la mascella. Sandro Pertini ricorda di averlo visto pesto e sanguinante e racconta che Ginzburg gli avrebbe detto che “non bisognerà, in avvenire, avere odio per i tedeschi.”. Alla fine di gennaio è trasferito nell’infermeria del carcere, dove muore a 35 anni, nella notte tra i 4 e il 5 febbraio 1944.
Naque a Stella in provincia di Savona, il 25 settembre 1896, da una famiglia di proprietari terrieri, quattro fratelli, l’ultimo ucciso dai nazisti a Flossenburg, ritorna con una medaglia d’argento dalla Prima Guerra Mondiale. L’anno dopo entra nel Psi e si trasferisce a Firenze dove frequenta il circolo dei fratelli Rosselli e di Gaetano Salvemini. Lo arrestano il 22 maggio 1925 per aver diffuso il giornale clandestino “Sotto il barbaro dominio fascista”. Accusato di “istigazione all’odio tra le classi sociali” (articolo 120 del Codice Zanardelli) viene condannato a otto mesi di carcere. Il 4 dicembre1926 un’altra condanna a cinque anni di confino. Entra in clandestinità. A Milano, ospitato da Carlo Rosselli, è tra gli organizzatori della fuga in Francia di Filippo Turati. A Nizza diventa Jean Gauvrin e si mantiene come manovale, lavando i taxi, facendo la comparsa per il cinema. Dà vita a una radio clandestina e il tribunale di Nizza lo condanna a un mese. Rientra in Italia, a Pisa, il 29 marzo 1929. Viene arrestato 15 giorni dopo, deferito al Tribunale speciale e condannato a dieci anni e nove mesi di galera più tre di vigilanza speciale. A Regina Coeli si ammala e viene mandato nel carcere di Turi, dove conosce Antonio Gramsci. Dall’aprile 1932 è al Sanatorio giudiziario di Pianosa, nel settembre 1935 al confino di Ponza, poi alle Tremiti, poi ancora a Ventotene. Esce dopo 14 anni, nell’agosto 1943. Il 18 ottobre i nazisti lo arrestano di nuovo, insieme a Giuseppe Saragat, e lo condannano a morte. I partigiani lo liberano il 24 gennaio 1944. Prende parte alla liberazione di Firenze, vola in Francia, rientra in Italia e partecipa alla liberazione di Milano nell’aprile del ’45. Il 25 aprile 1945 fu lo stesso Pertini a proclamare alla radio lo sciopero generale insurrezionale della città: «Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.» Quello stesso giorno, presso l'arcivescovado di Milano, ci fu comunque un tentativo di mediazione richiesto da Mussolini e favorito dal cardinale Ildefonso Schuster. Don Giuseppe Bicchierai, segretario dell'arcivescovo, si curò di contattare il CLNAI; alla riunione con Mussolini (con lui, tra gli altri, Rodolfo Graziani e Carlo Tiengo), nel primo pomeriggio, parteciparono inizialmente Raffaele Cadorna (comandante del Corpo volontari della libertà), Riccardo Lombardi, Giustino Arpesani e Achille Marazza. Pertini non fu rintracciato in quanto era impegnato in un comizio nella fabbrica insorta della Borletti[54][55]. Nel colloquio cominciò a palesarsi la possibilità di un accordo: il CLNAI avrebbe accettato la resa, garantendo la vita ai fascisti, considerando Mussolini prigioniero di guerra e quindi consegnandolo agli Alleati. Ad un certo punto però giunse la notizia che i tedeschi avevano già avviato trattative con gli alleati anglo-americani: Mussolini adirato disse di essere stato tradito dai tedeschi e abbandonò la riunione, con la promessa di comunicare entro un'ora le sue intenzioni.[57] In quegli istanti giunsero alla spicciolata Sandro Pertini, Leo Valiani ed Emilio Sereni, del comitato militare insurrezionale del CLNAI. Pertini, armato di pistola, incrociò sulle scale, per la prima e unica volta, Mussolini che scendeva, ma non lo riconobbe; in seguito scrisse sull'Avanti!: «lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia livida, distrutto».[58] Anni dopo, sulle colonne dello stesso giornale, dichiarò: «Se lo avessi riconosciuto lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Giunto nella sala dell'arcivescovado, si ebbe tra Pertini, appoggiato da Sereni e gli altri un veemente scambio di battute: Pertini chiese alla delegazione perché non avessero arrestato subito Mussolini; richiese inoltre che Mussolini, una volta arresosi al CLNAI, fosse consegnato ad un tribunale del popolo e non agli alleati. Carlo Tiengo, che era rimasto in arcivescovado, a questo punto telefonò a Mussolini comunicandogli le intenzioni dei due delegati del PSIUP e del PCI; ottenuta la risposta comunicò ai delegati e all'arcivescovo il rifiuto ad arrendersi di Mussolini, che la sera stessa partì in direzione del Lago di Como. Pertini associò sempre in massima parte a quell'intervento all'arcivescovado la causa del fallimento della trattativa e la conseguente morte del Duce. In particolare, nel 1965 scrisse: « Da tutto questo appare chiaro che il mio intervento presso il cardinale (intervento appoggiato solo dal compagno Emilio Sereni, ma con molta energia) spinse Mussolini a non arrendersi. E soprattutto appare chiaro che se la sera del 25 aprile il compagno Sereni ed io non fossimo andati all'arcivescovado e se quindi Mussolini si fosse arreso al CLNAI sarebbe stato consegnato al colonnello inglese Max Salvadori, il che voleva dire consegnarlo di fatto agli alleati (ed oggi sarebbe qui, a Montecitorio...).» Il 26 aprile 1945 Pertini tiene un comizio nella Milano appena liberata. Gli è accanto Giuseppe Marozin. «Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera, è stato arrestato. Egli dovrà essere consegnato ad un tribunale del popolo, perché lo giudichi per direttissima. E per tutte le vittime del fascismo e per il popolo italiano dal fascismo gettato in tanta rovina egli dovrà essere e sarà giustiziato. Questo noi vogliamo, nonostante che pensiamo che per quest'uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore. Egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso.» Il giorno dopo Pertini tenne un comizio in Piazza Duomo e poco dopo, a Radio Milano Libera, annunciò la vittoria dell'insurrezione e l'imminente fine della guerra. Il 27 aprile, fortemente convinto della necessità di condannare a morte il capo del fascismo, arrestato a Dongo il giorno precedente, disse alla radio: Il 28 aprile Mussolini fu fucilato ed il giorno dopo il suo cadavere, insieme a quello della sua compagna Claretta Petacci ed a quelli di altri gerarchi del regime sconfitto, fu esposto all'odio della folla a Piazzale Loreto. Pertini commentò: «L'insurrezione si è disonorata». In seguito, riguardo alle vicende finali della vita del dittatore, scrisse sulle colonne dell'Avanti!: «Mussolini si comportò come un vigliacco, senza un gesto, senza una parola di fierezza. Presentendo l'insurrezione si era rivolto al cardinale arcivescovo di Milano chiedendo di potersi ritirare in Valtellina con tremila dei suoi. Ai partigiani che lo arrestarono offrì un impero, che non aveva. Ancora all'ultimo momento piativa di aver salva la vita per parlare alla radio e denunciare Hitler che, a suo parere, lo aveva tradito nove volte.» |