http://antoniomoscato.altervista.org a.m. Lunedì 28/9/15
Un piccolo ricordo personale di Pietro Ingrao di Antonio Moscato
Pietro Ingrao, oltre a quella di avere vissuto cento anni, ha avuto la felice sorte di non essere post mortem tirato a destra e a manca da ipocriti necrologi. La ragione è semplice: nessuno può essere tentato di richiamarsi a una persona così atipica e controcorrente. Ci ha provato a tratti l’editoriale di Achille Occhetto sul Dossier de “l’Unità”, ma forse si trattava solo di ammirazione di uno sconfitto ormai dimenticato da tutti nei confronti di chi invece pur dopo molti infortuni (ed errori) rimaneva rispettato e ricordato con affetto. Ho avuto occasione di conoscere personalmente Ingrao tra il 1956 e il 1966, gli anni in cui aveva raggiunto una statura politica che gli permetteva di cominciare a riflettere cautamente sullo stalinismo dominante nel partito. È vero che nel novembre 1956 aveva scritto quel famoso editoriale (“Da una parte della barricata, in difesa del socialismo”) su quelli che venivano chiamati in modo reticente “i fatti di Ungheria”, che gli è stato sistematicamente e giustamente rinfacciato; ma già nel corso di quello stesso anno l’organo del partito diretto da lui aveva lasciato trasparire spiragli di verità nelle corrispondenze da Poznan di Vito Sansone e di Alberto Jacoviello da Budapest. Qualcosa che era difficile trovare su altri quotidiani di partiti comunisti. E lui stesso aveva espresso già allora i propri dubbi a Togliatti, che gli aveva risposto con una frase enigmatica che lo lasciò stupefatto (”Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più”). Io tra il 1956 e il 1965 lo avevo ascoltato più volte, ma senza osare interloquire con lui, per la differenza di età e di esperienze che allora mi sembrava enorme. Ma andavo volentieri a casa sua, per parlare con la figlia maggiore Celeste, con cui si era creato un ottimo rapporto nella segreteria della sezione (ne ho parlato in Una sezione del PCI nel 1956che molti probabilmente hanno già letto), con la seconda sorella Bruna o con la moglie Laura Lombardo Radice, anche lei impegnata attivamente nella sezione. Il 29 aprile 1966 quando Pietro Ingrao seppe dalla figlia che la polizia mi aveva fermato dopo che avevo subito una grave aggressione fascista da parte di noti picchiatori come i fratelli Di Luia, Flavio Campo e il temibile Stefano Delle Chiaie, che poche ore prima avevano ucciso lo studente Paolo Rossi sulla gradinata della Facoltà di Lettere, si precipitò alle tre di notte al commissariato di pubblica sicurezza dove mi stavano interrogando e fece una tale piazzata che li obbligò a rilasciarmi subito. Venne poi il giorno dopo a trovarmi (ero stato ferito abbastanza gravemente) col fratello maggiore Francesco, chirurgo di chiara fama e militante comunista, che voleva denunciare il medico fascista che non mi aveva avvertito dei pericoli che correvo uscendo dall’ospedale dopo una perdita di sangue abbondantissima. Analogamente venne a trovarmi Aldo Natoli, una cui telefonata di richiesta di aiuto dalla federazione di via Frentani era stata involontariamente causa dell’episodio. Lo ricordo per far capire la loro autonomia di giudizio, non diversa da quella di Ambrogio Donini, che pure faceva parte della presidenza della Commissione Centrale di Controllo del PCI, e non ha mai interrotto i rapporti con me neppure dopo la mia uscita dal partito. Eppure in quel 1966 ero già nella lista nera dei burocrati della federazione romana del PCI, che avevano annunciato più volte la mia espulsione, senza riuscire a concretizzarla perché in sezione praticamente tutti mi difendevano. L’anno successivo mi ero trasferito a Bari, per preparare le condizioni per spostarmi dalla scuola secondaria superiore all’università, dove già ricoprivo da tempo l’incarico di “assistente volontario” totalmente gratuito, mentre Donini sperava di poter ottenere presto un concorso per un posto di assistente ordinario a cui potessi partecipare. Ma la ragione principale è che nel corso dell’XI Congresso del PCI, quello della prima differenziazione di Ingrao sul “nuovo modello di sviluppo”, la federazione di Bari, in cui pesava molto Reichlin, figurava di sinistra e “ingraiana”, e speravo di poter contribuire a una sua ulteriore evoluzione. In realtà scoprii presto che era un’etichettatura arbitraria. Basti pensare che il grande tessitore locale di questa presunta sinistra era Beppe Vacca, che sarebbe poi diventato il responsabile dell’Istituto e della Fondazione Gramsci, e il massimo teorico dell’utilizzazione mistificante di Gramsci come precursore del compromesso storico e di ogni forma di collaborazione di classe. Anche per questo, e per seguire da vicino una straordinaria crescita di una nuova radicalizzazione operaia e giovanile iniziata con le lotte contro le zone salariali nell’autunno del 1968, avrei lasciato alla fine di quell’anno il PCI, che non si sognava di utilizzare non solo me, ma anche un prezioso quadro tecnico di estrazione operaia del Pignone Sud, Gianni Rigacci, che si era messo a disposizione del partito e della CGIL senza che si mostrassero minimamente interessati. Poco prima che lasciassi il partito venne Ingrao a Bari, e mi salutò cordialmente davanti a tutti, raccomandando ai dirigenti della federazione di “utilizzarmi”. Senza successo, ma era ancora una volta una testimonianza di come Ingrao rifiutasse di accettare una discriminazione nei miei confronti, pur conoscendo benissimo le mie convinzioni e le mie critiche alla strategia del partito. Esattamente come faceva Ambrogio Donini, che ostentò sempre il suo rapporto affettuoso con me anche quando il PCI di Bari e la direzione stalinista della CGIL mi consideravano ormai un nemico, arrivando ad additarmi al questore come un estraneo al movimento operaio in occasione di uno sciopero al margine del quale fui arrestato. Ho ricordato questi due modestissimi episodi perché mi sembrano rivelatori di un’etica che già allora non si trovava più in gran parte dei dirigenti del PCI: ad esempio durante le prime manifestazioni romane per il Vietnam che tentavano di raggiungere l’ambasciata americana, ho sentito personalmente Giancarlo Pajetta dissociarsi da vari giovani militanti (ancora iscritti alla FGCI) che volevano avvicinarsi all’ambasciata dicendo a un funzionario della Digos: non sono dei nostri… Diversa la mia valutazione delle scelte politiche successive di Pietro Ingrao. Tutti i commentatori hanno ricordato come non seppe difendere l’esperienza del Manifesto, che pure era nata da un gruppo fortemente legato intellettualmente e affettivamente a lui. Per anni si è rassegnato all’involuzione progressiva del PCI, avendo poi un sussulto al momento della Bolognina, senza cogliere tuttavia che la novità era soprattutto nel cambio di nome e senza avere il coraggio di partecipare fin dall’inizio al processo di rifondazione. Arriverà quindi al PRC tardi, troppo tardi per influire su di esso, mentre avrebbe potuto farlo dato il suo grande ascendente su molti quadri importanti se non avesse esitato fino al 1993 per uscire dal PDS, e ancora per altri 12 anni prima di entrare in una Rifondazione che era ormai condannata dai suoi errori e dal suo adattamento al sistema esistente. Probabilmente lo ha fatto perché aveva maturato un rifiuto della politica organizzata, in questo simile a quello che era stato il suo grande avversario nel PCI, Giorgio Amendola, che aveva dichiarato di non aver mai voluto costruire una corrente o una tendenza nel partito, per non dover rispondere delle scelte politiche o anche solo delle dichiarazioni dei suoi seguaci. Ma la sua scomparsa ci fa sentire con amarezza la distanza morale tra la sua generazione e quella che si è appropriata della comune eredità.
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