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giugno 12, 2015

 

Inversione Gandhiana della Percezione Politica Moderna

di Ramin Jahanbegloo

Traduzione di Fabio Poletto

 

Il suo corpo fisico ci ha lasciati e non lo vedremo più, né potremo sentire la sua voce gentile o affidarci ai suoi consigli. Ma il suo imperituro ricordo e il suo messaggio immortale rimangono con noi.” Jawaharlal Nehru

 

Introduzione

La convinzione che il cittadino, e non lo stato, sia il vero soggetto della politica è il cuore della teoria politica gandhiana. Nell’idea di Gandhi, in altre parole, il cittadino sta sempre sopra lo stato. Il vero soggetto della sovranità politica diventa dunque la decisione del soggetto politico sulla sovranità. Di conseguenza, il momento politico gandhiano è un atto di de-teologizzazione e de-secolarizzazione da quel concetto di politica moderna incarnato dal sovrano onnipotente di Thomas Hobbes. La concezione che Gandhi ha dell’etica nella politica lo porta a criticare l’autorità politica hobbesiana e a disobbedire allo stato e alle sue leggi, superando la paura. L’intera pratica politica gandhiana è basata sul controllo di questa paura.

 

Termini chiave

nonviolenza, politica, cultura della pace, risoluzione dei conflitti

 

Tutti conoscono il grande interrogativo ontologico: Perché c’è l’essere, l’essere anziché il non-essere? Ma c’è un altro grande problema filosofico a cui l’uomo non ha mai saputo dare risposta: Perché c’è la violenza, la violenza anziché la nonviolenza?

 

Perché c’è tanta violenza oggi nel mondo? Terrorismo, comunitarismo religioso ed etnico, degrado ambientale, diffusione dei fallimenti economici e crescita delle ostilità internazionali – tutto questo contribuisce a una realtà piena di sfide e di minacce globali. In un mondo così afflitto dalla violenza abbiamo chiaramente bisogno di un forte pensiero etico, che ci spinga ad applicare i principi etici fondamentali nelle relazioni tra individui e tra stati, e a imprimere una svolta a una realtà politica troppo incline alla guerra. In un’epoca in cui il genere umano si trova ad affrontare conflitti di interesse nazionale, fondamentalismo religioso e pregiudizi etnici e razziali, la nonviolenza può davvero essere lo strumento adatto per preparare il terreno a una nuova cosmopolitica.

Molti ancora credono che la nonviolenza sia una pratica inefficace contro dittature e genocidi. Negli ultimi decenni, tuttavia, si registrano molte iniziative democratiche per la costruzione di una società civile globale poggiata su solide basi etiche. Tali iniziative, imperniate su una militanza nonviolenta e sulla tutela dei diritti umani, potrebbero essere associate con una sorta di neo-gandhiana ricerca di pace e giustizia. Mai nella storia dell’uomo la nonviolenza è stata così cruciale. Recentemente si è evoluta da semplice tattica di resistenza a proposito cosmopolitico basato sull’applicazione a livello internazionale del principio di democrazia. Negli ultimi trent’anni le ripercussioni del terrorismo internazionale, delle violazioni dei diritti umani e del degrado ambientale hanno evidenziato l’importanza di una politica nonviolenta a livello globale nella gestione di questi problemi. Tale politica dovrà dunque essere l’obiettivo non solo dei governi, ma anche della società civile e delle organizzazioni intergovernative, non governative e transnazionali. Soprattutto, la comunità internazionale ha il dovere morale di intervenire qualora in un Paese vengano a mancare le tutele legali e il rispetto dei diritti umani. Solo una società nonviolenta sarà in grado di creare istituzioni per lo sviluppo e promuovere l’armonia tra culture e religioni diverse. In un secolo in cui il terrore condiziona la vita e la mentalità di almeno due terzi dell’umanità e la violenza impregna quotidianamente la nostra cultura, una politica che nasconde la testa sotto la sabbia e rifiuta di assumersi le proprie responsabilità non può più funzionare.

Sarebbe folle aspettarsi che la nonviolenza diventi efficace e duratura quando molti ancora concepiscono la politica in termini di uso della violenza. È vero, come affermò Karl Jaspers, che “la convinzione nell’etica è decisiva, nella politica è successo.” Ma è anche vero che nessun successo in politica è durevole in assenza di etica. Dunque la politica è dipendente dalla “sovra-politica”, ma non viceversa. Se la politica si stacca dalla “sovra-politica”, finirà probabilmente a rotoli.

In altre parole, le scelte politiche determinano una responsabilità morale, e allo stesso tempo l’etica ha un impatto sulle decisioni politiche. La politica senza etica è un mero esercizio di potere; solo se esercitata con etica può essere elevata a pubblica virtù. Crimini efferati sono stati commessi attraverso pratiche politiche che cercavano di insegnare o imporre norme morali. La spiritualità in politica, come Gandhi aveva ben compreso, non ha niente a che fare con la moralità, ma è uno sforzo di ridefinirla in termini di responsabilità civica in un esplicito contesto pubblico. La politica è l’esercizio di un ruolo civico con coscienza morale e responsabilità sociale, e la nonviolenza ne è la chiave. Se facciamo oggi il punto della situazione, considerando come la politica e la tecnologia sono orientate alla violenza, non possiamo concludere altro che il mondo in cui viviamo è un mondo privo di saggezza. È giunto per l’umanità il momento di rinnovare l’impegno politico, economico e culturale verso il momento politico gandhiano.

Durante la sua vita, Mohandas Karamchand Gandhi è diventato un cittadino del mondo. Prima in Gujarat, sua terra natale, e più tardi in Inghilterra e in Sudafrica, con i suoi esperimenti Gandhi si è distinto come eroe sui generis nel pubblico regno della visibilità nazionale e internazionale – un eroe destinato a condurre il suo popolo e il suo Paese fuori dall’amara esperienza del colonialismo e verso una nuova era di indipendenza e libertà. Rimane comunque più facile presentare alle nuove generazioni Gandhi come l’eroe dell’India, lasciando da parte la sua critica della civiltà moderna e la sua lotta per una democratizzazione della modernità, avviata già nel 1909 con la pubblicazione di Hind Swaraj. In questo senso, evocare la potente originalità del momento politico gandhiano significa prestare grande attenzione alla vitale e globale manifestazione di speranza democratica che Gandhi rappresentava. Egli, chiamato a mettere in atto la spiritualizzazione della politica e la rivoluzionaria trasformazione delle istituzioni religiose e politiche dell’India, riuscì con grande determinazione a far coincidere la sua vita e la sua leadership con la causa della nonviolenza, e tentò di unificare le élite e le masse popolari dell’India sotto un unico, visionario movimento nonviolento. Questi sono elementi significativi del pensiero pluralista di Gandhi e del suo processo di creazione della democrazia. Forse, allora, dobbiamo cercare di dissociare il momento gandhiano da ogni tentativo di manovra, manipolazione commerciale o appropriazione della memoria del Mahatma. Ora che il primo decennio del 21° secolo volge al termine (l’articolo è del novembre 2010, pubblicato nel maggio 2011, ndt), è necessario non tenere più Gandhi prigioniero degli aspetti più manipolabili della sua storia, così che possa aiutarci a muoverci liberamente verso un futuro di comunità interculturali di creatività e dialogo.

Gandhi disse: “Non c’è speranza per questo mondo dolorante se non attraverso lo stretto e ripido sentiero della nonviolenza.”1 Se vogliamo in futuro mietere il raccolto della coesistenza e del dialogo, dobbiamo spargere semi di nonviolenza. A sessant’anni dalla morte di Gandhi, ci troviamo di fronte a una scelta: forgiare una comunità umana pacifica in un mondo pluralista, impegnandoci con parole e azioni per diffondere la solidarietà; oppure preservare ed estendere le divisioni tra comunità e culture, promuovendo pregiudizi culturali e religiosi, violenza e guerra. Gandhi giunse alla conclusione che il futuro della civiltà umana su questo fragile pianeta dipende dalla nostra capacità di vivere insieme in armonia, tolleranza e pace. Egli infiammò lo spirito nazionalista e invitò i suoi compatrioti a unirsi a lui nella liberazione della patria, tuttavia non v’era differenza per lui tra l’essere un patriota e servire l’umanità. “Attraverso la conquista della libertà per l’India”, disse, “spero di compiere la missione della fratellanza degli uomini.”2 La sua tensione verso la solidarietà e il dialogo interculturale va dunque intesa come un tentativo di ridurre la distanza tra il “noi” e il “loro”, insieme cercando, portando alla luce e dando visibilità a molteplici voci che, dall’interno della società indiana e dal resto del mondo, esprimono questa comune aspirazione alla solidarietà e al mutuo aiuto in tutte le loro forme: etica, spirituale, sociale, economica e politica. Gandhi trasse sfide teoretiche e pratiche attraversando diversi confini nel tentativo di afferrare il senso di un mondo pluralista.

La vera sfida per Gandhi era rendere affidabili la politica e la religione creando un ponte dialogico che le collegasse. Era convinto che solo spiritualizzando la politica e ricongiungendola con l’etica fosse possibile implementare la libertà individuale e l’armonia sociale. Perciò Gandhi descrive la sua concezione di autentica cittadinanza come “il regno di una volontaria imposizione di rigore morale.”3 Non è però la regola morale di una particolare setta che deve essere integrata alla politica, ma quella che lui soleva chiamare “la legge morale suprema”. La sua etica poggiava su due concetti fondamentali: verità e nonviolenza. In più, sosteneva che una condotta moralmente irreprensibile fosse un “dovere”, e rifiutava qualunque azione “compiuta nella speranza di felicità nella prossima vita.”4 Non sorprende dunque che Gandhi abbia più volte affermato che politica e religione sono in stretta relazione e che separarle equivarrebbe a separare il sangue dal corpo. Contrariamente a quanti, dentro e fuori dall’India, credevano che religione e avanzamento sociale non potessero coesistere, Gandhi rifiutava di considerare la sfera spirituale e quella secolare come poli contrastanti.

Il Mahatma Gandhi era diverso dalle più grandi figure spirituali dell’India come Sri Ramakrishna, Swami Vivekananda e Sri Aurobindo. Mahatma Gandhi affermava la nonviolenza come un fattore decisivo, un imperativo assoluto, ma questo non era sempre il caso per gli altri leaders spirituali. Sri Aurobindo, ad esempio, praticò la resistenza passiva nella lotta per l’indipendenza, ma non era un ardente sostenitore della dottrina nonviolenta. Tuttavia Gandhi trasse grande ispirazione dal nazionalismo spirituale di alcuni di questi guru. Affermò che l’influenza di Vivekananda accrebbe il suo “amore per la patria di cento volte.” Ma la spiritualità di Gandhi non si manifestava solo nei templi, nelle chiese, nei libri, nei rituali e in altre forme esteriori. Era strettamente legata all’ambito sociale e politico. In questo senso, Gandhi fu uno dei pochi lumi spirituali della sua epoca a essere anche un uomo politico. Affermò che meditazione e preghiera non sono atti esclusivi e privati, da tenere nascosti in un cassetto, ma devono apparire in ogni nostra azione.5 Non sorprende che ciò che rese particolare il pensiero di Gandhi in un’epoca laica fu la sua convinzione che politica laica ed etica spirituale potessero coesistere in armonia. Ebbe il coraggio di concepire i paradigmi della politica e della religione al di fuori del tradizionale quadro concettuale.

Questa è stata l’unica conquista in grado di rovesciare l’approccio hobbesiano che descrive la politica come un desiderio universale di auto-conservazione. Praticamente Gandhi ha sostituito il paradigma politico della sicurezza di Hobbes, che considera lo stato come un agente politico responsabile di migliorare gli standard di sicurezza umana, con il suo paradigma di solidarietà umana. Di conseguenza, il suo progetto di spiritualizzare la politica attraverso la pratica della nonviolenza ha il doppio obiettivo di attuare una reale trasformazione democratica della società e assicurare così un ordine sociale fondato sull’etica. Per Gandhi la politica era ricerca di etica, e la semplice sopravvivenza tramite la grazia di un sovrano non aveva per lui alcun valore.

Il paradigma politico di Gandhi non era dunque né giuridico né tecnologico: egli adottò un nuovo concetto di società, intesa come una sfera di relazioni solidali. Era consapevole della differenza tra la ricerca di solidarietà tra gli uomini e la ricerca di un contratto sociale basato sugli interessi personali. Per Gandhi una società libera non era, come per Hobbes, il frutto di una scelta operata da persone egoiste che cercano di evitare il confronto tra il singolo e la collettività. Secondo lui gli uomini non sono governati dalle passioni, ma dal loro senso di auto-costrizione e sofferenza. “Ho scoperto”, scrisse, “che il semplice richiamo alla ragione non è sufficiente quando i pregiudizi sono più radicati e basati su una presunta autorità religiosa. La ragione deve essere rafforzata dalla sofferenza.”6 Distingueva inoltre tra “sofferenza” e “violenza”, ed era convinto che la sofferenza fosse una prova di coraggio e fedeltà nella pratica nonviolenta. Secondo Gandhi “la sofferenza è la legge degli esseri umani; la guerra è la legge della giungla. Ma la sofferenza è infinitamente più potente della guerra per convertire l’avversario e fargli aprire le orecchie, altrimenti chiuse, alla voce della ragione… La sofferenza è lo stendardo del genere umano, non la sua spada.”7 Questa sua idea di “sofferenza” può essere vista come un aperto riconoscimento dell’interdipendenza e mutualità tra gli esseri umani, se si comprende ciò che Gandhi intendeva per sarvodaya o “benessere di tutti”.

Per quanto riguarda la sua politica, l’idea di servire gli altri esseri umani in uno spirito di fratellanza è una negazione del principio del “bene maggiore per il maggior numero possibile di persone”, che non lascia spazio all’empatia o al sacrificio di sé per la società. L’enfasi sul sacrificio di sé e sulla capacità di mettersi al servizio degli esseri umani spinse Gandhi a criticare la civiltà moderna, troppo tesa secondo lui verso il potere, il profitto e il piacere. Una tale civiltà, che si definiva moderna, non considerava la moralità una pietra miliare e una forza propulsiva per la costruzione della società. Di conseguenza, Gandhi considerava la “vera civilizzazione” non come un progresso lineare dell’umanità, quanto piuttosto come una “buona condotta”, un buono stile di vita. In Gujarati, lingua nativa di Gandhi, il termine sudharo (civiltà) è opposto a kudharo (barbarie), il che simboleggia l’idea di una condotta superiore che conduce su un retto cammino del dovere. È importante considerare questo punto, perché il dovere è assurto a responsabilità da assumersi e mantenere a tutti i costi, ed è proprio il dovere che ci accompagna nel tentativo di tenere una condotta proba gli uni verso gli altri.

Per Gandhi, la vera civiltà è quella che riesce a conseguire il principio universale della moralità. Una società che non è costruita sulle fondamenta dell’etica o della moralità è una società insostenibile. Gandhi guardava con tormento all’alienazione morale e spirituale dell’umanità, e la sua critica della modernità e il suo approccio politico basato sulla solidarietà tra gli uomini devono essere considerati nell’ottica di questo problema fondamentale. Due problemi restavano tuttavia insoluti: primo, come si fa a emancipare la civiltà dai mali che essa stessa produce? E secondo, come si costruisce una civiltà basata sull’etica e sulla moralità? La risposta a questi interrogativi si può trovare nell’opera più importante di Gandhi, Hind Swaraj, dove egli cerca di riconciliare la questione del nazionalismo indiano con la sua visione teoretica della civiltà. Questo tentativo, teorico e pratico, di trovare il punto di fusione tra i problemi della civiltà moderna e una forma di civiltà più sostenibile e autentica fu portato avanti da Gandhi attraverso la sua triade concettuale composta da swaraj, satyagraha e swadeshi.

Si comincia con lo swaraj, o autogoverno. Gandhi credeva in una comunità politica fondata sull’auto-istituzione e sull’autogoverno, punto di partenza per lo sviluppo di un’autentica civiltà morale e di una comprensione condivisa della mutualità. Nell’idea di Gandhi, lo swaraj provocherebbe una trasformazione sociale grazie a strutture di governo a larghissima partecipazione, su piccola scala, decentrate, auto-organizzate e auto-amministrate. Il satyagraha, o forza della verità, prevedeva l’accettazione volontaria della sofferenza nel cammino di liberazione dal male. Come spiega Joan V. Bondurant, “il satyagraha diventò qualcosa di più che una forma di resistenza ad alcune leggi; diventò uno strumento di lotta per conseguire obiettivi positivi e cambiamenti fondamentali.” Lo swadeshi o autosufficienza, infine, era per Gandhi un modo per migliorare le condizioni economiche dell’India recuperando tecniche di produzione e prodotti locali. Mentre lo swaraj prevedeva l’autogoverno attraverso la costruzione degli individui e delle comunità, lo swadeshi insisteva sullo spirito di vicinanza. Per quanto riguarda il satyagraha, invece, esso sottolinea l’idea che lo scopo dell’incontro/scontro con il non giusto non è vincere il combattimento, ma conquistare il cuore e la mente del “nemico”. Gandhi era dunque convinto che non si potesse ottenere un vero auto-governo senza prima passare per una riforma dell’individuo.

Partendo da queste premesse, Gandhi affermava che l’istituzione dello stato moderno era irretita dalla violenza. La critica di Gandhi non si limitava allo stato coloniale a cui si opponeva, ma colpiva il fondamento logico stesso della moderna sovranità statale. Di nuovo, la chiave risolutiva era la connessione tra sovranità politica e sovranità morale. Gandhi riteneva dunque che il centro di gravità della politica moderna dovesse essere spostato dall’idea di potere e ricchezza materiale all’idea di giustizia e veracità. Nella sua critica della modernità, Gandhi accusava la civiltà moderna di promuovere ideali di potere e ricchezza basati sull’egocentrismo, e di causare la perdita di legami comunitari, il che nuoceva al bene comune morale e spirituale (dharma). Da qui, rifacendosi al concetto hinduista di purusharthas, ossia gli obiettivi di ogni essere umano, Gandhi predicava una vita equilibrata, realizzata e appagata. In definitiva, nella filosofia politica gandhiana i due concetti di auto-governo e autosufficienza sono riuniti sotto l’ideale del Rama Rajya, la sovranità delle persone basata sulla pura autorità morale.

Per Gandhi, dunque, la politica è una costante realizzazione di sé, un’analisi e una riforma di se stessi. È un processo di auto-governo attraverso cui i cittadini sono in grado di contribuire al miglioramento della comunità. Ne consegue che la nonviolenza gandhiana presuppone solidarietà spirituale. A dispetto di chi taccia Gandhi di essere un reazionario, la sua critica della modernità non auspicava un ritorno al passato. Era invece un passo in avanti nel progresso morale dell’umanità. Non solo Gandhi individuò il bisogno di cambiamenti fondamentali nel mondo moderno, ma riconobbe anche la loro ineluttabilità. Per questo motivo le sue idee hanno ispirato altri grandi uomini in tutto il mondo, tra cui Nelson Mandela, Martin Luther King Jr. e Sua Santità il Dalai Lama. King si accorse che Gandhi era stato il primo uomo nella storia a reinventare l’etica cristiana dell’amore come “un potente strumento per la trasformazione sociale e collettiva”. Da lì, fu breve il passo verso l’accettazione incondizionata della strategia nonviolenta di Gandhi come unica via percorribile per superare i problemi che la sua gente stava affrontando. Le vite e le azioni di Gandhi e di King si pongono oggi come provocazione alla nostra politica: esse costituiscono una diversa immagine di realizzazione spirituale, di cui il nostro mondo violento avrebbe estremamente bisogno per riformarsi.

Quello presente è un momento interessante per ripensare il momento politico gandhiano nell’ottica di un esercizio di potere secondo morale. Possiamo qui distinguere l’approccio spirituale alla politica di Gandhi dal processo di politicizzazione della politica e dagli approcci fondamentalisti alla religione. L’approccio gandhiano, tutt’altro che utopico, può essere preso come un criterio etico di valutazione delle pratiche politiche contemporanee. Citando King: “Non risolveremo il problema implorando timidamente giustizia. Dobbiamo affrontare in massa la struttura del potere.”8 Nelle intenzioni di Gandhi una politica più democratica non significava solo la fine del colonialismo britannico, ma anche un’azione nonviolenta contro relazioni di potere coercitive e strutture sociali ingiuste. Per lui la stabilità della civiltà umana, il potenziale democratico di una comunità e la dignità morale degli individui dipendono tutti dall’esito della lotta a quella piaga che è la crescente differenza tra chi ha e chi non ha. Qui sta l’obiettivo e il potenziale ultimo del momento gandhiano. Non si tratta solo del sogno di Gandhi per l’India; è una visione che comprende tutta l’umanità, che usa la potente presenza del futuro per democratizzare la modernità.

In poche parole, se vogliamo affermare che ci troviamo in una nuova era dove la politica ha essenzialmente il compito di ridurre la violenza e attuare quindi il passaggio da ostilità a ospitalità, dobbiamo allora riconoscere che la visione gandhiana della politica non è solo “l’altra possibilità” per il nostro mondo, ma “la possibilità realizzata per prima”. Peraltro la violenza rimane ma, come ci insegna il movimento gandhiano, chi abbraccia la causa della nonviolenza deve anche impegnarsi a ridefinire e ricostruire la politica come la trasformazione della violenza. Per questa ragione la nonviolenza è il punto di partenza della politica, così come il suo traguardo. La storia testimonia e la quotidiana esperienza conferma che fare della violenza un diritto politico e un dovere morale è sostanzialmente un errore. Ma è un errore anche quando la politica diventa veicolo di violenza perché non è fondata sugli imperativi etici della solidarietà e della reciprocità. Come tale, la nonviolenza è un pilastro fondamentale nella concezione della cittadinanza come spazio di acquisizione di diritti e possibilità. Per questo Gandhi credeva nell’esercizio di una cittadinanza attiva per conseguire una forma più matura e perfezionata di democrazia. Egli riteneva che il successo di una democrazia dipendesse dalla sua natura dialogica. La vera essenza di una democrazia, dunque, è il dialogo tra i cittadini, e il suo compimento maggiore è il successo di questo dialogo. Di conseguenza, un dialogo mancato è una democrazia mancata, e dunque il fallimento del fondamento stesso della politica.

La violenza può essere l’espressione estrema dell’antipolitica. Ma spesso è anche segno dell’assenza di un ambiente umano dove la cultura della tolleranza e del rispetto reciproco può crescere. La storia delle esperienze nonviolente nel mondo negli ultimi sessant’anni ci insegna che l’idea gandhiana si realizza pienamente solo incarnandosi in azioni esemplari come quelle di King, Mandela e Tutu. Certo, la profetica azione nonviolenta non si fa spazio facilmente in un’epoca in cui la massima espressione del potere è l’ostentazione militare. L’approccio gandhiano ha efficacia politica perché non è solo un sogno, ma una visione etica, e come tale può essere strumento di valutazione, di critica, di guida e di trasformazione della cittadinanza globale in un movimento civico di dovere e responsabilità. Il momento politico gandhiano è innovativo e dinamico, non un semplice calcolo di interessi ed equilibri di potere; e negli ultimi sessant’anni, attraverso esperimenti di nonviolenza in tutto il mondo, ci ha mostrato che non siamo condannati a concepire la politica esclusivamente in termini strategici o come un mero meccanismo di garanzia dei diritti. La storia della nonviolenza gandhiana, intesa consapevolmente come strumento politico, ci insegna che l’arte di negoziare relazioni in un contesto di divergenze e differenze politiche induce tutte le parti in gioco, sia i deboli che i forti, alla consapevolezza di una forma di solidarietà e mutualità, con immediate conseguenze sul piano etico. Come tale, il momento politico gandhiano supporta la capacità dei cittadini di ridefinire la politica secondo il suo esplicito senso comunitario, il suo carattere di mutualità e il suo essere un investimento a lungo termine in una società più giusta. E non si tratta solo del coinvolgimento nella vita pubblica: questo momento politico è un ethos di un mondo comune.

Un’ultima osservazione: oggigiorno la ritirata della politica porta allo scoperto nuovi e urgenti problemi. Questa ritirata ha lasciato spazio a manifestazioni di intolleranza e violenza. Proprio in questo frangente, nella sensibilità pluralista della civiltà, il momento politico gandhiano può giocare un ruolo cruciale nel riaffermare il valore primario della politica come capacità civica di mutualità e solidarietà. L’opera di Gandhi ci mostra chiaramente che, mentre la civiltà è plurale, il suo principale antagonista, cioè la faccia priva di etica della modernità, rimane singolare. Egli faceva corrispondere i limiti della civiltà coi limiti dell’etica. Cercò inoltre di riformulare il paradigma della civiltà superando il problema sociale e politico della violenza. Ciò che vi è di unico dell’approccio di Gandhi è la sua capacità di rendere comprensibile e appetibile l’idea della politica come la sfera di realizzazione di se stessi e riconoscimento dell’altro. In altre parole, mostra le alternative proposte dalla tradizione nonviolenta, allo stesso tempo rivelando ai futuri attori socio-politici della nonviolenza la concezione fondamentale della solidarietà umana e del cammino verso l’emancipazione.

 

Note

1 Citato in Thomas Merton (ed.) (1965), Gandhi on Non-Violence. New York: New Directions, p. 74. Ed. it. Gandhi, Per la pace, Feltrinelli, Milano 2007

2 Young India, 14 aprile 1929.

3 M.K. Gandhi (1956). Towards Everlasting Peace (ed. A.T. Hingorani). Bombay: Bharatiya Vidya Bhavan, p.217.

4 M.K. Gandhi (1922). Ethical Religion. Madras: S.Ganesan, pp. 8-11.

5 Harijan, 20 aprile 1935.

6 Young India, marzo 1925.

7 Citato in Thomas Pantham (1983). “Thinking with Mahatma: Beyond Liberal Democracy”, Political Theory, vol.11, No.2, maggio, p.180.

8 The Washingtonian, febbraio 1968, p.53, citato in James Echols (ed.), I Have a Dream:Martin Luther King Jr. and the Future of Multicultural America, Minneapolis, FortressPress, p.19.


Ramin Jahanbegloo, uno dei più noti dissidenti dell’Iran, ha guidato il dipartimento di studi contemporanei dell’Ufficio di Ricerche Culturali di Tehran fino al suo arresto nell’aprile 2006. È stato rilasciato l’agosto successivo e adesso vive in esilio in Canada, dove insegna all’ Università di Toronto.

In italiano si possono leggere i seguenti articoli:

 

http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/1710-leggere-gandhi-a-teheran-e-non-solo.html

 

Nanni Salio Leggere Gandhi a Teheran…. e non solo!“;

 

Ramin Jahanbegloo, 24 febbraio 2011, “Leggere Gandhi al Cairo” http://serenoregis.org/2011/02/leggere-gandhi-al-cairo-ramin-jahanbegloo/


maggio 2011

 

Titolo originale: Gandhian Inversion of Modern Political Perception

http://journals.uoc.edu/index.php/journal-of-conflictology/article/view/vol2iss1-jahanbegloo

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