http://sbilanciamoci.info/ 25/10/2015
L’uomo a una dimensione 2.0 di Lelio Demichelis
Pubblicato negli Stati Uniti nel 1964, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse conserva ancora oggi – o forse ancora di più oggi – la sua attualità e lucidità di analisi
Pubblicato negli Stati Uniti nel 1964 e in italiano nel 1967, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse conserva ancora oggi – o forse ancora di più oggi, dopo questi maledetti trent’anni di neoliberismo, di tecnocrazie, di globalizzazione e di rete – la sua attualità, la sua lucidità di analisi. Dunque è tempo di toglierlo dagli scaffali e di farlo circolare di nuovo. Anche se rileggere oggi Marcuse è imbarazzante, ci consegna infatti alla penosa consapevolezza esistenziale di avere fallito, di avere buttato nel cestino l’intelligenza e lo spirito critico, di vivere nuovamente in società bloccate forse ancora più bloccate, irrigidite, pesanti (altro che modernità liquida di Bauman) di allora. Rileggerlo ci permette però di capire perché la classe operaia si è sciolta nel capitalismo che avrebbe dovuto contrastare, perché lo stanno facendo via rete anche i giovani (che però allora accusavano gli operai di essersi integrati nel sistema) e perché anche i nuovi modelli di economia (sharing, smart, soft, green, social, a costo marginale zero, eccetera) rischiano di essere parte strutturata e funzionale (e non il post che avanza) del sistema tecnico e capitalista. Partiamo dall’Introduzione, che ha come sottotitolo: La paralisi della critica: la società senza opposizione. Perfetta rappresentazione della società di allora e ancor più di oggi, con l’aggravante, per noi, che dopo di allora un tentativo di cambiamento ci fu (il sessantotto), mentre oggi l’integrazione (definitivamente compiuta?) di tutti nel sistema tecnico e capitalista ha cancellato non solo la voglia di cambiamento, non solo la consapevolezza che questo mondo non funziona, ma ha prodotto un consenso totalitario alla propaganda neoliberista e tecnologica per cui non vi sono alternative - e se non ci sono è inutile affannarsi a cercarle o criticare l’esistente (meglio adattarsi). Scriveva dunque Marcuse: «La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. (…) Il progresso tecnico esteso a tutto un sistema di dominio e di coordinazione crea forme di vita e di potere che appaiono conciliare le forze che si oppongono al sistema, e sconfiggere o confutare ogni protesta formulata in nome delle prospettive storiche di libertà dalla fatica e dal dominio. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industriale avanzata; l’accettazione generale dello scopo nazionale, le misure politiche avallate da tutti i partiti, il declino del pluralismo, la connivenza del mondo degli affari e dei sindacati entro lo stato forte, sono altrettante testimonianze di quell’integrazione degli opposti che è al tempo stesso il risultato, non meno che il requisito, di tale successo». Contenere il mutamento, integrare le opposizioni, far declinare il pluralismo, eliminare il conflitto di idee, produrre l’in-differenza tra destra e sinistra: il sistema è trasformista per essenza e per vocazione, de-socializza e poi ri-socializza in sé e per sé, individualizza e poi assoggetta, rimuove i soggetti capaci di mutamento in-corporandoli nel proprio corpo politico, tecnico ed economico. Ma questo confuta forse la teoria critica e la sua analisi? No, rispondeva Marcuse; «e il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole», anche se rende tutto più difficile. E merito di Marcuse è stato quello di vedere il legame stretto tra capitalismo e tecnica e di presentarli come un sistema unico e unitario. Perché nella società industriale avanzata di Marcuse l’apparato tecnico di produzione e di distribuzione, con un settore sempre maggiore dominato dall’automazione, funziona non come la semplice somma di diversi strumenti tecnici e di diverse tecniche, ma «come un sistema che determina a priori il prodotto dell’apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa società, l’apparato produttivo tende a diventare totalitario, nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. (…) La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli». Vero: e siamo convinti che davanti alla rete, al Big Data, alle retoriche sul dover essere sempre connessi imposte da quel nuovo apparato tecnico di produzione e di distribuzione che è la rete anche Marcuse avrebbe semmai rafforzato ancora di più questa sua convinzione, che nasceva da una analisi attenta dei processi reali, spesso nascosti ma potentissimi in atto nella società e oggi soprattutto nella rete, che ama confondere le proprie logiche re-ligiose e di connessione/integrazione incessante e di mercificazione perpetua con libertà e addirittura con democrazia. Di più: «Come universo tecnologico, la società industriale avanzata è un universo politico, l’ultimo stadio della realizzazione di un progetto storico specifico, vale a dire l’esperienza, la trasformazione, l’organizzazione della natura come mero oggetto di dominio. Via via che il progetto si dispiega, esso plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale di sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio. La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica». Con gli uomini spogliati della loro individualità non per costrizioni esterne ma per la stessa razionalizzazione economica e tecnica della loro vita. E allora, il governo di queste società può sostenersi solo se riesce a mobilitare, organizzare e sfruttare la produttività tecnica, scientifica e meccanica di cui può disporre, ma questa produttività a sua volta mobilita, mette al lavoro in modi incessanti e crescenti la società nel suo insieme «al di sopra e al di là di ogni particolare interesse individuale o di gruppo». Ben oltre, cioè i reali bisogni della società e degli individui. Perché prevalgono i falsi bisogni, falsi in quanto sovrimposti all’individuo da parte di interessi particolari, per cui: «il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi, di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni». La società esige infatti che si sviluppino - che divengano discorso sociale o carattere sociale – «il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare sino all’istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale; il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano ma prolungano tale istupidimento; una stampa libera che si censura da sola; la scelta libera tra marche e aggeggi vari. Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio». Che è appunto quanto accaduto con la rete, mobilitando tutti e ciascuno, mettendo al lavoro la vita intera delle persone, trasformando ciascuno da soggetto di diritti in (s)oggetto economico, merce, capitale umano, maker, imprenditore di se stesso. Illudendo però l’individuo di una massima libertà possibile proprio in rete, anche se questa è inscritta negli immaginari identificativi creati dallo stesso sistema, dove il codice del consumo prevede sì una differenziazione e un differenziarsi dagli altri (la libertà, appunto: ma solo in apparenza), che si produca però solo nel differenziarsi permesso dal sistema. Sistema dove anche lo spazio privato, (ancora Marcuse) «è stato invaso e sminuzzato dalla realtà tecnologica» (effetto oggi accresciutosi con la perdita totale della privacy – pericolo già presente in Marcuse – e con la pedagogia sociale a vetrinizzare se stessi, ovvero nel mettersi in vetrina nel mercato e in rete, a reificarsi alla massima potenza e a mercificarsi con la massima voluttà, cercando di raggiungere il massimo valore di scambio di se stessi). Perché produzione e consumo reclamano (ieri e ancor di più oggi) la presa sull’individuo intero nel sistema (essendo appunto totalitario) e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere limitata alla fabbrica. Il risultato non è solo l’adattamento di ciascuno alle esigenze del sistema, ma addirittura la sua mimesi con questa società - che oggi potremmo declinare nella mimesi di ciascuno con la rete e nella rete o nel mercato, ognuno portato ad essere nodo della rete o mero soggetto economico che vive la propria vita non come ricerca/costruzione di una individuazione/soggettivazione di sé e come una relazione con gli altri, ma in competizione con gli altri. Di più: la cultura industriale (Marcuse) è ideologia ed è più ideologica di ogni altra ideologia del passato, perché la sua ideologia è lo stesso apparato di produzione e di consumo, quindi è ovunque e in ogni luogo e a riproducibilità infinita, agisce in verticale e in orizzontale, dentro e attorno. L’apparato impone i propri valori, i propri fini, la propria organizzazione. I prodotti infatti indottrinano e manipolano e mano a mano che questo modello si diffonde nella società coinvolgendo un numero sempre maggiore di soggetti, «l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere». Del tutto irrazionale (anche se presentato per razionale). Però condiviso, introiettato, nessuno obbliga, ma tutti fanno come deve essere fatto. Come uscire da questa irrazionalità? Con nuovi valori, una nuova estetica, un nuovo eros, l’arte, la sensibilità e la sensualità insieme – e movimenti e avanguardie di una società diversa. Mettendo l’immaginazione al potere, come scrissero poi i giovani parigini nel ’68? Sappiamo che è stato poi lo stesso sistema tecnico e capitalista (ancora i suoi meccanismi di in-corporazione della diversità) a portare a sé, in sé e per sé i rivoluzionari di allora e a mettere al potere l’immaginazione, però solo quella prodotta dall’industria culturale e soprattutto quella tecnologica, funzionale a creare feticci, icone, idoli per il buon funzionamento di sé come sistema - e oggi siamo circondati dall’innovazione tecnologica (che appaga la nostra libido) ma gli uomini (tranne meritevoli eccezioni) hanno perduto la capacità di immaginare la propria società, di fare innovazione sociale e culturale, umana, umanistica; e non tecnologica. Ed ecco riproporsi allora il problema della neutralità o meno della tecnica (un tema che rimanda ad Heidegger, Anders, Jaspers e poi a Ellul, Severino e Galimberti). Un falso problema, secondo Marcuse (il vero problema, secondo noi) perché la tecnica secondo Marcuse sarebbe sempre inserita in un progetto di mondo e quindi se si spogliasse la razionalità tecnologica delle sue caratteristiche di sfruttamento questa sarebbe comunque «il solo criterio e guida valido per pianificare e sviluppare le risorse da porre a disposizione di tutti». Per cui non è la tecnica a dover essere messa sotto accusa, tutto dipende dai fini che si voglio perseguire, potendo essa promuovere sia l’autoritarismo che la libertà, sia la liberazione dal lavoro che l’asservimento al lavoro. Ma qui Marcuse sbagliava. Come è sbagliato credere che l’automazione integrale sia la premessa per la liberazione dal lavoro, o che scienza e tecnica possano minare il sistema basato sul valore di scambio. Come hanno messo in luce i decenni seguiti all’uscita de L’uomo a una dimensione, la tecnica ormai persegue un proprio fine autonomo e a prescindere (anche se sempre integrata al capitalismo), diventato oggi il fine della società intera e gli uomini hanno perso del tutto la capacità di governare la tecnica, di darle un fine diverso dal proprio infinito e irresponsabile accrescimento (che procede in sinergia funzionale con la ricerca dell’infinito e altrettanto irresponsabile accrescimento del profitto capitalistico).
Tecnica & mercato, strettamente connessi e integrati tra loro sembrano ormai autopoietici e in rete non si è generato il general intellect marxiano ma si produce un nuovo modo di integrazione nel sistema delle differenze, differenze che pure lo stesso sistema produce. Tecnica e capitalismo sono piuttosto una re-ligione, con una specifica teologia, l’uomo a una dimensione di oggi (homo oeconomicus & technicus insieme) è figlio di una teologia economica e tecnologica che produce e legittima l’uno (l’unificazione, l’unidimensionalità esistenziale, l’incorporazione di tutto e di tutti nel sistema), una teologia fatta per perseguire (come ogni forma teologica di potere) integrazione, convergenza tra uomini e apparati, omologazione nel segno della verità della razionalità tecnologica e strumentale. L’unica dimensione esistenziale ammessa sembra essere quella della accettazione (mimesi, ancora) della logica di sistema, perché il sistema è la sua teologia (oltre che la sua ideologia) e come ogni sistema teologico (e teleologico) è fatto per cancellare le differenze (il due e il tre e il molteplice e il diverso che pure produce) e per portare a uno ogni valore, ogni immaginazione, ogni vita. Unificare, anche nella apparente molteplicità offerta oggi dalla rete, dove si replica il codice della differenziazione e della individualizzazione che tuttavia non deve mai alterare lo stesso codice dell’integrazione e della incorporazione delle differenze. Per un uomo sempre a una dimensione, anche se 2.0.
Nonostante questo, ha ragione Marcuse – ancora più ragione – quando scrive che «la possibilità di realizzare un’autentica autodeterminazione degli individui dipende da un effettivo controllo sociale sulla produzione e distribuzione delle cose necessarie (nei termini del livello di cultura raggiunto, materiale e intellettuale)». Servirebbe un Soggetto storico essenzialmente nuovo. Purtroppo, allo stato attuale (di allora, come di oggi), «tanto il sistema materiale quanto il sistema culturale rifiutano questa esigenza». Ma se il sistema è autopoietico (come crediamo), se l’integrazione è la sua legge di stabilità dove trovare, come creare, come attivare un nuovo Soggetto storico? Come realizzare un effettivo controllo sociale dal basso sul sistema – se non rovesciando il sistema?
Erano bloccate, le società di allora, come sintetizzava - nella Nota 1991 al volume di Marcuse - Luciano Gallino. Eppure, le nostre società sono ancora più bloccate (e prive soprattutto di movimenti e di intellettuali capaci di fare opposizione radicale su larga scala e non solo di nicchia): sul piano politico, per l’assenza di alternative vere (a parte Corbyn, o Podemos o Syriza); sul piano culturale, perché il modello della società tecnologica avanzata in rete (fatta di grandi monopoli e insieme di piccoli capitalisti felici di esserlo, illusi di poter diventare tutti come Steve Jobs), non permette, con i suoi codici rigidissimi e la sua immaginazione tecnica al potere di immaginare altro dalla rete e dal mercato; bloccate poi sul piano della speranza, perché la tecnica vive di futuro solo a breve termine, di consumismo e di non lungi-miranza e anche i movimenti di opposizione si fanno brevi, effimeri, spettacolari più che sostanziali.
L’uomo a una dimensione è più vivo che mai. Più attuale che mai. Dunque, meglio rileggere Marcuse. Ma non solo – questo l’invito finale - L’uomo a una dimensione.
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