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29/05/2015

 

Le profezie di Bandung e la sibilla cinese

di Elisabetta Esposito Martino

 

La Primavera del 1955 vide germogliare un nuovo modello di rapporti internazionali che presero forma durante la conferenza di Bandung, un evento, il primo dopo secoli, in cui l’Occidente non catalizzava le attenzioni e non fungeva da arbitro, incrinando la suddivisione in sfere d’influenza che stava caratterizzando il secondo dopoguerra.

 

La Conferenza, presieduta dall’indonesiano Sukarno, riunì 29 stati dell’Asia e dell’Africa e permise ai più importanti leader dell’epoca, tra i quali il cinese Zhou Enlai, l’indiano Nehru e l’egiziano Nassèr, di confrontarsi per proclamare a gran voce la necessità di combattere ogni forma di colonialismo sia occidentale che sovietico, di avviare piani strategici di cooperazione economica e culturale, di sostenere i diritti fondamentali e l’autodeterminazione dei popoli, affinché milioni di persone passassero indenni dal colonialismo all’indipendenza e si potesse pensare alla realizzazione di una pace sostanziale e duratura.

 

Durante la Conferenza di Bandung la presa di coscienza della diversità delle priorità delle popolazioni di Africa e Asia e della necessità della cooperazione tra i paesi in via di sviluppo non solo accelerò il processo di decolonizzazione, ma permise di seminare un vero spirito internazionalistico capace di superare i meri traguardi razziali o regionali, fino a coniugare l’indipendenza e il rispetto delle identità nazionali con l’uguaglianza ed i diritti umani.

 

Le Profezie di Bandung

Inizia a Bandung la crisi del modello politico europeo che, nel terzo millennio, sta coinvolgendo i sistemi politici ed economici di tutto l’Occidente, determinando la frantumazione di molti valori che la crisi economica degli ultimi anni ha spazzato via, insieme a una fetta di benessere e di ricchezza, scolorendo con il pensiero debole le idee che avevano sostenuto la civiltà europea, già tradite dal colonialismo e dall’imperialismo.

 

Risale a Bandung il lento ma ineluttabile allontanamento dalle strutture costituzionali veicolate dai vecchi colonizzatori e lentamente deterioratesi a causa dell’adozione di schemi autoritari, sovraordinati a masse frammentate che, non avendo partecipato né all’evoluzione politica né, tanto meno, ai progressi sociali ed economici, hanno maturato una crescente disaffezione agli ideali importati.

 

Tale disillusione, tanto più radicata quanto maggiore è stato lo sfruttamento e la mancata realizzazione degli obiettivi, conduce interi popoli di larghe fasce dell’Asia e dell’Africa al tragico bivio che porta verso i barconi dei profughi o verso le milizie islamiche.

 

Comincia ad offuscarsi a Bandung il sogno di cambiamento della Rivoluzione d’Ottobre e a delinearsi una “terza via” che, alla Conferenza del Cairo del 1961, prese forma nel “movimento dei non allineati” in cui si prefiguravano altri modelli di comunismo, quello di Tito e quello di Mao, in un terzo mondo che comprendeva l’India, l’Africa nera, i Paesi Arabi, l’America del Sud, fino ai ghetti neri degli Stati Uniti e alle baraccopoli delle grandi metropoli, il cui sviluppo, avrebbe potuto cambiare il destino di tutto il mondo.

 

La Bandung del 2015

Pochi giorni fa i delegati di 109 paesi dell’Asian African Summit, insieme a quelli di 16 stati osservatori e di 25 organizzazioni internazionali, si sono dati nuovamente appuntamento a Bandung, per celebrare il 60º anniversario della storica conferenza ed hanno riacceso i riflettori sul sud del mondo che, pur impantanato in nuove forme di colonialismo ed imperialismo, aspira ancora ad un reale sviluppo.

 

Il tentativo è quello di rivedere la tradizionale cooperazione, abbandonando la logica degli aiuti per implementare quella del trasferimento tecnologico, e di elaborare strategie di raffreddamento dei contrasti interetnici, interculturali ed interreligiosi, coniugando crescita economica e sviluppo sostenibile nel rispetto dei diritti umani.

 

La Cina, che, dalla fondazione della Rpc, si affacciò per la prima volta nel cortile di casa proprio a Bandung, dove iniziò a tessere una tela di relazioni internazionali, paese povero tra i poveri, si trova oggi ad assurgere ad arbitro dei destini del mondo.

 

Il seme gettato a Bandung ha fruttato per i cinesi un rigoglioso progresso che rischia di riproporre nuovi colonialismi ed imperialismi pur veicolando, nella nuova Bandung, il dogma della global politics che vuole sia tolto il timone della guida del mondo all’economia e sia dato alla politica.

 

La sibilla cinese

La seconda Bandung ha suggellato la fine del colonialismo, chiuso definitivamente nel 1999 con il ritorno alla Cina di Macao, dopo che, nel 1997, c’era stato il passaggio alla Cina dei territori di Hong Kong, cui il Regno Unito aveva concesso troppo tardivamente istituzioni democratiche.

 

Le interazioni che si stanno sperimentando nelle Regioni Amministrative Speciali, ampiamente seminate da ideali occidentali, e le modalità con cui le diversità si armonizzeranno e integreranno sul substrato del sistema economico che sta trainando il mondo, costituiscono la vera sfida del terzo millennio, prima per lo Stato di mezzo e poi per tutto il pianeta globalizzato.

 

Il Dragone dovrà scegliere se attuare concretamente la coesistenza del sistema capitalistico e del sistema socialista, costruendo uno stato di diritto compiuto, da Hong Kong, a Macao, a tutta la Cina, oppure affrontare la rivoluzione sottotraccia che sta colorando di giallo le rive di Hong Kong, con altre modalità.

 

Non sappiamo se il mondo Occidentale, col suo patrimonio, “ibis redibis, non morieris in pugna”, cioè sopravvivrà a se stesso nel terzo millennio. Ma se il centro del mondo non tornerà più in Occidente ma “ibis redibis non, morieris in pugna”, cioè finirà per sempre sul campo di battaglia di una guerra ideologica iniziata a Bandung, lo dirà solo la sibilla cinese che potrà rammentare la storia di Alì dagli Occhi Azzurri, che Jean Paul Sartre raccontò a Pasolini e che l’artista cantò in una sua poesia, Profezia.

 

Una profezia che, come quella di Bandung, forse ci narrerà una nuova storia, quella di un altro Alì, ma dagli occhi a mandorla.

 


Elisabetta Esposito Martino è sinologa e costituzionalista. Responsabile Ufficio Affari generali dell'INdAM. Componente del Redress Committee del Progetto INdAM Cofund -VII Programma Quadro dell'Unione Europea. - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3084#sthash.22PicV0Z.dpuf

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