http://www.lantidiplomatico.it/ 09/03/2015
"Difesa non armata": una nuova politica estera possibile di pace che crea relazioni tra nemici di Francesca Morandi
Pignatti (“Un ponte per”): Chiediamo alla Farnesina di dare riconoscimento istituzionale a strumenti non violenti di risoluzione dei conflitti”
Quando si parla delle guerre in Libia, Siria e Iraq nei talk show televisivi e sui giornali intervengono soprattutto politici, generali dell’esercito e professori, che si confrontano su strategie militari, diplomazia delle alte cancellerie mondiali, risoluzioni Onu, conflitti e terrorismi passati, presenti e futuri. Ma nelle piazze italiane è in corso una campagna che propone una Politica Estera nuova, non armata e non violenta. Si chiama “Un’altra Difesa è possibile” ed è promossa da 200 associazioni del pacifismo e del terzo settore che puntano a raccogliere 50mila firme per sostenere una proposta di legge di iniziativa popolare per mettere in atto politiche finalizzate a risolvere i conflitti senza attacchi militari, ma partendo “dal basso”, dalle persone. “Spesso i dibattiti tv finiscono per essere un confronto tra chi dice “Sì” o “No” alle bombe per fermare una guerra, ma tutto è più complesso e non si parla mai di Difesa non armata – spiega Martina Pignatti Morano, coordinatrice del Tavolo Interventi Civili di Pace e presidente dell’associazione “Un ponte per”. Esistono strumenti con i quali è possibile lavorare nelle aree di conflitto per prevenire o ridurre la violenza, incidere sulle cause scatenanti delle tensioni e costruire legami tra società civili. Con gli interventi armati si argina l’avanzata di un esercito ma, a lungo termine, i conflitti riesplodono perché non si lavora alla radice dei problemi, inoltre le “vittime collaterali” ci sono sempre e i rancori covano sotto la cenere”.
L’opinione pubblica è abituata ad ascoltare ministri degli Esteri, capi di Stato e generali, che fanno parte di un establishment in cui la Politica Estera è armata. Qual è invece la “Difesa Alternativa”?
“Da decenni l’associazionismo, le chiese e i movimenti sociali italiani si adoperano per costruire ponti di pace e solidarietà con popolazioni in zone di conflitto, ma queste pratiche non sono state finora riconosciute dalle istituzioni. Il nostro Ministero degli Esteri sembra non accorgersi che sono numerosi gli attivisti non violenti e gli operatori di pace nei Balcani, in Palestina, Mozambico, Sri Lanka, Congo, … Si tratta di migliaia di volontari e professionisti italiani, che spesso operano per conto di organizzazioni internazionali, ma la Farnesina sembra non voler guardare questo potenziale italiano di trasformazione non violenta dei conflitti. Per questo motivo abbiamo lanciato una Campagna nazionale, iniziata lo scorso novembre, il cui obiettivo è spiegare alla gente che un’altra politica Estera e di Difesa è possibile e già ne esistono gli strumenti”.
Quali sono ?
“Due modalità sono la denuncia delle violazioni dei diritti in zone di conflitto e l’accompagnamento non armato. Lavoriamo al fianco delle comunità locali per rafforzare gli attori della società civile che hanno capacità e influenza per trasformare il conflitto con modalità non violente, e se rileviamo soprusi aiutiamo chi li ha subiti a denunciarli. Affrontare casi singoli e “piccoli” è importante per non far dilagare la violenza e il senso di ingiustizia. Con la mia associazione “Un ponte per” stiamo operando in territorio libanese dove, a causa della guerra in Siria, sono affluiti profughi siriani che, insieme ai rifugiati palestinesi, oggi ammontano addirittura a un terzo della popolazione del Libano. Stanno emergendo tensioni tra la comunità libanese e quella siriana, divise da problemi di vario tipo, come il disagio economico, ma anche interreligioso e politico, … Chi è vicino al gruppo degli Hezbollah sostiene il regime siriano di Assad, da cui molti profughi siriani sono scappati. Poche settimane fa in un villaggio libanese dove operiamo giovani locali hanno preso con la forza un ragazzo siriano e l’hanno legato a uno spartitraffico, lasciandolo lì una giornata intera. Su soprusi come questo cerchiamo di intervenire per non aggravare le tensioni tra le due comunità ma favorire la coesistenza. Non è necessario disarmare Hezbollah o le cellule di Daesh (cosiddetto Isis) interne al Paese per fermare la violenza, si può partire “dal basso”, ricostruendo le relazioni tra comunità locali, gruppi e persone. Esistono metodologie elaborate dagli esperti di peacebuilding, come l’antropologa Pat Patfoort, che si possono utilizzare per favorire il dialogo e frenare l’escalation di violenza che porta alla guerra su vasta scala”.
Che cos’è "l’accompagnamento non armato a scopo di dissuasione”?
“In alcuni villaggi palestinesi accompagniamo i contadini a coltivare i campi o raccogliere olive, in modo tale che questa attività non sia loro impedita da coloni israeliani che rivendicano illegittimamente la proprietà su quelle terre. La presenza di operatori internazionali dissuade dalla violenza i coloni o militari israeliani verso questi contadini, anche perché noi spesso documentiamo quello che facciamo con video, comunicati stampa, registrazioni che possiamo inviare, come denunce, ad ambasciate e organizzazioni come le Nazioni Unite. Lo abbiamo rilevato anche durante manifestazioni pacifiche nei Territori Occupati: a fronte della presenza di Corpi civili di pace internazionali, l’esercito israeliano limita generalmente l’uso della forza, usando magari proiettili di gomma”.
Quali altri metodi usate?
“In Iraq, dove operiamo a Erbil, stiamo cercando di far riavvicinare le comunità di yazidi, cristiani, sciiti e sunniti. Da tempo lavoriamo per frenare vendette e rancori, ancor prima dei massacri compiuti da Daesh, facendo leva sulla capacità di coesistenza storica delle comunità irachene e cercando di promuovere una sorta di perdono sociale e politico per i crimini associati a Daesh. E’ un obiettivo difficile da raggiungere ma è l’unico modo per disinnescare l’odio. Un formatore norvegese, che collabora con la nostra associazione, sta formando in questi giorni alcuni giovani delle diverse minoranze irachene che fonderanno dei Centri per la pace, e faranno attività come girare un video in cui persone di diverse etnie e confessioni si invitano reciprocamente al perdono e alla coesistenza. Lavoriamo molto con i giovani, che sono il futuro, con azioni di integrazione che aiutano anche a togliere ai terroristi il sostegno della popolazione locale, in particolare delle tribù sunnite che erano state represse dall’ex premier Nuri Al Maliki. In un altro nostro progetto, chiamato “I Libri della riconciliazione” e attuato in cooperazione con la Biblioteca Nazionale di Baghdad, ci occupiamo del restauro di libri antichi appartenenti alle diverse minoranze che, insieme ai propri leader religiosi, sono coinvolte in attività di studio e dialogo. I risultati ci sono, anche se su piccola scala. Con una Politica Estera finalizzata a sostenere questi metodi e con i finanziamenti adeguati, queste esperienze si potrebbero ottenere su vasta scala”.
Chi sarebbero gli attori principali della “Difesa Alternativa”?
“I Corpi civili di pace (CCP). La Difesa civile, non armata e non violenta, non può essere lasciata esclusivamente alla buona volontà di gruppi volontari. Per essere efficace su vasta scala deve essere organizzata, sviluppata e finanziata. Per questo, con la nostra proposta popolare, chiediamo l’istituzione del Dipartimento per la Difesa civile che coordini l’azione dei CCP, il cui obiettivo è quello di costruire la pace, intensa non solo come cessazione della violenza ma anche come affermazione di diritti umani e giustizia sociale. La nostra richiesta è anche quella di spostare 100 milioni di euro dal bilancio delle spese militari, immutate nonostante la crisi, alla “Difesa Alternativa” e poi aggiungere a questi un 6 per 1000 che i cittadini potranno destinare in sede di dichiarazione dei redditi. Anche grazie alle nostre pressioni, all’inizio di febbraio il governo ha finalmente dato il via libera alla sperimentazione dei Corpi civili di pace (CCP). E’ un atto positivo ma è ancora troppo poco: se, come previsto, sarà il Servizio Civile Italiano a coordinare i CCP, potrà essere solo una “palestra di pace” per giovani volontari, non una vera e propria istituzione volta a coordinare gli operatori di un sistema di Difesa civile”.
La gente guarda con sospetto alla "Difesa alternativa" perché, nell’attuale psicologia collettiva, essere disarmati è associato, all’essere inermi, indifesi, ... Cosa dice loro?
“La gente comune possiede poche nozioni legate alle politiche di sicurezza, e comunque i veri oppositori alla “Difesa Alternativa” sono i “mercanti di armi” e le lobby economiche che non vogliono strumenti di una politica non violenta. Ritengo che la nostra società debba riappropriarsi di preziose conoscenze collettive legate alle rivoluzioni non armate attuate in India da Ghandi, negli Stati Uniti da Martin Luther King, in Sudafrica dai movimenti anti-apartheid, nelle Filippine dal People Power Revolution che ha destituito il colonnello Marcos, … Movimenti popolari che attraverso strumenti non violenti hanno portato a cambiamenti sociali radicali e duraturi. Di fronte a due gravi crisi internazionali come quella in Libia e Ucraina, ritengo che ci siano spazi in cui i Corpi civili di pace, adeguatamente addestrati, possano operare e contribuire a una pacificazione”. |