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16 settembre 2015

 

L’Orso russo, l’Europa orientale e il Medio Oriente. Bentornato Ottocento

di Leonardo Palma

 

La manovra russa in Siria in aiuto dello storico alleato dimostra la volontà di Mosca di giocare il proprio gioco in Europa intervenendo per procura in uno dei nodi focali dell'instabilità delle frontiere dell'Unione. Lo scontro tra Europa centro-orientale e Europa occidentale, all'ombra dell'egemonia tedesca, ripropone dinamiche del lungo Ottocento in una partita a scacchi che difficilmente finirà in patta.

 

La partita che si è aperta negli ultimi due anni tra la Russia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti per il controllo dell’Europa orientale si sta consumando su un nuovo campo di gioco: la Siria. Se la guerra in Ucraina, l’annessione della Crimea, gli accordi di Minsk sembrano giunti ad una situazione di stasi dove ogni pedone nero ha bloccato un pedone bianco, l’Orso russo ha deciso di usare l’arrocco mettendo al sicuro il Re (l’acquisizione in Crimea e il vantaggio tattico nel Donbass) allontanandolo dalla scacchiera e spostando la torre in una posizione più attiva e centrale (la Siria). La crisi umanitaria dei migranti che spingono lungo le frontiere orientali dell’Unione sta infatti dando respiro alla Russia in Ucraina poiché la compatezza dimostrata da Ungheria, Polonia, Serbia, Romania contro l’accoglienza e il corridoio umanitario hanno reso il fronte anti-russo più fragile e portato in superficie le grandi differenze tra una Europa occidentale che tenta di imporre la sua egemonia e una Europa orientale gelosa delle sue prerogative nazionali e non certo incline a rientrare nell’orbita e nella sudditanza di un’altra “Unione”.

La zona siriana dello scacchiere è quindi adesso diventata prioritaria per Putin che, dopo aver bloccato pedoni e assicurato il Re, ha spostato la torre e aperto il movimento dei cavalli in supporto diretto dello storico alleato Bashar al-Assad. La giustificazione all’invio di armi, mezzi, truppe e addestratori è stata quella di agire in modo più incisivo nei confronti dello Stato Islamico e garantire un sostegno lealista alla minoranza alawita al potere per ragioni di legittimità. D’altronde gli Stati Uniti e gli Alleati hanno avanzato le stesse ragioni per dare il via ai bombardamenti contro i jihadisti ma con la fondamentale divergenza circa il ruolo di Assad. Per la Coalizione statunitense e l’Unione Europea la soluzione è lo smantellamento della rete terroristica e l’esilio del presidente siriano, considerato un dittatore che non ha esitato ad ordinare una spietata repressione contro il suo stesso popolo. Una condicio sine qua non. Per quanto possa turbare il costo umano di questa guerra, Mosca e Washington stanno intervenendo per assicurare interessi che vanno ben oltre la tragedia del popolo siriano. La Siria, citando il generale, vale certamente più di quanto costa al momento. Per la Turchia, la Russia, l’Iran, il Libano, la Giordania è un asset essenziale nella ripartizione degli equilibri di potere nel Medio Oriente; per Mosca lo è anche nel Mediterraneo. La base navale di Tartus è l’unico sbocco russo in un’area strategica che gli Stati Uniti stanno progressivamente abbandonando mentre Putin, appoggiando il presidente egiziano al-Sisi, ha portato anche l’Egitto, dopo il raffreddarsi dei rapporti con Washington, nell’area di amicizia. L’isolamento statunitense è avvenuto anche tramite l’arma a doppio taglio degli accordi sul nucleare con Teheran il cui sblocco si è avuto grazie all’importante mediazione russa. Questo ha portato ad una crisi tra Tel Aviv e Washington molto dura rendendo una storica alleanza strategica meno sentita che in passato; a questo si aggiungono le negoziazioni segrete, ma non così tanto, che Sergej Lavrov ha aperto con l’Arabia Saudita, anch’essa alleato di ferro degli Stati Uniti. Le divergenze sono molte, a partire dal ruolo di Assad che i sauditi vogliono estromettere, ma anche i punti di contatto non mancano e Mosca si è tenuta aperta molte opportunità dialogando silenziosamente con parte dell’opposizione siriana.

Per Teheran la stabilizzazione della Siria è altrettanto importante. Il regime alawita, un ramo minoritario degli sciiti, garantiva una testa di ponte tra l’Iran, il Kurdistan nord-iracheno e le milizie Hezbollah in Libano. Era il cemento del rinnovato potere sciita che gli ayatollah stanno tentando di imporre con tutte le loro forze in Medio Oriente. Lo Stato Islamico rappresenta una grande minaccia e se dovesse portare la Siria vicino alla disfatta totale a Teheran non rimarrebbe opzione se non quella di intervenire militarmente in modo massiccio in Siria fino ai confini del Libano. Ma questo scatenerebbe ovviamente una risposta israeliana che si sente sempre più accerchiata e in pericolo e, date le poco floride relazioni con Washington, la mediazione per una soluzione negoziale del conflitto sarebbe assai remota. Mosca sta dunque intervenendo per isolare gli Stati Uniti, assicurarsi il suo posto al sole nel Mediterraneo, scongiurare una guerra che costerebbe troppo a tutti e rinforzare l’egemonia iraniana in Medio oriente per avere una sponda solida di alleanza al sud mentre tenta di rafforzare il muro di stati “cuscinetto” tra steppe russe e Unione Europea. A queste ragioni geopolitiche si aggiungono quelle economiche; il calo dei prezzi del petrolio rende troppo competitiva questa risorsa rispetto al gas in un momento in cui, a causa delle sanzioni, la bilancia dell’economia russa sta pendendo dalla parte negativa. Per le petromonarchie il vantaggio dei costi nell’estrazione di petrolio rispetto alla Russia e a Teheran è ancora grande. Il corteggiamento tra Mosca e Baghdad degli ultimi mesi nasce da queste esigenze.

Tenere al potere Assad è dunque per la Russia unicamente un calcolo di potere e lo dimostra l’apertura di colloqui con i sauditi e con l’opposizione al governo alawita. Il Presidente siriano, da qualsiasi prospettiva si voglia osservare la crisi di Damasco, è ormai diventato unicamente un fantoccio per interessi altrui che, nella ricerca del male minore, preferisce tenere le redini insieme a Mosca e a Teheran. L’intervento russo potrebbe essere facilitato però, paradossalmente, dagli stessi Stati Uniti. Fin dall’inizio dell’amministrazione Obama nel 2009, il presidente americano non ha fatto mistero di volersi sganciare progressivamente dal teatro mediorientale facendo timide aperture alla stabilità iraniana e concentrarsi sul continente americano (Cuba) e il Pacifico (Cina). Le primavere arabe rallentarono questi indirizzi portando nuovamente gli Stati Uniti ad intervenire prima in Libia e poi in Siria ma sempre evitando cautamente l’impiego di truppe sul terreno. Obama venne eletto infatti con la promessa di porre fine alle guerre di Bush e aprirne di nuove avrebbe creato una risposta sociale americana di difficile previsione.

Lo stallo che si è creato è quindi difficilmente superabile. Gli Stati Uniti non vogliono certamente una guerra tra Iran e Israele che potrebbe portare ad una pericolosa escalation di alleanze; allo stesso modo l’ISIS è visto come il principale nemico ad una stabilizzazione regionale che si era cercata tramite l’accordo con l’Iran e il disimpegno delle truppe dall’Iraq. Ma il nodo rimane l’atteggiamento nei confronti di Assad. Washington e Bruxelles si tengono ferme nella loro volontà di superare la crisi siriana con un avvicendamento di poteri e la sconfitta del Califfato ma ormai, nello scacchiere mediorientale, gli Alleati si trovano in una posizione morta. Ciò significa che non è possibile raggiungere una posizione di scacco matto a causa dell’esiguità dei pezzi rimasti nel campo di gioco dove l’alfiere Israele, preda della paura, si chiude dietro ai muri, il cavallo turco non asseconda il gioco ma vuole catturare un pedone chiamato Kurdistan per sottometterlo e la torre saudita che, tra l’Iran e il Califfato, preferirà sempre quest’ultimo. Normalmente la partita finirebbe in patta ma in questo caso l’inazione statunitense, a cui segue quella europea orfana dello Zio Sam e impegnata a guadagnare uno spazio che l’Europa orientale non vuole concedere, permetterebbe all’Orso russo di “forzare la patta” ed acquisire un vantaggio relativo in Ucraina e assoluto in Medio Oriente. Si configurerebbe uno scacco di scoperta con un unico movimento (l’intervento in Siria) che libera la via per l’attacco al Re (l’Ucraina) in una seconda azione e paralizza un altro pezzo (il Medio Oriente) che si è costretti a difendere rendendo difficile attuare una doppia azione simultanea di difesa.

Ma qual è il fine ultimo della Russia? Lo zar è alla ricerca della cattura della Regina (l’Unione Europea) o vuole dare scacco matto agli Stati Uniti imponendo la propria egemonia in Europa orientale e nel Medio Oriente? La domanda non è autoreferenziale poiché in base alla risposta si possono creare scenari di sviluppo divergenti nelle relazioni tra Est e Ovest. Fino ad oggi Putin ha dimostrato di essere un leader duro e certamente alla ricerca di un vantaggio relativo sugli Stati Uniti per tornare ad essere nuovamente una grande potenza, ma non ha mai neanche disdegnato la possibilità di incontrarsi a metà strada. Nelle sue memorie come Segretario di Stato, Hillary Clinton ha affermato che Putin interpreta la politica come un gioco a somma zero in cui il guadagno o la perdita di un giocatore è perfettamente bilanciato da una perdita o un guadagno di un altro partecipante. Se l’Europa e gli Stati Uniti guadagnano la sconfitta dell’ISIS, l’arginarsi delle migrazioni dei profughi e lo scongiurarsi di una guerra tra Israele e l’Iran, la Russia guadagna il suo vantaggio economico-politico sul Mediterraneo, l’appoggio di importanti alleati diplomatici e una notevole leva per la soluzione della questione ucraina. Ma questo, e bisogna ricordarlo, non significa certamente che l’Orso russo rinuncerà alla posizione di scacco acquisita nei confronti sopratutto dell’Unione Europea.