http://comune-info.net/ 21 dicembre 2015
La guerra contro la Terra di Paolo Cacciari autore di articoli e saggi sulla decrescita e sui temi dei beni comuni.
L’accordo di Parigi sul clima è, a dir poco, inadeguato. Il coro entusiasta che si è levato, anche da alcune organizzazioni ambientaliste, è del tutto fuori luogo. A voler essere precisi la Cop 21 segna l’ennesimo tentativo dei governi degli stati del pianeta di prendere tempo e di procrastinare decisioni che sono sempre più necessarie, urgenti ed evidenti. Per molti il tempo è già ora. I 266 milioni di profughi ambientali (Parlamento europeo, Commissione per l’ambiente, documento 30/9/2015) che negli ultimi cinque anni hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni sono stati inopinatamente cancellati dal testo finale dell’accordo di Parigi. Inesistenti. A loro gli stati rifiutano il riconoscimento di rifugiati climatici. Non hanno più tempo nemmeno i “Piccoli stati insulari” a rischio di sommersione. Non sto pensando all’isola di Tokelau e agli atolli del Pacifico. E nemmeno a Chalan Beel, negli estuari della rete fluviale del Bangladesh. Ma a Venezia dove le mastodontiche e costosissime dighe mobili verranno sormontate perchè progettate per un orizzonte di efficacia di innalzamento del livello medio del mare di “soli” ottanta centimetri. Non hanno più tempo le popolazioni asfissiate dai gas di scarico e dai particolati sottili inalabili emessi dalle centrali a carbone, dai cementifici, dagli inceneritori, dalle navi, dagli aerei a cherosene, dalle automobili. Il contatore della Organizzazione Mondiale della Salute che registra le morti premature, l’asma e le bronchiti croniche causate dall’inquinamento atmosferico continuerà a girare. A Pechino come nella Pianura Padana. Le splendide foto degli animali in via di estinzione continueranno a dare spettacolo sul colonnato di San Pietro anche nei prossimi giubilei. L’accordo andrà in vigore il primo gennaio del 2021. Il primo Global Stocktake è fissato per il 2023. Fino al 2030 i paesi in via di sviluppo potranno aumentare le loro emissioni. La guerra contro la Terra e i suoi abitanti scatenata duecento anni fa dai paesi di più antica industrializzazione non si è affatto conclusa. Gli stati maggiori del business a Parigi hanno convenuto di usare nuove armi non convenzionali per continuare a condurre i loro affari. Investiranno in geo-ingegneria e in biotecnologie per tentare di catturare il diossido di carbonio dall’atmosfera e iniettarlo a pressione nel sottosuolo (Carbon Capture and Storage), pianteranno monoculture di alberi transgenici per aumentare la fotosintesi clorofilliana, fertilizzeranno gli oceani per assorbire più anidride carbonica e aumenteranno la nuvolosità diffondendo particelle di acido solforico ad alta quota per manipolare le radiazioni solari e diminuire l’effetto serra. Ci daranno da mangiare hamburger sintetici e ortaggi coltivati senza terra. Chissà che buoni! Del resto, sull’ultimo lembo dell’ultimo ghiacciaio delle Dolomiti, sulla Marmolada, quest’estate, hanno provveduto a stendere un pietoso telo di nailon nel disperato tentativo di proteggerlo dal sole. Il dottor Frankenstein non si arrende mai, e il mito di Prometeo non accenna a sfiorire nemmeno dopo la prova del nucleare. L’accordo di Parigi parla chiaro: l’obiettivo non è quello di chiudere le fonti dei gas climalteranti (e lasciare carbone e petrolio riposare sotto terra), ma di raggiungere la “neutralità delle emissioni” (nella seconda metà del secolo) attraverso le compensazioni: tanto gas posso emettere quanto riesco a dimostrare di farlo sparire. Nessuna considerazione autocritica sui risultati fallimentari fin qui raggiunti dai meccanismi (già previsti dal protocollo di Kyoto e applicati in Europa) di compra/vendita dei “diritti di emissione” (Emission Trading Scheme), ovvero permessi di inquinamento e del loro trasferimento nelle diverse aree del pianeta. Il mercato artificiale dell’“aria fritta” (Cape and Trade) ha aperto una nuovo campo per la finanziarizzazione dell’economia, ma non ha comportato alcuna reale riduzione delle emissioni. Il colonialismo del carbonio impone ai paesi poveri di provvedere a ripulire l’aria che i paesi ricchi sporcano con i loro smodati consumi. Lo stesso meccanismo di computo delle emissioni è una vera e propria truffa ai danni dei paesi produttori di beni che poi vengono consumati altrove. Un minimo di onestà imporrebbe che fossero i beneficiari finali a pagare le esternalità negative generate lungo la filiera della produzione e della distribuzione delle merci. Gianni Silvestrini, nel suo ultimo lavoro (2C (due gradi), Kyoto Club e Edizioni Ambiente, 2015), propone una sorta di “Imposta progressiva sul carbonio aggiunto” da applicare al prezzo finale delle merci. Senza una vera cooperazione alla pari tra paesi che dispongono di materie prime e paesi che detengono le tecnologie, il previsto “meccanismo di supporto per lo sviluppo sostenibile” e il “trasferimento tecnologico” attraverso il Financial Mechanism non sarà altro che il modo per mantenere rapporti di scambio favorevoli alle grandi compagnie che hanno acquisito diritti di estrazione e brevettato le tecnologie per utilizzarle. Nell’accordo di Parigi, come noto, è saltato ogni riferimento ai target di riduzione di CO2 e CO2 equivalente. Il motivo è semplice: si pensa di contenere il surriscaldamento del globo “ben sotto i due gradi” (a fine secolo) senza diminuire le emissioni totali, ma “catturandole” o/e aumentando la “capacità adattiva” dei territori. “Resilienza” è la nuova parola di moda. Un gioco di prestigio fantasmagorico presentato a Parigi al Gran Palais nella fiera delle green and clear technologies dove erano schierati tutti gli sponsor della Cop 21. Da Google alla Coca Cola, da Apple alla Toyota. Tutti convertiti alla SolarCity. Ma La città del sole di Tommaso Campanella prevedeva che i suoi abitanti (i “solari”) lavorassero quattro ore al giorno e contemplava l’abolizione della proprietà privata. Un forum ufficiale della Cop 21 si intitolava “Nature & Business”. La preoccupazione costante dei governanti, infatti, sembra essere quella di trovare il modo di garantire crescita economica e profitti aziendali attraverso attività produttive che non peggiorino le condizioni di vivibilità e di funzionalità ecologica del pianeta. Una scommessa assai ardua e al limite dell’impossibile senza avere il coraggio di intaccare quantomeno gli interessi delle Big Oil. Una operazione che dovrebbe portare a spostare ingenti quantità di capitali dalle compagnie che detengono il controllo dei giacimenti fossili a favore dello sviluppo e dell’impiego delle energie rinnovabili. James Hansen, astrofisico e climatologo, ha fatto una affermazione molto di buon senso: “Fino a che i carburanti fossili saranno più economici, continueranno a essere bruciati”. Un’operazione che richiederebbe l’uso di strumenti come la Carbon tax, ma a Parigi continua ad essere una parola innominabile. Il potere delle industrie petrolifere continua ad essere tale per cui – constata Marica Di Pierri – “Nel testo di 31 pagine votato a Parigi neppure una volta vengono nominati i termini petrolio, carbone o combustibili fossili”. Nel testo finale non appaiono nemmeno le parole acqua, agricoltura, trasporti, edilizia e quant’altre abbiano a che fare con i modi di vita concreti delle persone e con le politiche pubbliche. Come se i modelli energetici, alimentari, insediativi, economici e sociali non dovessero mutare a seguito della fuoriuscita dall’era tossica dei combustibili fossili. La decarbonizzazione degli apparati produttivi potrà avvenire solo attraverso un cambiamento dei modelli di business, di impresa, di consumo. Il rientro delle attività umane nei limiti delle capacità rigenerative della biosfera passa attraverso una revisione teorica e pratica del concetto di economia. Dovremmo imparare a soddisfare le nostre esigenze, necessità e desideri, senza intaccare gli stock naturali e compromettere i servizi ambientali. Beni comuni non negoziabili, non mercificabili, non privatizzabili, non dissipabili. A smuovere gli animi dei governati non è bastata né la grande mobilitazione popolare internazionale né le “bolle” di papa Bergoglio. L’accordo di Parigi è un muro di gomma eretto anche contro le osservazioni degli scienziati dell’Ipcc, nominati dagli stessi governi. Se, da una parte, gli stati non possono più fare a meno di riconoscere che “le attività umane sono la causa principale del riscaldamento osservato” (5° Rapporto Ipcc), dall’altra parte la somma degli impegni (volontari e flessibili) di riduzione delle emissioni che i singoli governi hanno proposto e che la Cop 21 ha accettato come buoni supera di molto (due, tre volte) il limite massimo che gli scienziati ritengono compatibili con un aumento massimo della temperatura di 2 gradi a fine secolo. Se non ho capito male le raccomandazioni degli istituti di ricerca sul clima, bisognerebbe ridurre le emissioni di origine antropica di CO2 di 8 Giga tonnellate entro il 2020 e di 11 Gt entro il 2030 per rimanere in un tetto di 1.010 Gt di CO2. In altre parole, mentre le stime dei centri di osservazione indicano la necessità di ridurre le emissioni di almeno l’80 per cento entro il 2030, l’ineffabile Accordo di Parigi consente ai singoli stati di continuare ad emetterne quantità superiori. Nessun target quantitativo di riduzione ulteriore delle emissioni è stato fissato. Il testo, quindi, si caratterizza come una mera petizione di principio e poco più di un auspicio affinché i singoli stati provvedano per conto loro, autonomamente e secondo il loro buon cuore, a fare di più di ciò che si sono impegnati a fare fin’ora. Nel 2023 un gruppo “technical expert reviw” provvederà a verificare le promesse (pledge and reviw). Nel frattempo i presidenti e i capi di stato cambieranno e le stesse promesse verranno ripetute dai successori. È già accaduto nel 1992 quando fu varata la Convenzione sul clima dell’Onu, nel 1997 quando fu firmato (anche da un presidente degli Stati Uniti) il Protocollo di Kyoto e negli interminabili summit successivi. Ha scitto Gunter Pauli, imprenditore ed economista belga, presidente della Novamont: “Stiamo assistendo alla stessa fanfara di diciotto anni fa. Purtroppo a questo accordo globale mancano contenuti solidi e impegni inequivocabili” (Left, 19 dicembre 2015). Cosa sarebbe stato necessario poter leggere nell’accordo di Parigi per essere più fiduciosi? Poche e semplicissime cose. Primo, che venisse stabilita una tassa capace di colpire il tenore di carbonio contenuto nei prodotti di consumo da reimpiegare per rendere conveniente l’uso di energie rinnovabili ed evitare la delocalizzazione delle emissioni di carbonio. Secondo, che venissero premiati i paesi che rinunciano allo sfruttamento dei loro giacimenti di combustibili fossili attraverso una carbon tax da imporre alle compagnie che estraggono combustibili fossili, così da creare una equa socializzazione delle risorse fossili di cui l’umanità non può ancora fare a meno. Ricordo che le imprese petrolifere hanno contabilizzato riserve e patrimonializzato giacimenti di petrolio e gas naturale per una quantità dieci volte superiore alla capacità della biosfera di assorbire e metabolizzare il carbonio che dovesse essere generato dalla loro combustione. Terzo, che venissero favoriti i sistemi urbani di trasporto collettivi e l’edilizia con la migliore resa energetica. Quarto, che fosse riconfigurato il sistema agroalimentare sui modelli dell’agricoltura contadina di prossimità, ridimensionando drasticamente la zootecnia intensiva (26 miliardi di animali allevati ogni anno per l’alimentazione umana) se è vero che le stime della Fao e della Oms attribuiscono alla filiera delle carni di allevamento una quota del 20 per cento delle emissioni totali di gas climalteranti. Quinto, ma decisivo, che venisse riconosciuto il diritto inalienabile dei popoli nativi di impedire lo sfruttamento da parte di terzi delle risorse naturali forestali, minerarie, marine. L’unica nota davvero positiva che viene da Parigi è l’apertura di un portale che registra gli impegni extra-accordo che le città, le regioni, le imprese e gli altri operatori economici vorranno autonomamente e indipendentemente assumersi. Già 2.255 comuni di tutto il mondo hanno avviato piani energetici più ambiziosi. Ancora l’imprenditore illuminato Gunter Pauli: “Invece di governi alla ricerca di accordi globali con obiettivi vaghi, abbiamo bisogno dell’alleanza di tutti i sindaci e dei cittadini, per poter agire dove conta e dove le iniziative possono essere prese in pochi giorni”. Speriamo che sotto la spinta della cittadinanza attiva si possa fare di più e meglio.
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