http://www.nigrizia.it/ Lunedì 16 marzo 2015
Il linguaggio dei silenzi e delle cose di Luca Peloso Il grande successo del film "Timbuktu" del regista mauritano, Abderrahmane Sissako, è dovuto al fatto che mostra innanzitutto un’umanità incapace di comunicare, dove i silenzi divengono più importanti delle parole, e le parole servono a veicolare i pochi autentici sentimenti che contano davvero. Timbuktu del regista mauritano Abderrahmane Sissako, candidato all'Oscar come miglior film straniero 2015 (cui è stato preferito il valido ma meno potente Ida), è un'opera sfaccettata e insieme semplice. La trama scarna (un tranquillo allevatore si ribella all'uccisione di una delle sue mucche mentre le milizie jihadiste occupano la sua zona imponendo con la forza la loro legge) sviluppa con naturalezza l'intreccio tra le piccole storie individuali e la Storia. Sissako si serve di un sistema di opposizioni, dove quella dominante è costituita dal contrasto tra la placida quotidianità di una società tradizionale e i modi di essere dei combattenti integralisti, cui corrisponde un agire arbitrariamente disumano e in ultima analisi incoerente. A tale contrapposizione fa capo una serie di sequenze chiarissime eppure mai didascaliche: quella in cui un giovane da poco arruolato nella polizia islamica viene invitato, di fronte a una telecamera, ad essere più persuasivo, laddove in un'altra il saggio della comunità islamica locale ci ricorda che non è l'esteriorità ma l'interiorità la sede del vero (tema che a noi occidentali richiama Agostino, e che più di altri deve aver colpito la Giuria Ecumenica del Festival di Cannes che ha premiato il film); quella di un jihadista che, contravvenendo a una delle proibizioni da lui stesso imposte alla popolazione locale, si apparta per fumare di nascosto, mentre all'opposto gli abitanti di Timbuctù manifestano apertamente il loro dissenso; quella del processo, dove all'umanità dolente del pastore si contrappone l'imperturbabilità fredda e calcolata dei suoi aguzzini. Nelle maglie di questa rete s'insinuano momenti di grande forza etica ed estetica (due su tutti: la donna che canta mentre viene frustata e i ragazzini che giocano a calcio senza pallone), i quali attuano a livello discorsivo il passaggio tra i due piani prima citati del singolo e della Storia: il regista mostra infatti che se l'oppressione può ottenere “risultati” nell'ambito dell'esistenza individuale, per una vita spezzata ce n'è un'altra in cui l'immaginazione e l'espressione continuano a fiorire, in cui l'umanità non muore. Da questo punto di vista non si trova nel film un pronunciamento definitivo: chi pensa che a dire l'ultima parola sull'uomo siano la stupidità e la violenza, troverà conferme; chi ritiene al contrario che nonostante tutto qualche forma di bene sempre sopravviva, ne uscirà confortato: Sissako lascia che sia lo spettatore a decidere. Eppure in più di un caso la moralità del suo sguardo parla per lui: ne è prova tanto il pudore con cui viene messa in scena la violenza (in un'epoca di fastidiosi esibizionismi), quanto i ritmi del racconto, corrispettivi alla serenità che presiede la durata delle inquadrature e il loro avvicendarsi; lo conferma, infine, la scelta di non chiudere il film con un'immagine di morte laddove una caccia all'uomo sembrerebbe condurvi. È uno sguardo che non dimentica mai il ruolo della natura nella vita dell'uomo, sulla base della convinzione per cui l'uomo che non rispetta la natura non rispetterà nemmeno i suoi simili. Così si spiegano sia la circolarità tra la sequenza d'apertura – dove jihadisti su una jeep inseguono una gazzella, al grido «non ucciderla, sfiancala» – e la sequenza finale – dove è un uomo ad essere inseguito –, sia la scena in cui un guerrigliero punta il kalashnikov contro un cespuglio, unico segno di vita nel deserto, e ne spazza via metà con una raffica; scene in cui è la natura per prima a soffrire della follia umana. Ma c'è anche una natura contro cui l'uomo non può nulla, perché essa continua a vivere senza di lui: a questo rinvia la tecnica di montaggio, più volte impiegata, che alterna la ripresa ravvicinata di un personaggio (con tutto il suo bagaglio di dolore, pensieri, preoccupazioni) al campo lungo dove lo si mostra per quel che è, niente più che un minuscolo puntolino nel paesaggio e nell'universo. Ma Timbuktu mostra innanzitutto un’umanità incapace di comunicare: un mondo che è una Babele di lingue, dove molti sono gli interpreti eppure la “traduzione” cela sempre un groviglio di intenzioni mascherate o sottaciute, menzogne, parole mal tradotte o deliberatamente occultate – e in questo quadro è chiarissima la scelta di rappresentare la famiglia del pastore come uno spazio in cui i silenzi sono più importanti delle parole, e le parole servono a veicolare i pochi autentici sentimenti che contano davvero. Timbuktu è uno dei prodotti migliori della cinematografia africana contemporanea, che, al contrario di quella europea, da sempre incline a un certo intellettualismo, rifugge l'astrazione per parlare il “linguaggio delle cose” e cercare l'armonia tra uomo e uomo, tra uomo e mondo.
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