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12 dicembre 2015

 

Al Forum Economico Cina-Africa si ridisegnano gli equilibri per l’accesso alle risorse globali

di Salvo Ardizzone

 

Mentre l’Occidente è ripiegato sulle crisi e le paure da esso stesso create e alimentate, nel mondo si ridisegnano gli equilibri per l’accesso alle risorse globali.

Il 4 e 5 dicembre s’è tenuto a Johannesburg il 2° Forum Economico Cina Africa (Focac) dedicato ad affari e cooperazione, che ha visto la partecipazione di 400 businessmen cinesi ed africani, capi di Stato e ministri ed ha portato alla firma di 25 accordi per un valore di 165 Miliardi di dollari.

La prima edizione s’era tenuta a Pechino nel 2000 ed ha gettato le basi del neocolonialismo cinese che s’è impadronito delle risorse dell’Africa. Da allora gli scambi sono cresciuti vertiginosamente, con una media fra import ed export che supera i 220 Mld di $, rendendo marginali quelli che erano i tradizionali partner in Europa e negli Stati Uniti; un legame che s’intreccia con i sempre più massicci investimenti realizzati da Pechino in infrastrutture che facilitino gli scambi: 40 Mld già investiti e decine in corso di impiego.

Cifre poderose che fanno impallidire le promesse (tante) e i soldi (assai pochi) messi in campo da concorrenti divisi e privi di una strategia, lasciata all’iniziativa delle singole multinazionali che predano tutto ciò che possono in ordine sparso.

Fin’ora l’85% delle esportazioni africane si è basato su prodotti grezzi, e Pechino s’era accontentata di assecondare un flusso crescente di materie prime a basso costo indispensabili per la propria economia. Adesso, abbandonato il tradizionale profilo basso sin qui tenuto, la Cina comincia a far sentire il suo peso: è notizia recente la prossima apertura di una base militare a Gibuti, a tutela dei propri enormi interessi, e sono già iniziate pressioni sempre più ruvide perché i leader africani adattino le proprie economie alle esigenze cinesi, che tradotto significa far tabula rasa di norme, regolamenti, rispetto di diritti, peraltro da sempre assai labili e comunque superabili con le tradizionali mazzette.

Inoltre, dinanzi alle crescenti istanze dei lavoratori in Cina, gli investitori trovano sempre più conveniente far svolgere le semi-lavorazioni più inquinanti e meno redditizie delle materie prime in Africa, dove spesso gli operai vengono equiparati a schiavi col pieno consenso delle istituzioni.

Malgrado questo manifesto neocolonialismo sempre più oppressivo, sono in molti i Governi africani che preferiscono fare affari con Pechino, perché accetta (anzi, sollecita) apertamente la corruzione e il più sfrenato sfruttamento delle popolazioni e dell’ambiente.

È un brutale imperialismo quello che sta conquistando le regioni più ricche di risorse dell’Africa, mettendo nell’angolo gli antichi padroni coloniali. Per gli africani, stretti fra cricche di potere corrotte e avidi quanto cinici businessmen cinesi, è un eterno ritorno a un passato di oppressione e sfruttamento che non ha mai fine.

 

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