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Giovedì 30 aprile 2015

 

La mannaia sugli ultimi

 

Spesso infiliamo i fenomeni in schemi prestampati, pronti a ogni uso. Ad esempio, inchiodiamo il serpente terroristico che si snoda sulla carta geografica africana dal Sahel al Maghreb, dalla Nigeria al Corno d’Africa in due sole dimensioni: violenza e fede. Ignoriamo altri caratteri. Ci scordiamo che violenza e fanatismo, come ha scritto la rivista Limes nel suo editoriale di marzo, «non sono fini in sé. Sono strumenti per conseguire potere, ricchezza, rango».

Il business del jihadismo, che si finanzia con ogni genere di contrabbando, è terreno quasi inesplorato. Un buco nero è anche il confine assai labile tra terrorismo e organizzazioni criminali, soprattutto nel Sahel e in Libia, con la gestione di quel triangolo del malaffare i cui lati sono le armi, la droga e il traffico di esseri umani.

Allo stesso modo si ha la tendenza a dipingere queste organizzazioni jihadiste con un tratto monocromo, in cui scompaiono distinzioni cruciali legate alle motivazioni, agli obiettivi e al modus operandi dei diversi gruppi: al-Shabaab, Boko haram, Aqmi, gruppo Stato islamico, Lifg e altre decine di sigle jihadiste sono narrate come un unico, grande, blocco indistinto. Ma non è così.

Sottotraccia restano anche gli attori esterni e gli sponsor di queste organizzazioni. Senza il sostegno finanziario e la complicità anche di attori istituzionali del cosiddetto mondo sviluppato o del mondo arabo, infatti, questi vari gruppi non potrebbero condurre attacchi, spesso molto dispendiosi. In Libia si parla del ruolo dell’Egitto, deciso nel sostenere il governo di Tobruk. Poca attenzione è dedicata, invece, all’azione degli Emirati arabi uniti del principe ereditario Muhammad bin Zayid, vera forza propulsiva della guerra regionale all’islam politico. Monarchia del Golfo con cui ha stretti rapporti economici l’Italia, che, in qualche modo, influenzano anche le scelte e gli interventi di Roma nell’area.

E nella narrazione, ed è ciò che più qui ci interessa, ci si scorda troppo in fretta del mondo degli sconfitti. Delle vittime. Degli studenti di Garissa e delle loro famiglie. O delle donne morte nei mercati “esplosi” di Maiduguri, nel nordest della Nigeria. O dei giovani di Gao, in Mali. O dei civili somali vittime della repressione del contingente kenyano e delle forze dell’Unione africana nel loro paese.

Di loro sappiamo poco o nulla. Finiscono solo per essere dei numeri. Non persone reali. C’è stata una mobilitazione, anche internazionale, in ricordo dei 148 universitari del campus di Garissa, uccisi dalla violenza di al-Shabaab; ma da mesi è calato il buio su quegli operai kenyani, lavoratori delle cave di pietra ai confini con la Somalia, che il 2 dicembre 2014 i terroristi islamisti hanno sdraiato e poi costretto a recitare la professione di fede islamica. Chi stava zitto, un colpo alla nuca. Trentasei gli uccisi.

Non sappiamo più nulla, o quasi, a distanza di più di un anno, delle ragazze rapite dai Boko haram nel dormitorio di Chibok. Così come ignoriamo il vissuto, le passioni, i desideri, i conflitti, i rapporti, le ambizioni – insomma, la vita – di ciascuno di quegli oltre 13 mila morti, caduti nei ripetuti attacchi del gruppo terroristico nigeriano, il cui leader Abubakar Shekau, il 7 marzo scorso, ha giurato fedeltà al gruppo Stato islamico. Boko haram che vanta un tristissimo primato: è il movimento che uccide più persone per singolo attentato di tutte le organizzazioni terroristiche islamiste del mondo.

Persone vere, non fantasmi, che vanno a ingrossare le fila di quel mondo di sconfitti cui la storia non ha fornito il salvagente. Lo stesso che è mancato a migliaia di giovani, uomini, donne, bambini, inghiottiti nel Mediterraneo; in fuga, molto spesso, da quella stessa violenza criminale-religiosa che sta affliggendo fette consistenti d’Africa. Il pendolo dell’opinione pubblica, per qualche giorno, oscilla tra orrore e compassione. Poi, dopo essersi guardata nello specchio rassicurante della propria quotidianità, scatta l’indifferenza.

Il silenzio sull’ingiustizia è invece un vuoto da riempire, sempre. Con parole che devono rifuggire anche da un altro pericolo che s’innesca in automatico in questi casi: la lettura bipolare dei fatti. Dividere il mondo in due: noi e loro; Occidente contro Oriente; cristiani contro islamici; nord contro sud.

È la propaganda, spesso retorica, sui cui si sorreggono i fondamentalismi, che utilizzano la stessa grammatica e che si pongono gli stessi obiettivi: alzare muri; ridurre la complessità dei fatti alla semplice e rassicurante dicotomia tra buoni e cattivi. Tra amico e nemico.

I radicalismi, e chi li manipola, fanno leva proprio su questa matrice emotiva. Sul far sentire tutti seduti sulla lama di un coltello. Ma a farsi del male, almeno così ci dice la storia, è sempre chi non conta nulla. Gli ultimi.

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