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ott 28th, 2014

La Questione tibetana, nonostante la crescita cinese.
Giuliano Bifolchi intervista a Elena De Rossi Filibeck

Con l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese a potenza economica di livello mondiale, i media hanno prestato sempre maggiore attenzione nei confronti della Cina analizzandone gli aspetti politici, economici, sociali e culturali. Ad uno sviluppo economico significativo della Cina e ad un’importanza a livello sia regionale che mondiale dal punto di vista geopolitico, è stata spesso opposta dai media occidentali una scarsa preoccupazione da parte del Governo di Pechino nei confronti dei diritti umani e verso le minoranze etniche, tesi supportata quasi sempre citando a titolo di esempio la “questione tibetana”.
Con l’intento di approfondire la conoscenza di ques’area e dei rapporti Tibet – Cina, Notizie Geopolitiche ha intervistato Elena De Rossi Filibeck*, professoressa di Tibetologia presso il Dipartimento di Studi Orientali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, la quale ha dedicato la propria ricerca ed ha basato le proprie pubblicazioni sui molti e differenti aspetti della civiltà tibetana e sulla possibilità di rendere accessibili i testi del Fondo Tucci dell’IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) catalogandone i 1.115 testi tibetani.

- Quale è l’origine e l’etimologia della parola Tibet?
“Il nome del Tibet sotto le forme Tebet, Thebet,Thebeth e varianti deriva da una forma mongola Tobot e/o da una forma arabo-persiana Tubbat e fu introdotto nelle lingue europee nel XIII secolo dai missionari e viaggiatori europei in Asia. Secondo alcuni studiosi, e semplificando molto i passaggi filologici, queste forme potrebbero derivare dalla forma Toput del turco antico, che vuol dire “terre alte”. I tibetani chiamano il loro paese Bod o Bod yul (paese del Bod) la cui etimologia ancor oggi non è chiara. Per alcuni è forse da mettere in relazione con il termine Bon, nome della religione prebuddhista, per altri con quello di rbad/rbod/’bod, che è il nome di un grande uccello ma anche di una località rTsang bod nominata in testi antichi. Il primo europeo a riferire il nome autoctono fu il padre gesuita Francesco De Azevedo (1578-1660)”.

- Qual è la delimitazione geografica dell’area del Tibet?
“L’altopiano himalayano è compreso circa tra i 28-37 gradi latitudine nord e i 78-99 gradi longitudine est ed è diviso in cinque grandi regioni: il Tibet centrale detto dBus gTsang, il Tibet occidentale, il Tibet orientale che comprende l’Amdo e il Kham e il Tibet meridionale. In queste regioni vi sono molte diversità di dialetti e varietà di microclimi”.

- Come si caratterizza il Tibet dal punto di vista religioso, culturale ed etnografico?
“Nel periodo del Tibet tradizionale e con ciò intendo rifermi al periodo che va dal VII secolo d.C. fino all’esilio del XIV Dalai Lama Tenzin Gyamtso (1935) avvenuto nel 1959, si poteva parlare del Tibet come di un paese di religione e cultura buddhista piuttosto omogenee, pur nelle molte frammentazioni locali, dal momento che il Tibet politico e sociale coincideva con il Tibet etnografico. La religione e la lingua scritta costituivano i principali elementi di coesione. Dall’inizio dell’occupazione cinese ad oggi sono in atto grandi cambiamenti dovuti alla politica imposta da un governo comunista e ateo ad una popolazione dotata di un forte senso religioso e legata a tradizioni sociali che sono state radicalmente modificate. Si è parlato in più occasioni di genocidio culturale del popolo tibetano per cui adesso è difficile parlare di come si caratterizza il Tibet. Il mutamento della società soprattutto per quello che riguarda l’impatto di una forte immigrazione han, per i giovani e per le comunità di tibetani sparsi per il mondo è ancora in atto”.

Analizzando lo sviluppo storico dei rapporti sino-tibetani, è possibile individuare nel gioco di di potere che si era andato a creare in Asia tra l’Impero degli Zar e quello della Corona Inglese un elemento destabilizzante? In che modo potrebbe aver influito nel rapporto del Tibet con la vicina Cina?
“Certamente il complesso dei giochi politici nei quali furono coinvolte le potenze occidentali nello scenario centro-asiatico del XIX secolo, detto il Grande gioco, fu destabilizzante e influì negativamente nei rapporti Tibet – Cina. Basti pensare che una conseguenza fu l’invasione inglese condotta dal colonello Youngsband nel 1903-1904 che ovviamente allarmò i cinesi traumatizzati dall’imperialismo europeo che iniziarono a prendere misure di ordine militare e amministrativo almeno nel Tibet orientale per ribadire la loro autorità che durava in quelle regioni fin dal XVIII secolo. Il controllo cinese fu rinforzato nel 1905 con l’arrivo del generale manchu Chao Ehr Feng. Dobbiamo ricordare il primo accordo anglo-tibetano del 1904 che non fu firmato dai rappresentanti cinesi e quello anglo-cinese del 1906 a cui non parteciparono i Tibetani. Da un lato vi erano i rappresentanti cinesi che premevano per il riconoscimento della sovereignty sul Tibet che non fu riconosciuta in quella sede anche se gli inglesi cedettero alle pressioni cinesi perché fosse preservata la suzerainty cinese. Ricordiamo che in quel momento storico il Tibet era una specie di protettorato cinese che durava dal 1720. La Cina era presente nel Tibet centrale soltanto con i suoi due rappresentanti, gli Amban, e una piccola guarnigione militare a Lhasa”.

- Dalla caduta dell’Impero cinese fino al 1951 il Tibet riuscì ad amministrarsi autonomamente. Quali sono stati gli elementi chiave che hanno caratterizzato la gestione autonoma del Tibet in questo periodo?
“Non è corretto indicare la posizione politica del governo del Tibet come gestione autonoma nel periodo compreso tra la caduta della dinastia Qing e il 1951, poiché anche prima di quel periodo il Tibet godeva di una ampia autonomia nelle sue questioni interne. Il periodo citato è quello dell’indipendenza di fatto di cui godette il Tibet durante il governo del XIII Dalai lama (1876-1933). Nel 1912, alla notizia della caduta dell’Impero, i Tibetani espulsero i funzionari e le rimanenti truppe cinesi. Ricordiamo che nel 1910 c’era stata una invasione dell’esercito cinese, la prima volta che un esercito cinese aveva raggiunto Lhasa contro il volere dei Tibetani, e il Dalai lama si era rifugiato in India. Nel 1913 ritornava in un Tibet completamente libero dalla dinastia mancese dei Qing. Questo è l’elemento chiave. Inoltre il XIII Dalai lama sia nel trattato con la Mongolia del 1913, sia nel proclama inviato ai tibetani il 15 febbraio di quello stesso anno ribadì l’indipendenza del suo paese dalla Cina. Nella convenzione di Simla del 1916 il governo tibetano cercò in tutti i modi di ribadire l’indipendenza dalla Cina ma l’ambiguità della posizione inglese vanificò il tentativo di giungere ad una soluzione definitiva per lo status del Tibet che rispettasse la volontà dei Tibetani. Gli inglesi cercarono di raggiungere un punto di equilibrio per i loro interessi: essi non gradivano un Tibet sotto la sovranità cinese, ma neanche un Tibet completamente indipendente. Da un punto di vista interno la politica del XIII Dalai lama rese più forte il suo governo attraverso molte misure tra le quali l’avvio di modernizzazione del paese che purtroppo abbandonò dopo gli anni venti”.

- A suo parere, quali sono stati i fattori che hanno poi causato il ritorno della Cina in Tibet?
“Mi permetto di osservare che si potrebbe parlare di ritorno nel caso in cui i Tibetani avessero accettato l’arrivo dei Cinesi come accadde al tempo del protettorato, ma qui non si tratta di un ritorno ma di una invasione militare. Quando nell’ottobre del 1949 i comunisti cinesi presero il potere dichiararono fin da subito di considerare il Tibet parte inalienabile della Cina. Vi furono vari incontri fra i delegati tibetani e cinesi per giungere ad un accordo sullo status del Tibet ma le cose precipitarono quando i cinesi divennero sospettosi per i contatti che la delegazione tibetana aveva avuto a Delhi con l’ambasciatore americano. In quel momento era in atto la crisi coreana e i cinesi temevano che questo potesse costituire un pretesto per gli Stati Uniti per invadere la Cina. Quando gli americani attraversarono il 38° parallelo i cinesi lanciarono l’attacco nel Tibet orientale”.

- In linee generali, cosa decretava l’Accordo dei Diciassette Punti, noto anche come Trattato di Libera Pacificazione del Tibet?
“L’accordo in 17 punti il cui capitolo fondamentale era che il Tibet era parte inalienabile della Repubblica Popolare Cinese, riconosceva anche la speciale posizione autonoma del paese. Alcuni punti garantivano continuità in campo istituzionale, libertà religiosa e salvaguardia della lingua e dei costumi tibetani. L’accordo prometteva graduali riforme economiche e riorganizzazione dell’esercito tibetano all’interno dell’Esercito di Liberazione Popolare. La storia di come si arrivò alla firma dell’accordo racconta momenti veramente drammatici come anche furono drammatici gli anni che seguirono e che determinarono nel 1959 l’esilio del XIV Dalai lama”.

- Potrebbe spiegarci la valenza ed il significato del titolo “Dalai Lama”? Quali sono le radici storiche e culturali connesse con tale carica?
“Dalai lama, “Oceano di saggezza”, è il titolo che nel 1578 Altan khan, capo dei mongoli Khalka attribuì a bSod nams rgya mtsho in seguito all’opera di conversione al buddhismo da lui effettuata. Questi era il terzo abate del monastero di ‘Bras spungs, della scuola dei dGe lugs pa fondata da Tsong kha pa, il grande riformatore del buddhismo tibetano (1357-1419). Poiché i dGe lugs pa avevano introdotto il principio della reincarnazione per la scelta del successore al trono abbaziale, il titolo fu retrospettivamente attribuito ai due predecessori inaugurando così una genealogia spirituale che risaliva ad Avalokitesvara, protettore del Tibet. Al primo Dalai lama, nipote di Tsong kha pa, seguirono tredici Dalai lama. Il più importante fu il quinto, Ngag dbang blo bzang rgya mtsho (1617-1682) che portò al potere politico la scuola dei dGe lugs pa inaugurando la teocrazia tibetana nel 1642 come sistema di governo. Da allora fino al 1959 il Dalai Lama era considerato il capo spirituale e temporale del Tibet”.

I rapporti tra Cina e Tibet sono sempre stati scanditi da tensione e conflittualità oppure è possibile asserire che le relazioni tra le due parti siano condizionate dagli eventi politici regionali e, attualmente, internazionali?
“La storia dei rapporti tra Tibet e Cina è complessa e certamente possiamo dire che vi furono momenti di grande conflittualità tra i due paesi, ma anche momenti di pace e di collaborazione. Voglio ricordare che in antichi testi storici i tibetani parlavano del loro rapporto con i cinesi come tra quello che intercorre tra zio e nipote. Occorre anche ricordare che fin dai tempi del V Dalai lama (XVII secolo) i Tibetani erano abituati a considerare l’Imperatore cinese come una manifestazione di un bodhisattva, cioè di un essere illuminato. La natura della relazione Tibet-Cina aveva alla base il riconoscimento del prestigio reciproco tra Dalai lama e Imperatore in due diversi ma paritetici ambiti e che in tibetano era indicata dall’espressione mchod yon, variamente tradotta come sacerdote e patrono, protetto e protettore, indicando la relazione che si determina fra il maestro che riceve la protezione dal signore al quale fa il dono dell’insegnamento della dottrina. Quindi per rispondere alla sua domanda è chiaro che la relazione tra i due paesi è stata condizionata dagli eventi e dagli interessi politici internazionali come succede ancor oggi, e come ieri, per tutte le relazioni fra i popoli”.
- Quale momento decreta la nascita della “questione tibetana”? E cosa si indica con questo termine?
“La “Questione Tibetana” nasce ancor prima dell’appello alle Nazioni Unite l’11 novembre del 1950 da parte del governo tibetano in seguito all’invasione cinese dell’ottobre 1950, poiché nell’ultimo anno di indipendenza il governo tibetano cercò invano l’appoggio degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’India, ponendo così per la prima volta sul tappeto internazionale il problema del Tibet detto poi “questione tibetana”. Le grandi potenze come l’Unione sovietica e gli Stati Uniti, in piena guerra fredda, reagirono in modo sfavorevole, la prima schierandosi con le posizioni cinesi mentre la seconda, cercando di coinvolgere India e Gran Bretagna, non fece che rimandare il problema”.

Quali sono le due diverse posizioni ed interpretazioni (quella della Repubblica Popolare Cinese e quella del Tibet) sulla “questione tibetana”?
“Il dibattito sulla questione tibetana si svolge sulla base di due opposti punti di vista: quello della Repubblica popolare Cinese secondo cui il Tibet appartiene tradizionalmente alla Cina fin dai tempi della dinastia Yuan (1270-1368), e quello del Tibet secondo il quale il paese al momento dell’invasione era indipendente. Già da alcuni anni però il XIV Dalai lama non rivendica più l’indipendenza ma una vera autonomia per il suo popolo”.

Secondo Lei, la politica “Xibu Da Kaifa” (Grande modernizzazione dell’Ovest) avviata da Pechino è riuscita a raggiungere i risultati sperati? Crede che l’opposizione tra le due parti rappresenti un fattore negativo per lo sviluppo della regione?
“A partire dal Terzo Forum nazionale sul Tibet il governo centrale cinese ha deciso di investire cifre rilevanti per lo sviluppo di quella che dal 1965 è la RAT (Regione Autonoma del Tibet) e per le province occidentali della Cina. Se per risultati sperati lei intende la realizzazione del programma di modernizzazione direi certamente di sì, vista la costruzione della ferrovia Golmud-Lhasa ed altre imponenti opere. Se invece intende l’accettazione pacifica dei Tibetani alla politica cinese direi di no visto che manifestazioni anticinesi scoppiano continuamente nonostante la repressione. Ciò che rappresenta un fattore negativo è la violazione dei diritti umani da parte cinese”.

Venendo all’Italia, quale è la reale conoscenza della questione tibetana? Crede che i media abbiano descritto tale problematica in maniera fedele ed appropriata oppure la mancanza di informazioni rappresenta ancora un elemento caratterizzante?
“In Italia i media hanno sempre dato molto spazio agli avvenimenti che riguardano il Tibet e il Dalai lama: non ho letto tutti gli articoli e non ho visto tutti servizi per dire se tutte le testate giornalistiche abbiano dato corrette informazioni. Quello che ho notato è che da quando la Cina è diventata una super potenza economica i riflettori sulla questione tibetana si sono molto abbassati”.

*Elena De Rossi Filibeck si è laureata in Storia dell’Asia Orientale con il prof. Luciano Petech nel 1971 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma. Vincitrice di una borsa di studio quadriennale per l’addestramento didattico e scientifico (1972-76) svolgeva in quegli anni esercitazioni di grammatica della lingua classica tibetana. Nel 1977 vinceva una borsa di studio CNR per l’orientalistica risultando prima nella graduatoria nazionale. Dal 1980 è stata ricercatore presso il Dipartimento di Studi Orientali e la Facoltà di Lettere e Filosofia e poi presso la Facoltàdi Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma e infine dal 2003 professore associato presso la Facoltà di Studi Orientali della medesima Università. Le sue pubblicazioni riguardano molti e differenti aspetti della civiltà tibetana. Dal 1980 ha dedicato la sua vita professionale a rendere accessibili i testi del Fondo Tucci dell’IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) catalogandone i 1115 testi tibetani (vedi bibliografia). Nel 1990 ha fatto parte di un progetto internazionale di studi creato dall’accordo scientifico congiunto tra l’IsIAO e il Dipartimento di Tibetologia e Studi Buddhisti dell’Università di Vienna. In questo ambito ha partecipato alla missione scientifica a Tabo nello Spyiti (Himachal Pradesh, India) del 1990. Dal 1999 al 2003 è stata direttore scientifico del Fondo Tucci dell’IsIAO. La sua attuale attività di ricerca riguarda lo studio codicologico di alcuni manoscritti conservati nel Fondo Tucci dell’IsIAO e l’edizione del materiale manoscritto di testi della tradizione orale del Ladakh di cui ha già pubblicato una parte nel 2009.


Giuliano Bifolchi è analista geopolitico specializzato nel settore Sicurezza, Conflitti ed Energia. Laureato in Scienze Storiche presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha conseguito un Master in Peace Building Management presso l’Università Pontificia San Bonaventura.

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