Limes Oggi La guerra, Asad, la rivoluzione: parlare di Siria una sera a Beirut
Un incontro con amici siriani nella capitale libanese diventa l'occasione per discutere del conflitto che da più di 3 anni imperversa a Damasco. I pro-regime, gli anti-regime e la nebulosa dei disillusi.
Di nuovo insieme. Noi tre, come a Damasco qualche anno fa quando non c’era la guerra (harb) o la crisi (azma) e non si parlava di eventi (hawadith) o di “action”. Quando li conobbi, nel 2007, vivevamo tutti in quella Siria che non conosceva proteste. Dove parlare di nizam (regime) era proibito da un tacito e mutuo accordo tra le parti. Non se ne parlava per strada, non se ne parlava sui gradini delle chiese la domenica mattina dopo la funzione religiosa, non se ne parlava dal fruttivendolo né mentre compravo le ricariche per la scheda telefonica. E se facevo domande in casa, prima di rispondermi si chiudevano bene le finestre, “perché i vicini hanno orecchie dappertutto”. Era da 3 anni che non mi ritrovavo insieme a due tra i miei più cari amici siriani. Da quell’autunno 2011 quando fui costretta in fretta e furia a lasciare Damasco perché qualcuno aveva il sospetto che fossi una blogger e non avevo avuto il tempo di abbracciarli. Furono lacrime amare. Tre anni fa avevo capito che i miei amici non appartenevano più alla categoria indifferenziata e ingannevolmente omogenea di “siriani”. Avevo capito che non solo c’erano siriani maa al nizam (con il regime) e didd al-nizam (contro il regime), ma anche quelli che prendevano le distanze da entrambi, che si sentivano confusi, che facevano fatica a leggere gli eventi, che iniziavano ad avere paura (tanto i cristiani e gli alawiti quanto Mr. Z., uomo d'affari sunnita), che preferivano lasciare il loro paese per trovare quiete e silenzio a Beirut, in Europa, nel Golfo o in Canada. Scrissi allora (gennaio 2012), sotto la copertura di uno pseudonimo, un articolo su quelle che sembravano palesarsi come opposizioni linguistiche binarie che celavano la frattura politica che divideva i miei amici siriani in più categorie. Frattanto uno dei miei amici, S. - mentre beveva una zuhurat, un infuso di fiori - continuava a usare un’espressione che non gli avevo mai sentito prima per definire la guerra in Siria: "the action", ossia azione, movimento, processo. “Il movimento è sempre e comunque meglio della stasi cui ci ha abituato il regime per quattro decenni”. S. comincia a disegnare sul mio quadernetto - come fa sempre per rendere più chiari i concetti che espone - uno schema degli anni Settanta, Ottanta, Novanta sotto quella che lui chiama l’era del “padre” e gli anni Duemila, l’era del “figlio”. Ebbene “gli eventi - dice lui - ci sono sempre stati ma erano per così dire fluttuanti (infatti disegna delle onde tratteggiate). Fluttuanti o meglio intermittenti, perché non documentati anche a causa della mancanza di moderne tecnologie nell’informazione, dei social network, degli smartphone con la videocamera eccetera”. “Prendiamo ad esempio Hama. Nessuno sa esattamente cosa sia successo e quanti siano stati i morti nel 1982. Nessuno era lì a fotografare e postare su Facebook”. Pare che un suo zio, allora militare nell’esercito, fosse stato mandato a Hama e gli avesse raccontato di esserci stato. Un intero quartiere - Hey al-Kilani - sarebbe stato raso al suolo. Lo zio avrebbe dichiarato di non avere ucciso nessuno personalmente e di non avere aperto il fuoco nonostante l’ordine fosse quello di colpire ogni abitazione da cui provenivano gli spari. “Dal 2000 gli eventi sono precipitati, nel senso che sono stati repressi maggiormente. Dal 2000 l’autorità non è più centralizzata ma divisa, sparsa e frammentata in diverse personalità legate al regime che si sono spartite avidamente le risorse del paese, lasciandone sempre meno alla popolazione”. Da qui anche la definizione degli eventi non come azione, vitalità e movimento ma come azma (crisi, in senso economico) diventa una tattica del regime per ridurre il tutto a mero problema economico-finanziario, pressione sugli stipendi, inflazione. Causata dai presunti sovversivi. “Ma la Siria non è uno Stato socialista dove, bene o male, tutti ricevono sacchi di zucchero e riso a prezzi molto bassi, le telefonate interurbane sono praticamente gratuite e la sanità pubblica costa niente?” - dico per provocarlo. “Ci sono solo due ospedali pubblici a Damasco, in cui invece che guarire ti ammali e ne esci morto”. Anche lui esagera volutamente. Ciò non toglie che anche in Siria fosse (o sia) ben radicata la tendenza a rivolgersi a costose cliniche private che garantiscono igiene, professionalità e competenza. D. invece non parla tanto né inveisce contro il regime, pur avendomi più volte parlato di uno zio giornalista in carcere. Forse perché da un po’ ha lasciato la Siria, ha provato a fermarsi in due paesi europei ma poi è tornato in terra mediorientale. Ad ogni modo lavora all’estero e - a differenza di S. - non vive la quotidianità siriana dal 2011. D. è scettico. Fa parte di quella nebulosa variegata di disillusi e pessimisti circa i risultati ottenuti dalla rivoluzione. Crede che la rivoluzione vera - quella iniziale, pacifica - sia morta sotto i colpi delle armi arrivate in Siria da mezzo mondo. Che ormai non ci sia speranza. "Rahat Suriyya" ("la Siria è andata, non c’è più") ho sentito spesso dire. S. continua con veemenza. “Non è vero che la rivoluzione è morta. Il problema è che ora ha due nemici. Il regime e il Daesh (o Isil, attualmente Is). Due nemici che vivono l’uno per l’altro e l’uno con l’altro. Se cadesse il regime, Daesh non avrebbe più ragion d’essere. E se solo fossimo stati uniti e pacifici, insieme, dall’inizio (sunniti, alawiti e cristiani, dice) il regime sarebbe caduto subito”. Le posizioni di D. non potrebbero essere più lontane invece. Hanno studiato entrambi nella stessa università, quella che venne colpita da un razzo nel marzo 2013 causando diverse vittime. Erano entrambi là. “Chi lanciò il razzo?” chiedo. S. risponde che, senza ombra di dubbio, è stato il regime. Perché quella facoltà ha da sempre avuto una storia di proteste e movimenti studenteschi invisi alle autorità. D. ribatte che non è possibile che il regime non abbia alcuno scrupolo nell’uccidere i suoi cittadini, i suoi studenti, in quel modo. Non lo accetta. Gli pare una visione troppo estrema. S. dice che non si stupisce di un regime che da decenni tiene nelle sue carceri migliaia e migliaia di civili. D. argomenta che comunque la teoria dell'amico è inverosimile, radicale. Poi tace per qualche secondo. Ammette che sicuramente S., per storia familiare e personale, è molto più addentro alle vicende siriane rispetto a lui. Siamo tutti stanchi ed è notte fonda. Per sfinimento, entrambi lasciano cadere la discussione. Tanto più che ora non sono in Siria e non ha forse senso litigare. Conviene riabbracciarsi forte che chissà quando ci rivedremo tutti e tre. Nemmeno io prendo posizione, mi limito a raccontare i fatti così come da loro li ho ascoltati.
Per approfondire: Il profeta Asad, presidente della "rivoluzione culturale" in Siria
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