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Lezione siriana per la sicurezza collettiva Antonio Bultrini è professore di Diritto Internazionale e Diritti Umani, Università di Firenze. È ancora possibile salvare la Siria multietnica? Sarebbe già molto se si riuscissero ad alleviare le tremende sofferenze di una larga parte della popolazione civile. La spietata guerra civile in Siria assomiglia ormai ad un “tutti contro tutti”, visti gli scontri tra le stesse fazioni ribelli e il ruolo crescente di quelle radicali. A tre anni di distanza dall’inizio di questa tragedia, rischiamo di dimenticare che la rivolta contro il regime di Bashar Assad fu inizialmente pacifica e che la brutale risposta del regime (a cominciare dal ricorso sistematico alla tortura) contribuì in modo decisivo allo scoppio della guerra civile. Responsabilità di proteggere Se la Russia, storico alleato di Damasco, avesse indotto il regime a più miti consigli (letteralmente), anziché rifornirlo costantemente di armi, e se avesse immediatamente appoggiato iniziative forti di pressione sul regime, quest’ultimo, molto probabilmente, sarebbe stato costretto ad avviare un confronto con l’opposizione. A sprecare tempo prezioso ha contribuito anche l’errore, da parte di alcuni paesi occidentali, di annunciare che l’uso di armi chimiche sarebbe stata la “linea rossa” da non superare (peraltro, l’uso indiscriminato di armi convenzionali da parte del regime contro la popolazione civile ha mietuto molte più vittime). La Russia fa valere un principio tradizionale del diritto internazionale, secondo il quale stati terzi possono aiutare un governo, ma non gli insorti (salvo poi fomentare la secessione della Crimea!). Nel 2005, tuttavia, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamava la responsabilità di ciascun governo di proteggere da crimini internazionali la popolazione civile sottoposta alla sua autorità. Che il diritto internazionale vieti ormai alle autorità di uno stato di massacrare la popolazione civile che vi si trova è indubbio. Meno sicuro è se la comunità internazionale sia obbligata a reagire attraverso il sistema di sicurezza collettiva. Il Consiglio di Sicurezza, Cds, può nondimeno decidere di intervenire anche in virtù del suddetto principio della responsabilità di proteggere, che figurò del resto fra le motivazioni dell’autorizzazione ad intervenire in Libia tre anni fa. Interferenze esterne in Siria È sconcertante che la Russia (spalleggiata dalla Cina) appoggi un regime sanguinario come quello siriano. Occorre tuttavia riflettere anche sul modo in cui altri importanti attori hanno affrontato sia l’intervento in Libia che l’inizio della tragedia siriana: se la finalità fondamentale dei princìpi del diritto internazionale è oggi quella di tutelare pace e sicurezza e di proteggere le popolazioni civili, gli obiettivi degli interventi debbono essere guidati da queste preoccupazioni e non da quella di rovesciare un regime. Né la soluzione può essere armare gli insorti: l’andamento sul campo ha dimostrato come le interferenze esterne (in particolare da parte di vari membri della Lega araba) abbiano finito con l’accentuare la dimensione interetnica del conflitto (sunniti contro sciiti). La comunità internazionale dovrebbe spegnere un conflitto sul nascere (e mostrare la massima determinazione con chi si azzardi a commettere crimini contro la popolazione civile), non gettare benzina sul fuoco. Il problema è anche istituzionale. Com’è noto, il potere di veto permette ai membri permanenti del Cds di fare il bello e il cattivo tempo anche a fronte di sofferenze atroci come quelle a cui si assiste in Siria. È sempre meno tollerabile che questioni cruciali - a volte per la vita di milioni di persone - siano in balìa degli interessi di questo o quello fra i cinque membri permanenti. Nel caso della Siria, persino l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha rimproverato il Cds della sua inerzia. E quand’anche quest’ultimo riesca ad autorizzare un intervento, è difficile imporre agli stati di restare entro i limiti (legali) di ciò che è stato autorizzato. In Libia, dall’obiettivo dichiarato di proteggere la popolazione civile di Bengasi si arrivò (su impulso soprattutto di Francia e Gran Bretagna) ad un appoggio a tutto campo agli insorti e al rovesciamento del regime, ovvero un esito non esplicitamente contemplato dalle risoluzioni approvate dal Cds. La rigidità di Russia e Cina nel caso della Siria non è affatto giustificabile, ma è in parte favorita da quel che è accaduto in Libia e dalle reticenze che questo ha suscitato anche presso altri, importanti paesi. Riforma del Consiglio di sicurezza Occorre dunque riformare il Cds e ridimensionare il potere di veto dei membri permanenti; passare dalla mera discrezionalità all’obbligo di adottare tempestivamente misure adeguate per affrontare non solo le minacce alla pace e alla sicurezza, ma anche le violazioni massicce dei diritti umani; sottoporre ad un controllo internazionale le operazioni condotte dai singoli stati in modo che restino entro i binari di quanto è stato deciso a livello collettivo. Peraltro, quanto più tempestivamente si interviene con misure incisive, tanto più alte saranno le chance di evitare un intervento militare. E se le circostanze dovessero far apparire la via militare come l’unica efficace, quanto più tempestivo e deciso è l’intervento, tanto maggiori saranno le possibilità di prevenire massacri (come insegnano - in male - la Bosnia o il Ruanda). Si tratta notoriamente di una sfida difficilissima, anche perché per modificare lo statuto delle Nazioni Unite occorre l’approvazione dei cinque membri permanenti! Una riforma del genere presupporrebbe inoltre una maggiore disposizione della comunità internazionale ad assumersi pienamente le proprie responsabilità in materia di pace e diritti umani. Non sappiamo quanto si riuscirà ancora a salvare di ciò che resta della Siria multietnica. Per evitare che tragedie simili si ripetano occorrerà nondimeno ripensare senza ipocrisie tanto l’attuale sistema di sicurezza collettiva quanto il modo “disinvolto” in cui sono state affrontate alcune delle maggiori crisi degli ultimi anni.
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