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2 settembre 2014

L’impegno di Padre Dall’Oglio per promuovere la pace e la giustizia
di Stefano Femminis
Direttore di “Popoli” – Mensile internazionale dei gesuiti

È il 1983: in Iran la rivoluzione khomeinista (che secondo alcuni segna la definitiva spaccatura tra sciiti e sunniti di cui oggi vediamo le drammatiche conseguenze) è ancora giovane; mancano 18 anni a quell’11 settembre in cui l’Islam (meglio, un certo Islam distorto) dichiarerà guerra all’Occidente; la rivolta trasformatasi in guerra civile in Siria, il folle progetto del califfato islamico e le persecuzioni dei cristiani in Medio Oriente sono eventi ancora lontani e inimmaginabili; per non parlare del vento nuovo portato nella Chiesa e nel dialogo interreligioso dal Papa arrivato “dalla fine del mondo”.
Eppure, in quel 1983, c’è un giovane prete romano (anzi, un diacono che si prepara all’ordinazione sacerdotale) che ha già capito tutto: di sé, della Chiesa, della storia. A 29 anni Paolo Dall’Oglio ha compreso che la sua missione è, in tre parole, «quella di essere prete nella Chiesa in dialogo. In dialogo: cioè in apertura a Dio e al mondo«, perché «un servizio universale è possibile solo come apertura alla pluralità ed accoglienza della diversità».

Sono parole tratte da una splendida lettera che i familiari di Dall’Oglio hanno reso nota domenica scorsa, in occasione del trentesimo anniversario della sua ordinazione a gesuita avvenuta il 31 agosto 1984 (la missiva venne scritta alcuni mesi prima). «Avremmo voluto festeggiare insieme, con familiari, confratelli e amici di tutto il mondo che hanno condiviso la sua missione», spiegano i parenti nel pubblicare la lettera. Una festa che non è stata possibile, ma che tutti speriamo sia solo rimandata: padre Paolo, infatti, è stato rapito in Siria 13 mesi fa e di lui non si sa più nulla. In questi mesi si sono rincorse le voci più disparate, a volte tragiche, a volte incoraggianti, ma la sensazione è che nessuno abbia certezze.

O meglio, una certezza esiste: che tutta la vita di padre Paolo e in fondo anche il suo andare incontro al rischio di un rapimento (a quanto si sa, è stato prelevato a Raqqa, roccaforte dell’allora sconosciuto Isis, per negoziare la liberazione di alcuni prigionieri) sia stato il frutto coerente delle intuizioni di cui quella lettera è già disseminata: la sua dedizione totale al dialogo con l’Islam, l’amore per la Siria e il suo mosaico etnico e confessionale (Dall’Oglio ha ristrutturato e rifondato un monastero a pochi chilometri da Damasco, un luogo di accoglienza e di dialogo interreligioso), l’impegno per promuovere la pace e la giustizia, e le conseguenti frizioni con il regime di Assad.

Scrive ad esempio il giovane Dall’Oglio: «Cercherò di contribuire al dialogo islamico-cristiano con la chiara coscienza che non si può efficacemente fare questo lavoro se resta monopolio clericale e non diventa una via di molti per vivere il battesimo. (…) Se il dialogo non lo viviamo dentro, come lo predichiamo fuori? E se Chiese potenti e maggioritarie restano il modello di sviluppo, come pretenderemo che i cristiani che si trovano privi di potere o minoritari non sentano la tentazione di fare ghetto o di emigrare, come avviene in Medio Oriente? In quest’ottica l’Islam costituisce una prova, una sfida, un appello indiretto alla crescita e alla conversione, per conoscere e imitare Gesù, sia per i cristiani mediorientali che per la Chiesa tutta».

Ma il passaggio forse più forte e più attuale della lettera (il cui testo integrale è leggibile su www.popoli.info, il sito della rivista dei gesuiti su cui padre Paolo scriveva tutti i mesi dal 2007), è quello nel quale il sacerdote sembra parlare non trent’anni fa, ma oggi, in questa estate di minacce fondamentaliste e di rinascenti guerre di religione: «Con un mio carissimo amico musulmano dicevamo: ci sono solo due partiti, quello dell’estremismo fanatico (cioè in cui io sono il metro per giudicare gli altri) e quello di Dio (cioè il contrario del primo, e quindi il cercare e trovare la bellezza del suo volto in tutte le cose)».

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