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11 Aprile 2014

Hersh, La Repubblica e l’attacco chimico. Qualche domanda di Alberto Savioli

Questo pezzo è nato da una lettera scritta al quotidiano La Repubblica dopo la loro pubblicazione dell’articolo di Seymour Hersh “The Red Line and the Rat Line”  in cui si dichiara senza ombra di dubbio che l’attacco con il gas sarin avvenuto alla periferia di Damasco lo scorso 21 agosto sarebbe stato effettuato dai ribelli siriani, sostenuti dalla Turchia, al fine di scatenare l’intervento americano contro il regime del presidente Bashar al Asad.

Ho appreso della pubblicazione dell’articolo di Hersh da parte di La Repubblica sui social network fedeli al presidente siriano, nonché sui forum antimperialisti di estrema destra che sostengono Asad: per questi ambienti La Repubblica è diventata improvvisamente degna di fede in quanto ha pubblicato un articolo che condanna ribelli e Turchia, scagionando il regime.

Non penso che La Repubblica abbia sbagliato pubblicando un articolo di una prestigiosa e autorevole firma del giornalismo. Penso abbia sbagliato a pubblicare solo quest’articolo senza dare spazio a chi ha già confutato queste tesi. Pubblicare solo Hersh vuol dire, di fatto, sostenere la sua tesi, agli occhi di molti lettori questa diventerà la verità. L’unica verità possibile.

Sia ben chiara una cosa: qui non si vuole smontare la teoria di Hersh a favore di quella di Kaszeta, Higgins o di qualunque altro esperto di armi chimiche. Né si vuole scagionare i ribelli o la Turchia o qualunque altra potenza regionale o internazionale coinvolta nel conflitto siriano. 

Mi interessa piuttosto capire perché Hersh non consideri alcune questioni cruciali della vicenda e perché La Repubblica riprenda fedelmente l’articolo di Hersh, ignorando le altre versioni.

La tesi di Hersh si basa su sue personali fonti di intelligence. Ed era già stata proposta il 19 dicembre 2013 nell’articolo “Whose sarin?” apparso sulla London Review of Books. La tesi, come già detto, era stata da più parti confutata. Infine è stata riproposta da Hersh con il recente articolo del 4 aprile 2014 ripreso da La Repubblica e di cui ampi stralci sono stati ribattuti, tra gli altri, da Rai News 24 e dall’Ansa

Notoriamente, Hersh opera in un mondo di contatti confidenziali e fonti anonime, di frammenti di informazioni attorno alle quali si costruisce un articolo. E’ un maestro del giornalismo investigativo. Ma nell’era di Internet è riduttivo escludere le informazioni della Rete come, ad esempio, dimostra il lavoro di Heliot Higgins (si veda di seguito) e di altri ricercatori ed esperti di armamenti.

Il problema principale con l’articolo di Hersh è che egli sembra aver trascorso così tanto tempo ad ascoltare le sue fonti segrete, da trascurare di osservare una ricchezza di informazioni sugli attacchi chimici che è liberamente disponibile su Internet. Il risultato? Il suo articolo pone una serie di domande importanti a cui altri avevano già risposto.

Questo può forse in parte spiegare perché l’articolo della prestigiosa firma fosse stato rifiutato dal New Yorker e dal Washington Post prima di venir pubblicato dall’altrettanto prestigiosa London Review of Books. C’è chi ha confutato con prove alla mano le affermazioni Hersh. Scendiamo nel dettaglio:

Eliot Higgins alias Brown Moses è un ricercatore britannico che dall’inizio del conflitto siriano ha monitorato le armi utilizzate e la loro provenienza fornendo un contributo importante nell’analisi del conflitto. Pur non essendo un giornalista professionista, le sue scoperte hanno permesso di individuare armi croate in mano a Jabhat al Nusra; The New York Times ha seguito la sua scoperta arrivando a sostenere che servizi di intelligence americani avevano aiutato alcuni governi arabi a procurarsi armi dalla Croazia.

Amnesty International ha dichiarato che il suo blog è stato fondamentale per dimostrare che il regime siriano utilizzava missili balistici. Con le informazioni di Higgins hanno inviato in Siria una missione di ricerca.

In un articolo in cui confuta Hersh appoggiandosi su fonti video e fotografiche raccolte in questi mesi, Higgins sostiene che i razzi Vulcano da 122 mm utilizzati nell’attacco del 21 agosto sono una chiara indicazione della colpevolezza del regime in quanto è l’unico a possederli (prove video). I razzi in questione inoltre sono ancora in dotazione alla marina russa.

Una delle argomentazioni forti di Hersh invece è che si tratti di razzi artigianali, affermando implicitamente che le munizioni potevano solo essere state utilizzate dagli insorti.

Quest’affermazione si basa sul fatto che uno dei razzi che “portavano” le armi chimiche, individuato dagli ispettori delle Nazioni Unite nella loro relazione settembre, era una “munizione improvvisata che è stata molto probabilmente prodotta localmente”, secondo una delle fonti di Hersh. Tuttavia si parla di un razzo, Hersh non considerata tutti quelli rinvenuti di cui possediamo foto e filmati.

Inoltre, come sottolinea il giornalista Scott Lucas dell’EA WorldView in due articoli (1, 2), Hersh non tiene conto del fatto che più siti, non solo uno, sono stati colpiti con agenti chimici il 21 agosto. Circa 12 siti sono stati attaccati con agenti chimici quasi contemporaneamente. Chi, insomma, aveva la capacità di lanciare un attacco simultaneo con armi chimiche contro le aree insorte nella Ghouta dell’est (12 siti a Zamalka) e contro una città della Ghouta dell’ovest, vicino a Damasco? C’è da ricordare a tal proposito che questi attacchi sono stati immediatamente seguiti da bombardamenti con armi convenzionali molto pesanti.

Hersh inoltre non esamina in che modo i ribelli potevano sparare più testate chimiche sulle città controllate dall’opposizione come Muadamiyya (nella Ghouta occidentale). Quella cittadina è una delle prime località a scendere in piazza contro il regime nel 2011 ed è stata oggetto di un assedio durato oltre un anno: è stata letteralmente circondata da avamposti militari del regime. Si trova proprio vicino all’aeroporto militare di Mezzeh, a sud della base centrale della 4/a divisione corazzata dell’esercito, una delle forze d’elite a protezione del regime.

Hersh non si chiede quale sia stato lo scopo dell’attacco se fosse stato fatto dai ribelli. Perché mai gli insorti avrebbero dovuto sparare più armi chimiche a Muaddamiyya, un importante centro strategico controllato dall’opposizione che aveva resistito ad un assedio per quasi un anno prima degli attacchi del 21 agosto?

Dan Kaszeta (un consulente indipendente per la sicurezza ed ex ufficiale del Chemical Corps dell’Esercito degli Stati Uniti) invece sostiene che la presenza di esammina (esametilentetrammina) tra i campioni di terra della Ghouta contaminata con il sarin sia la “pistola fumante” che condanna il regime perché quest’ultimo ne era in possesso: come dimostrato dal fatto che le autorità di Damasco hanno consegnato agli ispettori Onu, incaricati nell’ottobre scorso di visitare siti di produzione di armi proibite, circa 80 tonnellate esammina.

Un dato significativo è contenuto nella relazione denominata “Request for Expression of Interest” per lo smaltimento di sostanze chimiche della Siria pubblicato dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) il 20 novembre 2013. Nel testo si descrivono i requisiti definiti dall’Opac per smaltire in modo sicuro varie sostanze chimiche provenienti dal programma per la consegna di armi chimiche del governo siriano.

L’elenco contiene 30 tonnellate di tricloruro di fosforo, che è una sostanza chimica utilizzata in molti metodi per la produzione di sarin. La lista comprendeva anche 80 tonnellate di esammina. Il dato è molto interessante poiché vi è esammina in tutto il campo di battaglia della Ghouta così come tra le sostanze stoccate dal regime siriano.

Secondi i cinque chimici consultati da Kaszeta, l’esammina può essere utilizzato come riduttore acido del sarin, sia da solo sia in combinazione con l’isopropilammina; poiché il suo uso nella produzione del sarin non è attestato precedentemente, potrebbe trattarsi del “marchio di fabbrica del regime siriano”.

Il sospetto nei confronti del regime siriano per l’attacco del 21 agosto era già stata avanzato il 18 dicembre scorso dalla giornalista Somini Sengupta direttamente dal The New York Times, proprio per la presenza del reagente esammina nei campioni della Ghouta.

Il rapporto degli ispettori dell’ONU elenca diversi luoghi in cui si è trovano esammina nella Ghouta: sul pavimento e sulla parete di una casa dove un razzo era caduto, su un pezzo di artiglieria e in un frammento di razzo.

I razzi Vulcano (rinvenuti anche dagli ispettori Onu) sono in dotazione esclusiva del regime siriano e sono stati usati fin dal 2012. Non sono di fabbricazione artigianale. Video e fotografie provenienti da fonti filo-governative hanno chiaramente dimostrato che il governo sta utilizzando i razzi Vulcano, che sono praticamente identici al tipo collegato ai presunti attacchi chimici.

Hersh non nega la presenza dei razzi Vulcano ma da per scontato che queste munizioni siano state acquisite dai ribelli, anche se il governo siriano non ha mai dichiarato che le munizioni sono state rubate dalle sue scorte.

La gittata stimata in due chilometri per gli attacchi della Ghouta, partendo dai siti di rinvenimento dei razzi vulcano, porta sempre in aree controllate dai militari siriani (per un’analisi in dettaglio della questione: 1, 2, 3).

L’articolo di Hersh sembra ignorare o fraintendere importanti dettagli tecnici. Le sue considerazioni sono fatte su un campione di sarin fornito dai servizi segreti russi. Anche nelle migliori circostanze, possiamo considerare i servizi segreti russi attendibili e obiettivi?

Riportare solo l’articolo di Hersh non citando tutti questi fatti, a mio avviso vuol dire suggerire ai lettori la tesi di Hersh: il regime non ha compiuto gli attacchi del 21 agosto, è stato tutto un complotto ordito dai turchi per scatenare l’intervento americano.

Per carattere ho l’allergia alle tesi del complotto, che quindi non voglio attribuire a La Repubblica. Ma esclusa l’ipotesi di faciloneria o svista per una testata di questa caratura mi sorge una domanda: perché solo La Repubblica nel panorama giornalistico italiano riprende un articolo appena pubblicato ma che riprende una tesi avanzata già da qualche mese e confutata da più parti, senza citare i punti deboli del pezzo che di fatto viene proposto come fosse uno scoop?

Ma la domanda a mio avviso ancor più interessante è: perché Hersh non avrebbe tenuto conto degli elementi di prova disponibili su Internet? Forse non ne era a conoscenza? Oppure, alla base vi è l’idea che la Rete contenga una marea di spazzatura e disinformazione? Ciò è vero ma solo fino a un certo punto. Vi sono molte notizie preziose e importanti e l’abilità sta anche nel distinguere le perle dalla spazzatura. Ma i lettori de La Repubblica avranno avuto maggiori probabilità di essere colpiti da un anziano premio Pulitzer che, apparentemente, ha avuto accesso a non meglio precisate fonti di intelligence.

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