www.frontepalestina.it Alcune riflessioni sulla "Riconciliazione" Il gran parlare oggi sull'intesa Al Fatah/Hamas dimostra quanto sia importante davvero arrivare ad un accordo, qualsiasi, che permetta alle due parti di uscire dalla pericolosa situazione che le travolge. Tutti parlano dell'intesa come l'unico processo raggiungibile. Al momento il documento firmato non rispecchia minimamente le richieste della piazza palestinese per arrivare all'unità nazionale. Quel che è stato firmato pone solo una tregua alle ostilità guerreggiate tra entrambi gli schieramenti. A noi sembra che il momento difficile che stanno passando il governo di Ramallah e quello di Gaza abbia indotto le due parti ad arrivare ad un accordo di “cessate le ostilità”. Contro Ramallah cresce il malcontento popolare sia per le condizioni oggettive (nel campo dell'economia, sociale e della libertà) sia per la situazione politica di stallo. Cresce la colonizzazione sionista che nel 2013 ha raggiunto una percentuale del 300% rispetto all'anno 2012: nuove colonie e non più ampliamento di quelle esistenti. Ciò vuol dire nuovi espropri di terreni e maggiori limitazioni alle libertà di movimento dei palestinesi. È cresciuta la repressione e in particolare quella dei minori o bambini, abbassando in maniera significativa l'età degli arrestati (4 anni in alcuni casi), nulla è cambiato nella pratica delle demolizioni delle case che sono continuate con ritmi maggiori. L'area B per l'ANP è quasi invalicabile mentre quella C è off limits. Il processo intrapreso dagli uomini e donne dell'ANP 21 anni fa non ha modificato per nulla le esistenze dei palestinesi, anzi, con il governo di Ramallah i salari si sono ridotti drasticamente e la presenza soffocante dei coloni sionisti è aumentata da 146mila a più di 650mila. Un fallimento totale che richiede come minimo le dimissioni dei responsabili A Gaza, oltre al fattore sionista, ha giocato un ruolo decisivo il governo di Hamas nel rendere la situazione insopportabile. Sarebbero bastati l'assedio killer degli israeliani, in collaborazione con l'Egitto, e le loro quotidiane e cicliche aggressioni per rendere la vita impossibile nella striscia di Gaza. Invece Hamas ha rincarato la dose con un “regime di polizia” con il quale ha cercato di imporre un modello di società da “emirato musulmano”. Le scelte politiche del movimento islamista hanno avuto pesanti riflessioni negative sulla vita dei gazawi, dalla chiusura quasi totale del confine con l'Egitto, alla riduzione drastica dei finanziamenti al governo di Haniyyeh, con un aumento esponenziale della disoccupazione e, quindi, della povertà, della riduzione della pace sociale con un aumento delle violenze etc... Hamas ha perso persino la bandiera della resistenza che oggi viene contesa dagli altri gruppi, che al contrario esprimono il loro forte disappunto per l'operato del corpo di polizia di “frontiera” di recente costituzione che limita le azioni di resistenza. Inimicarsi i popoli arabi, oltre ai governi, per le loro scelte politiche è stato un atto molto grave con una riduzione progressiva dell'appoggio popolare alla causa palestinese e a quella di Gaza in particolar modo. Schierarsi con i fratelli musulmani in Egitto e con i mercenari in Siria ha stretto la striscia di Gaza in una situazione di “isolamento” senza precedenti. A pagare il prezzo maggiore è la popolazione anche se Hamas ha visto tramontare la sua popolarità. Ecco perché, quindi, è stato importante sia per Al Fatah sia per Hamas arrivare ad un qualsiasi accordo che li aiutasse ad uscire da questa situazione molto pericolosa per entrambe. Un sondaggio ancora operativo (al momento della scrittura di questo documento) sul sito dell'agenzia Màan news rivela che il 11.9% dei palestinesi approva l'accordo, l'84.6% è molto scettico e il 3.5% non sa esprimere opinione al riguardo. Il dato sullo scetticismo palestinese è molto importante perché rivela quanto siano sfiduciate le due parti, quanto meno poco credibili, e questo grazie ai precedenti operati e dichiarazioni. Il primo tentativo avviene al Cairo nel 2005 e mira a far entrare Hamas nell'OLP, ma fallisce. Successivamente si consuma la rottura tra Hamas ed Al Fatah, sia per la criminale resa di Abbas alle pressioni imperialiste destituendo il governo di Hamas legittimamente eletto, sia per il successivo putsch militare di quest'ultima contro Al Fatah nella striscia di Gaza. I dirigenti politici palestinesi sotto sequestro nelle prigioni sioniste rendono pubblico un documento unitario che invita tutti all'unione. Il documento precisa anche gli aspetti sui quali bisogna unirsi riconoscendo la legittimità della lotta e della resistenza in tutte le sue forme, compresa la lotta armata. Il documento dice: «Dalle nostre celle richiamiamo i nostri fratelli e sorelle a ricordare l’importanza dell’unità, alla luce della crescente divisione nel seno del popolo... In applicazione di questo, noi condanniamo unanimemente gli atti di assassinio, i sequestri e l’abuso di vandalismi verbali. Queste sono le scintille che portano alla catastrofe e che dobbiamo prevenire a tutti i costi. O nostro grande popolo, noi chiediamo ai nostri fratelli, agli eroi della lotta armata, di mantenere la purezza delle loro armi. Queste armi sono per la salvaguardia del paese e della sua gente, e devono essere, oggi più che mai, puntate contro l’occupante israeliano. E chi punta la sua arma contro il petto del suo fratello palestinese dimentica il patto d’onore secondo il quale queste armi devono essere usate per resistere all’occupazione». Firmavano questo documento: Fatah: Marwan Barghouti; Hamas: Abdul Khalil ElNatche; Fplp: Ahmad Sa’adat; Jihad islamico: Bassam ElSaadi; Fronte Democratico: Mustafa Badarni. Il documento è datato gennaio 2007. Fatta consumare l'ondata di emozioni che tale documento ha suscitato tra i palestinesi, si è ben presto tornati alla guerra verbale e delle dichiarazioni. Nel 2007 il vertice/incontro tenutasi a La Mecca con il patrocinio dell'Arabia Saudita si conclude con un documento/accordo che non verrà mai applicato. Nel 2008 è il turno dello Yemen e come nei casi precedenti finisce nel nulla. Cairo 2011: raggiunto e firmato l'accordo con la presenza delle maggiori fazioni politiche palestinesi. Neanche stavolta e malgrado la presenza di Morsi al governo in Egitto, tale accordo vede la luce del giorno; segue nel 2012 l'incontro a Doha nel Qatar, anche questo come prevedibile senza avere un seguito. Queste le tappe principali, nel mezzo ci sono stati innumerevoli incontri tra i due gruppi, molte firme e dichiarazioni ma senza tradurre nulla sul terreno della pratica e/o realizzazione. Da qui nasce lo scetticismo dei palestinesi ed è forse per questo che non siamo propensi a crederci neanche noi. La vera riconciliazione dovrebbe portare a delle novità importanti in grado, in primis, di alleviare le sofferenze dei palestinesi. Una vera riconciliazione dovrebbe avere come punti cardine i cinque “articoli” del programma nazionale intatti, ovvero: • il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi; • il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese; • il diritto alla resistenza e lotta contro l'occupazione; • il diritto allo Stato sovrano ed indipendente con Gerusalemme capitale; • la liberazione di tutti i prigionieri politici palestinesi sequestrati dai sionisti. Cosa c'è di nuovo nel documento uscito dal tavolo di Gaza? In esso si parla di un governo provvisorio di tecnocrati che guidi la Palestina verso elezioni presidenziali, legislative e amministrative. Questo modo di ragionare è molto strano per la dirigenza di una lotta di liberazione schiacciata da una feroce occupazione e ci induce a pensare che ciò che la preoccupa è il governo ed il conseguente effimero potere che deriva dall'amministrazione del flusso di denaro da parte imperialista e da parte delle borghesie arabe collaborazioniste che investe la Palestina e che, invece di migliorare la vita dei palestinesi, è causa principale di regressione e degenerazione. Un flusso condizionato alle trattative compromissorie, un mezzo di pressione nei confronti dei palestinesi per costringerli alla capitolazione, quindi denaro che compromette la lotta e la resistenza. Sotto l'ombrello di questo flusso sono cresciuti la politica del malcostume e della corruzione, dei ricatti e dello sfruttamento. La cosa più grave è che è cresciuto il collaborazionismo attraverso il coordinamento tra gli apparati di polizia palestinesi e le forze di occupazione sioniste. Questa collaborazione è alla base degli arresti di tutti i resistenti in Cisgiordania e del duro colpo che ha subito la resistenza in questo territorio. I palestinesi non si preoccupano delle elezioni, né dei governi o dei presidenti. I palestinesi chiedono una dirigenza in grado di guidare la lotta, di proteggere la resistenza che è l’unico mezzo per arrivare alla liberazione, al ritorno di tutti i rifugiati. Chiedono la libertà per la quale si sono sacrificati nella loro lotta dal 1948 ad oggi. Cosa vuol dire dunque avere un unico governo? Come cambia la situazione politica palestinese? Finora il governo di Hamas ha cercato di legittimarsi a spese del governo di Ramallah. Il primo si è spacciato per il governo della resistenza e della lotta, mentre il secondo è il governo, come sappiamo, delle trattative e dei compromessi. Questo dualismo ha garantito, fino ad un certo punto, una certa invalicabile linea oltre la quale il governo di Ramallah non poteva e non potrà andare. Gaza in particolare ed il governo di Hamas hanno costituito una diga che in qualche misura ha frenato la veemenza delle aggressioni sioniste. Ora tutto questo rischia di essere compromesso nella soluzione del governo unico, dove le particelle o gli elementi, piccoli o grandi, potrebbero confondersi. Si creerebbe un monopolio costituito dai due gruppi egemoni capace di annullare le opposizioni e di tenere a bada i resistenti (d'altronde è già in atto sia in Cisgiordania che a Gaza). Purtroppo le forze egemoni continuano anche, o soprattutto, attraverso questa intesa a considerarsi uno Stato vero, sovrano ed indipendente. Facendo propria l'iniziativa araba di Beirut (diritto al ritorno negoziabile) essi cancellano di fatto il diritto al ritorno. Il processo di Oslo e le sue nefandezze Guardando la storia del popolo palestinese e della sua lotta, possiamo capire dove può, in ultima analisi, portare questo accordo e se sia veramente realistico riporvi delle speranze. Nel 1974 il movimento di liberazione nazionale palestinese vive uno dei suoi momenti più alti. Dopo la disfatta del “settembre nero” in Giordania, la resistenza palestinese si trasferisce in Libano dove costruisce uno stato dentro lo Stato libanese con sedi di rappresentanza politica, campi di addestramento militare, sedi di servizi di ogni genere. La resistenza palestinese è stata in grado di guadagnare la fiducia e l'appoggio della maggioranza dei libanesi. Un fatto importante avviene nell’aprile del 1974, alla sesta sessione del Consiglio Nazionale Palestinese, l’organo, tra virgolette, legislativo dell’OLP. In quella sessione, su suggerimento del Fronte Democratico per la liberazione della Palestina, gruppo guidato da Nayef Hawatmeh che si era scisso dal Fronte Popolare, viene inserita una delibera per cui l’OLP decide che l’obiettivo della lotta sarebbe stata la costituzione di uno Stato palestinese su qualsiasi parte del territorio che si fosse potuto liberare. Questo passaggio, che sul momento passa, come dire, quasi inosservato, è importante perché, mentre la carta costitutiva dell’OLP dice che gli obiettivi sono la liberazione della Palestina e la realizzazione del diritto all’autodeterminazione, da allora in poi resterà vuota retorica ricorrente nei discorsi dei capi dell’OLP: quando parleranno di fatti e di decisioni politiche diranno un’altra cosa, parleranno della possibilità della creazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio. Ma di quale territorio stiamo parlando? Dei territori occupati nel 1967, cioè di Cisgiordania e Gaza. E infatti la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza stabilisce che Israele deve evacuare questi territori e glissa sul resto. Da quel momento in poi l’OLP parlerà di “costituzione dello Stato”, non parlerà più di liberazione. Questo passaggio acquisterà il senso non solo della rinuncia al territorio e al diritto al ritorno, significherà anche il venir meno del principio di liberazione inteso come diritto all’autodeterminazione che, nel conflitto contro il regime sionista, si esplica storicamente nella rivendicazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese - inteso come comunità nazionale - e concretizzati nel loro riferirsi ad ogni profugo ed esule sparso per il mondo. Si passa dalla liberazione intesa come autodeterminazione del popolo nella propria terra alla “liberazione” di una parte di terra per l'esercizio di un certo potere: un concetto che rispecchia perfettamente gli interessi della burocrazia-borghesia palestinese e si contrappone a quelli delle masse popolari palestinesi. Nel 1975 Arafat vuole sorprendere il mondo recandosi all’ONU dove fa uno dei suoi discorsi capitolazionisti sposando la soluzione “due stati due popoli”. È un'iniziativa gratuita che rappresenta l'inizio del tramonto. 1988: in piena Intifada Arafat e il suo orticello si riuniscono ad Algeri e dichiarano lo Stato Palestinese indipendente. Questo passo viene intrapreso per scavalcare l'onda emotiva e di simpatia mondiale che si è creata, per alcuni rafforzata, nei confronti del grande popolo palestinese che a mani nude affronta e si scontra con uno degli eserciti più armati e più feroci del mondo. Il fatto che a dirigere l'Intifada siano i giovani dei comitati popolari non va bene per il vertice della dirigenza politica nella diaspora, tutto deve passare tra le mani e le tasche di questi dirigenti. 1991: conferenza di Madrid, concepita per due motivi: 1. Rompere il fronte del rifiuto e costringere la Siria a stipulare accordi di pace con l'entità sionista. Questo di fatto provoca un effetto domino con gli Stati arabi che seguono a ruota. I palestinesi si son visti molto indeboliti ed isolati, costretti a rinunce dolorose fino alla capitolazione. 2. Questa conferenza viene usata come copertura per una trattativa tenuta in gran segreto in Norvegia ad Oslo. Il ridicolo a cui viene sottoposta la delegazione palestinese a Madrid è eloquente. Abdel Shafi, capo delegazione, lo denuncia apertamente. Per arrivare alla conferenza di Madrid c'è un lungo braccio di ferro che indebolisce ancora di più le posizioni dell’OLP: in un primo tempo non si vogliono ammettere negoziatori palestinesi, Israele lo permette in un secondo tempo ma impone che siano compresi all’interno della delegazione giordana e con la successiva pretesa di poter scegliere i delegati, o meglio che avessero il benestare sionista. Tutto questo per dire che il processo negoziale si svolge tra due parti delle quali una è vincente, e non solo militarmente, e l’altra perdente. Il negoziato non può quindi che portare a un tipo di accordo che il diritto definisce ‘leonino’: è sempre il leone che mangia la sua preda. E ancora, mentre il negoziato inizia e subito si chiude a Madrid, se ne apre un altro a Washington tra una delegazione palestinese e una israeliana: è il tentativo di frammentare il fronte nemico, ossia isolare la delegazione palestinese avviando trattative bilaterali. Comunque, nonostante gli israeliani tentino con la copertura degli Stati Uniti di tenere segreto il negoziato in modo da arrivare agli accordi attraverso ricatti e pressioni, i negoziatori palestinesi andati a Washington, guidati da un noto medico di Gaza, Haidar Abdel-Shafi, riferiscono ai giornali, e quindi all’opinione pubblica, i contenuti della discussione in corso. 1993: ad Oslo vengono raggiunti gli accordi definiti appunto l'accordo di Oslo. Sono una serie di dichiarazioni di principi che ci portano poi agli accordi successivi di Camp David, Taba Parigi, ecc… Questi accordi portano alla istituzione della famigerata ANP, ovvero Amministrazione Nazionale Palestinese. Una specie di autogoverno amministrativo dei territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. La dirigenza borghese palestinese riconosce la legittimità di Israele ad esistere, in cambio ottiene il riconoscimento dell’OLP quale unico e legittimo rappresentante palestinese. Misero accordo e scambio, considerando che tale riconoscimento avvenne in sede ONU già nel famoso 1975 (quindi un riconoscimento mondiale). Arafat mantiene nelle sue mani sia la dirigenza dell'Olp sia quella dell'Anp. Il centro della politica viene trasferito tutto all'Anp annullando e distruggendo di fatto l'OLP, l'unica istituzione che rappresenta tutti i palestinesi e con una legittimità mondiale. Da allora la sorte politica dei palestinesi è legata mani e piedi all’andamento delle trattative le quali sappiamo come sono andate, con quali esiti ed a quale prezzo. Abbas dichiara ora di voler continuare con il suo disastro di prima, il percorso delle trattative. Egli ritiene che facendo rincasare Hamas tragga forza nelle trattative rompendo il suo isolamento. Questo fatto ci induce a credere che il partito di Oslo e di Camp David pensa solo all'uso temporaneo della riconciliazione, per tornare a scaricare Hamas e tutti i palestinesi appena raggiunto lo scopo. Invece è proprio da queste ultime righe che occorre partire nella riconciliazione, restituire l'OLP ai palestinesi, una OLP rinnovata, ringiovanita e rinvigorita. Una OLP che funzioni al meglio, con un'amministrazione popolare del territorio e non una ANP collaborazionista. Non c'è bisogno di ministri e ministeri, ma di comitati e commissioni, di rifondare uno “stato” come quello precedente all'aggressione sionista in Libano nel 1982 con una maggior partecipazione dei gruppi della resistenza, politici e sociali palestinesi, una partecipazione diffusa che solo una lotta di liberazione è in grado di mettere in campo. Ben venga la destabilizzazione del cosiddetto processo di pace tra il capitolazionista Abbas e il genocida Netanyahu, è evidente che il popolo palestinese ha bisogno di unità nella lotta, non unità nel potere, a gestire le briciole dell'occupazione. Fronte Palestina
Per approfondimenti sui documenti relativi ai passati tentativi di riconciliazione si può far riferimento al seguente dossier:
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