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02/07 /14

Dal rapimento al collasso: l’inizio della fine?
di Jeff Halper
Traduzione di Amedeo Rossi

Alla fine, l’insostenibilità dell'imprigionamento [warehousing] dei palestinesi forzerà la mano della comunità internazionale [ad intervenire]. Il governo israeliano, così forte da non sapere quando fermarsi, ci porterà a quel risultato.

Il rapimento e l’uccisione dei tre giovani israeliani in Cisgiordania ha scatenato un’operazione militare che segna la fine dell’occupazione israeliana. Il termine “occupazione” indica una situazione militare a termine che si risolve solo attraverso negoziati. Se vale anche in questo caso, allora se ne dedurrebbe che l’occupazione israeliana in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza (per non parlare delle alture del Golan) è durata solo un decennio, durante il tentennante governo del Partito Laburista.

Dal 1977, quando il governo Begin/Sharon ha annunciato che “Giudea e Samaria” sarebbero state considerate parte integrante della Terra/Stato di Israele, quando ha formalmente annesso Gerusalemme est e le alture del Golan ed ha iniziato la campagna di sistematica distruzione di ogni soluzione dei due Stati attraverso la massiccia costruzione di colonie, “occupazione” ha dato luogo a qualcosa di diverso. In effetti, Israele ha negato che si sia mai trattato di un’occupazione - questo “qualcos’altro” nel gergo israeliano era semplicemente l’”amministrazione” di un territorio “conteso”.

Quindi la Quarta Convenzione di Ginevra non è stata applicata, Israele non ha violato nessuna legge internazionale che impedisce alle forze d’occupazione di cambiare unilateralmente lo status dei Territori occupati e i palestinesi, definiti come popolazione protetta della cui prosperità Israele è responsabile, sono stati lasciati senza protezione. Anzi, dopo la morte di Arafat nel 2004, se non da prima, Israele ha inaugurato un’altra variante dell’occupazione: giungere all’occupazione israelo-palestinese radicata in una milizia dell’Autorità palestinese addestrata dagli americani che agisce come un poliziotto israeliano.

E così è con l’uccisione dei tre [ragazzi israeliani] che stiamo per entrare in un’ulteriore nuova e terribile fase della post-occupazione, L'imprigionamento, un passo oltre l’apartheid. Dopo che la loro terra è stata espropriata ed il 96% dei palestinesi sono stati confinati in dozzine di sottili enclaves su meno del 40% dei Territori occupati – cioè, sul 40% del 22% della loro terra natale – oltre 30.000 delle loro case sono state demolite e un’intera popolazione è stata ridotta alla povertà, e a Gaza le condizioni rasentano l’inedia, dopo che i negoziati sono definitivamente finiti e gli insediamenti [dei coloni] hanno raggiunto una proporzione critica ed irreversibile, la l'imprigionamento  sta per iniziare.  La buona notizia è che per quanto violenta ed opprimente la campagna di Israele di reclusione possa verosimilmente essere (benché una forte pressione internazionale possa prevenirne gli aspetti peggiori), questo porterà in breve al completo collasso del controllo israeliano e, se saremo pronti con un’alternativa includente, aprirà la strada a nuove possibilità di una pace giusta oggi non ottenibile.

Il termine “warehousing” [imprigionamento], viene dal mondo delle prigioni americane. Gli Usa hanno il 4,4% della popolazione mondiale ed il 25% dei carcerati [del pianeta]. Sono carcerati, sotto tutela dello Stato, il cui status è cristallizzato e che sono, a tutti gli effetti, scomparsi. Nessuno si interessa di quello che gli succede (la riforma delle carceri non ti fa eleggere al Congresso), e i loro diritti sono rispettati solo a parole. E quando si rivoltano – perché noi usiamo un linguaggio non politico per descrivere il comportamento di questi persone di serie B – le guardie carcerarie hanno il diritto e dovere di reprimerli in qualunque modo. Non si negozia. Non sono una controparte, sono sottoposti al potere altrui, ad essere “ammassati al chiuso”, per sempre, se dimostrano di essere insubordinati.

Questo [termine] descrive precisamente il modo in cui Israele vede i palestinesi. Non ha mai riconosciuto l’esistenza del popolo palestinese o dei suoi diritti nazionali di autodeterminazione, e persino nei più radiosi giorni degli accordi di Oslo ha solo riconosciuto l’OLP come un partner per i negoziati. Israele non ha mai dichiarato ufficialmente la sua accettazione della soluzione dei due Stati, sicuramente non una che richiedesse di ritirarsi sulla Linea Verde. Non considerandoli una controparte reale ed uguale con cui negoziare, [Israele] ha solo fatto “offerte generose” da prendere o lasciare. Quindi, dai giorni di Ehud Barak Israele ha dichiarato che non c’è un “partner per la pace”, intendendo che le sue decisioni politiche sono prese in modo unilaterale.

Una volta sepolta per sempre sotto il blocco degli insediamenti colonici la soluzione dei due Stati, Israele sta lavorando di ramazza: le celle della prigione dell’Area A e B sono state preparate, e adesso le autorità della prigione devono trasmettere ai prigionieri la realtà e la mancanza di speranza della loro situazione. Sottomettiti e sopravviverai; resisti e morirai. Questo è proprio il messaggio dell’operazione “Custode del fratello” [Brother’s Keeper], che era semplicemente in attesa di un pretesto, fornito dal rapimento.

Tuttavia coloro che sono senza potere hanno uno strumento efficace a loro disposizione. Possono dire “no”. L’Autorità Nazionale Palestinese sta per diventare un potere d’occupazione a pieno titolo. L’occupazione di Ramallah da parte di Israele in quest’ultima operazione [militare] è avvenuta con l’attiva collaborazione delle forze di sicurezza palestinesi, e spesso i palestinesi dicono di vivere sotto una doppia occupazione. Sia che dia le dimissioni o semplicemente collassi sotto il peso della propria mancanza di credibilità, è difficile vedere come l’ANP possa sopravvivere all’umiliazione e anche al ruolo formale di collaborazionista obbligato a ciò da Israele, cosa che diventerà se rimarrà al potere senza un processo politico che abbia senso.

E’ qui che il collasso interviene – e la risoluzione finale del conflitto. Senza l’ANP a perpetuare la finzione delle due parti impegnate in un negoziato, Israele annetterà la maggior parte degli insediamenti colonici, metà della Cisgiordania, ma sarà alla fine obbligato a rioccupare le città palestinesi e Gaza. (Avigdor Liberman, Ministro degli Esteri [israeliano] ha insistito per la conquista di Gaza fin dall’inizio del rapimento). O viceversa, questo non importa. Quello che alla fine ci rimarrà è una reclusione di lunga durata, il nudo e crudo imprigionamento di un intero popolo. Israele pensa che sia una cosa positiva. Pensa di poter imprigionare una popolazione e di riuscire a farla franca. Può “vincere”. Tale è la sua fede nella protezione garantita dal Congresso americano e dalla sua utilità come uno dei maggiori fornitori di armi e sicurezza al mondo.

Ma è qui che Israele legge male la situazione politica. Se dipendesse solamente dai governi, Israele potrebbe certamente prevalere, perché questi si occupano solo di gestire i conflitti, invece di risolverli. Ma la questione palestinese ha assunto le proporzioni della lotta contro l’apartheid. E come in quella lotta, la società civile internazionale, composta da gruppi politici e da attivisti, organizzazioni dei diritti umani, sindacati, chiese, studenti, intellettuali e da una sempre più critica opinione pubblica è diventata più forte, fino al punto che i governi non possono più ignorarla. Il conflitto israelo-palestinese non è solo una disputa locale; è diventato un conflitto globale che disgrega e destabilizza l’intero sistema internazionale, in particolare l’infiammabile Medio Oriente. Alla fine, l’insostenibilità dell'imprigionamento dei palestinesi forzerà la mano della comunità internazionale [ad intervenire].

Se ciò succederà in un futuro non molto lontano, emergerà la possibilità di una soluzione realmente giusta del conflitto, offrendo alternative oggi non attuabili– in primo luogo  la fattibilità di un unico Stato democratico bi-nazionale . Il governo israeliano, così forte da non sapere quando fermarsi, ci porterà a quel punto. Ciononostante non sarà un partner per raggiungere una pace giusta. Alla fine spetterà a noi, il popolo, formulare una soluzione giusta, e renderla effettiva. Il momento è venuto. Il problema è: saremo pronti a coglierlo?

Jeff Halper è il direttore del Comitato Israeliano contro la Demolizione delle case.

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