Originale: Aljazeera
Il conflitto tra Israele e Palestina: una svolta nel modo di pensare dell’Occidente?
Sebbene i discorsi all’ONU (il 26 settembre scorso, n.d.t.) siano raramente indicatori delle realtà politiche, le esposizioni fatte da Mahmoud Abbas a nome dell’Autorità Palestinese, e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e da Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele, contenevano degli elementi degni di essere notati. Questi discorsi sono arrivati mentre il conflitto entra in un’altra fase ancora, evidenziata dal recente feroce attacco contro Gaza che è durato per 50 giorni, ma anche da alcuni fondamentali sviluppi che hanno preparato il terreno per l’Operazione Margine Protettivo. E’ una specie di indicatore della visione globale del conflitto il fatto che quando Abbas ha parlato abbia ricevuto un applauso fragoroso, mentre Netanyahu si è rivolto a una Camera dell’ONU semivuota. Soprattutto l’indicazione crescente che la dirigenza israeliana crede che possa imporre una soluzione unilaterale incorporando tutta o la maggior parte della Cisgiordania dentro Israele, e anche attuando ulteriormente le politiche di pulizia etnica a Gerusalemme Est. Data la situazione, non c’è alcuna ulteriore necessità di impegnarsi nelle farse iniziate dall’processo di pace di Oslo nel 1993. Questa fase sembra finita, essendo stata utile alle mire espansionistiche di Israele e dannose a coloro che dalla parte palestinese che erano pronti già nel 1988 ad accontentarsi di uno stato sovrano entro i confini del 1967, cioè il presunto consenso internazionale sul modo di porre fine al conflitto. L’ultimo tentativo di impegnarsi nella diplomazia di Oslo è stato messo in atto con le maniere forti dal Segretario di Stato americano, John Kerry. L’ansia di Netanyahu Anche il contesto regionale ha indotto a fare alcune manovre politiche nuove che sono diventate evidenti durante l’assalto israeliano a Gaza, e averlo riconosciuto è stata l’unica caratteristica innovativa del discorso di Netanyahu all’ONU. Lo sviluppo negativo, secondo la prospettiva di Netanyahu, è stata la sua ansia che la pressione sull’Iran si sarebbe allentata nel contesto di un accordo circa il programma nucleare iraniano che aveva acquisito una rilevanza politica aggiuntiva in connessione con il tentativo di Washington di mettere insieme rapidamente la coalizione più forte possibile per combattere l’ISIL. Questa svolta del modo di pensare dell’Occidente ha chiaramente dato fastidio a Netanyahu che ha insistito che la faccia più moderata del governo iraniano fino dall’elezione di Rouhani a presidente nel 2013, è stata un’illusione promossa dai tentativi di pubbliche relazioni di Teheran. Nel suo discorso Netanyahu ha richiamato l’attenzione sui cambiamenti regionali nel mondo arabo verso un riconoscimento degli “interessi condivisi” con Israele nella sconfitta dell’Islam militante in tutte le sue manifestazioni, che naturalmente includono Hamas identificato da Netanyahu come un ramo dello stesso “albero velenoso dell’ISIL”. Ciò che è diventato evidente in anni recenti è che l’ Arabia Saudita, e alcuni dei paesi del Golfo, sono di gran lunga più minacciate dall’Islam politico che aspira al potere con mezzi democratici e sulla base della sua forza popolare, di quanto lo sia dal dominio militare di Israele nella regione o anche dalla sua aspra rivalità settaria con l’Iran sciita in tutta la regione. Questa priorità del Golfo è stata chiaramente espressa dal fatto di aver sostenuto il colpo di stato militare in Egitto malgrado i massacri perpetrati contro i seguaci musulmani sunniti della Fratellanza Musulmana, dopo che era stato rovesciato il governo guidato da Morsi. Il nuovo sorprendente allineamento è stato chiaramente mostrato durante Margine Protettivo. Adesione della Palestina all’ONU? Parlando a nome della Palestina, Mahmoud Abbas ha espresso una diverso punto di vista della situazione. Ha dato molto risalto alla misura in cui il processo intensivo di insediamento aveva distrutto qualsiasi prospettiva di risolvere il conflitto attraverso la diplomazia. Sembrava che Abbas finalmente riconoscesse quello che era stato da lungo tempo evidente a molti palestinesi, cioè che partecipare al processo di pace di Washington faceva soprattutto da facilitatore dei piani di costruzione degli insediamenti ed era contrario agli interessi della Palestina. Non ha ripudiato del tutto l’approccio di Oslo ma ha insistito che i negoziati diretti potevano essere ripresi soltanto se Israele metteva fine senza condizioni a ulteriori espansioni degli insediamenti. La diplomazia di Abbas si muoveva in altre direzioni: ha sottoposto un’istanza formale al Segretario Generale da inoltrare al Consiglio di sicurezza per un’azione riguardo alla richiesta della Palestina di ingresso a pieno titolo nell’organizzazione e la fine dell’occupazione israeliana fra tre anni. Questa mossa indubbiamente irrita Washington dato che potrebbe costringere gli Stati Uniti a usare il loro veto, a meno che la loro pressione diplomatica possa evitare nove voti affermativi a favore della risoluzione. Più importante di questa richiesta per l’ingresso nell’ONU, è stata la disponibilità di Abbas di associare la lotta nazionale palestinese con un discorso amplificato di denuncia. Per la prima volta Abbas ha sollevato lo spettro del genocidio: Israele è stata accusata di una “nuova guerra genocida perpetrata contro il popolo palestinese”. E facendo questo, ha affermato il diritto palestinese dell’opposizione contro l’occupazione di Israele. Ciò che in questo caso potrebbe essere la cosa più significativa, è che la struttura formale dell’autorità che rappresenta il popolo palestinese sullo scenario mondiale sembrava essere in temporanea sintonia con gli attivisti pro-Palestina della società civile in tutto il mondo. Per esempio, il Tribunale Russell (TR) durante una Sessione Straordinaria tenutasi a Bruxelles il 24 settembre, si è focalizzato sulle accuse di genocidio dirette contro Israele in rapporto a Protective Edge. Il TR ha trovato Israele colpevole del crimine diverso di “incitamento al genocidio” secondo la Convenzione sul Genocidio, del 1948, e anche di crimini aggravati contro l’umanità. La testimonianza a Bruxelles stabiliva forti prove circostanziali dell’intento omicida da parte di Israele. Ciononostante, questa prova non è riuscita a convincere la giuria che i capi di Israele avessero l’intento specifico richiesto per dimostrare il crimine di genocidio. E adesso? Che il genocidio sia entrato nei discorsi del movimento palestinese, è uno sviluppo coraggioso che era una reazione replica alla devastazione della società civile palestinese durante questo terzo massacro orchestrato da Israele e compiuto contro la gente di Gaza negli scorsi 6 anni. Non si tratta soltanto del fatto che più del 70% delle vittime palestinesi fossero civili. E’ necessario che venga compreso che l’intera popolazione di Gaza è stata rinchiusa nella zona dei combattimenti durante il violento attacco durato 50 giorni, che ha dato luogo a una condizione collettiva di trauma. Alla popolazione civile è stata negata la possibilità di scappare dalla zona di guerra attraversando il confine per diventare profughi, cosa di solito rappresenta la scelta dell’ultima disperata risorsa in conflitti di questo tipo. Come è attualmente palese in Siria e in Iraq, diecine di migliaia di persone hanno cercato rifugio lasciando il paese. E’ questa più che minima forma di assistenza umanitaria che è stata negata a tutti gli abitanti di Gaza fin dalla metà del 2007, quando Hamas ha cominciato a governare. Questi discorsi tenuti all’ONU, notevoli per varie ragioni, hanno evitato di citare lo sviluppo più drammatico: la nuova fase del conflitto. Israele si sta ora muovendo palesemente verso la soluzione di un solo stato che comporterà l’inserimento della Cisgiordania e il consolidamento del controllo a Gerusalemme Est. La Palestina sta continuando il suo progetto di costruzione di uno stato in Cisgiordania, abbinato alla consapevolezza che l’energia politica del suo movimento nazionale è andata verso un insieme di attivismo da società civile e di resistenza ed opposizione da parte di Hamas. Se questa nuova fase porterà i due popoli un po’ più vicino a una pace sostenibile insieme alla giustizia, sembra altamente improbabile. Richard Falk è Professore Emerito di Legge internazionale della cattedra intitolata ad Albert G. Milbank all’Università di Princeton e Research Fellow al Centro Orfalea di Studi globali . E’ anche ex relatore speciale dell’ONU per i diritti umani dei palestinesi. Da: Z Net Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: http://zcomm.org/znet/article/israel-palestine-conflict-a-turn-in-western-thinking
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