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Le restrizioni israeliane sul movimento strangolano la vita palestinese "La mia patria non è una valigia e io non sono un viaggiatore" ha scritto il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Ma per molti palestinesi che vivono nella patria assediata, il diritto di circolazione garantito dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo (articolo 13) è solo inchiostro su carta. Ho incontrato la settimana scorsa a Beirut una donna palestinese di Gaza che aveva trascorso quattro giorni intrappolata in un seminterrato dell’aeroporto de Il Cairo insieme a decine di altri, in attesa di un visto. Il suo calvario è iniziato quando ha cercato di uscire da Gaza. Hamas, che controlla il valico di frontiera con l'Egitto, assegna ad ogni persona un particolare giorno per viaggiare, di solito un paio di settimane dopo la richiesta. Dal momento che non si sa esattamente quando sia quel giorno, spesso è difficile organizzarsi la vita. Meral (non è il suo vero nome) è stata invitato ad una conferenza stampa a Beirut il cui sponsor aveva richiesto un visto per lei, che non era datato lo stesso giorno in cui lei avrebbe potuto viaggiare. Avendo viaggiato molte volte prima e di solito senza problemi in Egitto, ha deciso di correre il rischio, perché se non utilizzava il giorno assegnatole, avrebbe perso la conferenza. Le autorità egiziane, secondo lei, hanno reso molto più difficile viaggiare, da quando Fatah e Hamas hanno creato il governo di unità nazionale. Le donne, per esempio, erano ammesse in Egitto liberamente, ma questa volta a Meral non era consentito. Il fatto che lei fosse sposata con un giornalista turco ha reso gli egiziani ancora più determinati a non lasciarla andare, semplicemente perché il Cairo e Ankara non si vedono di buon occhio in questi giorni. Alla fine hanno permesso a Meral di viaggiare con una procedura denominata Tarheel (espulsione), in base alla quale i viaggiatori in transito vengono trascinati in un bus di sicurezza custoditi in una stanza senza finestre all'aeroporto internazionale del Cairo, dove vengono tenuti fino a che non possono produrre un visto valido e un biglietto. I passaporti vengono trattenuti dalla sicurezza fino a quando il passeggero "deportato" raggiunge lo scalo aereo. Alla sorella di Meral è stato concesso un permesso di 72 ore, con libertà di movimento in Egitto, perché aveva un appuntamento presso l'ambasciata degli Stati Uniti. A quanto pare dove la destinazione determina il permesso di spostarasi in libertà o di venire "deportati" al seminterrato dell’aeroporto. Ci sono voluti quattro giorni a Meral, prima di ottenere il visto ed essere in grado di viaggiare a Beirut. In tempi diversi, lei sostiene che i funzionari della sicurezza facevano capire che potevano aiutarla se avesse pagato una tangente. Ha sentito da altri passeggeri che tangenti di questa natura sono di centinaia di dollari. Tangenti più piccole erano necessarie per garantire cibo, Sim card, e altre necessità di base in attesa del visto. I problemi di Meral non sono univoci. Quasi ogni palestinese deve affrontare un qualche tipo di discriminazione. Se si vive a Gerusalemme Est non si può entrare in Giordania via terra, tranne attraverso il King Hussein Bridge, dove si deve pagare la tassa di 230 shekel (circa 70 dollari) alle autorità israeliane, oltre alla tassa di uscita di 180 shekel (55 dollari). La Giordania, che non considera quel ponte una frontiera internazionale, non permette ai palestinesi di usare il Sheikh Hussein Bridge. A Gerusalemme Est gli israeliani danno ai palestinesi un permesso di viaggio chiamato laissez-passer, ma tale documento di viaggio non si rinnova se non si può dimostrare che il centro della propria vita è a Gerusalemme. Se uno vive fuori città per un periodo di tempo prolungato, si perde il diritto a quel permesso, anche se si è nati a Gerusalemme. Viaggiare dentro e fuori Gerusalemme è molto più restrittivo se uno è un palestinese di Gerusalemme, a differenza dei coloni ebrei che hanno strade alternative e procedure molto più facile ai posti di blocco. Mi è stato detto che se uno ha un passaporto straniero con un timbro israeliano, gli è consentito entrare, solo se la persona non è di origine palestinese. Quindi, anche se uno ha un passaporto europeo o americano, essendo nato a Gerusalemme gli viene impedito automaticamente di ottenere il visto in aeroporto, mentre altri cittadini di uno stesso paese possono ottenere il visto, anche se hanno un timbro israeliano sul passaporto. I guai di viaggio che affrontano i palestinesi, in particolare quelli di Gaza, sono apparentemente una grande motivazione per i tentativi di emigrazione, legale o illegale, verso l’Europa o qualsiasi altro paese occidentale, i cui passaporti sono molto più rispettati dei passaporti palestinesi o arabi. La frustrazione di non essere in grado di viaggiare liberamente e cercare opportunità altrove è apparentemente una forte motivazione per unirsi a gruppi radicali. Quando i funzionari palestinesi si incontreranno indirettamente, questa settimana, con gli israeliani sotto la supervisione egiziana, la questione dell'aeroporto sarà discussa. Mentre alcuni sostengono che gli israeliani permetteranno la riapertura dell'aeroporto internazionale di Gaza, ci sono ampie prove che la questione della libertà di movimento non è la domanda da una sola fazione palestinese, ma un requisito essenziale per la vita di tutti i palestinesi. Il desiderio di Darwish, tradotto in versi, di tornare in patria. Per i palestinesi che vivono nella loro patria occupata, la libertà di movimento è una priorità assoluta. La questione non può più essere spinta sotto il tappeto. http://www.maannews.net Analysis: Israeli restrictions on movement strangle Palestinian life Daoud Kuttab is a Palestinian journalist and former professor of journalism at Princeton University. "My homeland is not a suitcase and I am not a traveler," wrote Palestinian poet Mahmoud Darwish. But for many Palestinians living in the besieged homeland, the right to movement guaranteed in the University Declaration of Human Rights (Article 13) is just ink on paper. I met last week in Beirut a Palestinian woman from Gaza who had spent four days trapped in a Cairo airport basement along with tens of others awaiting a visa. Her ordeal began when she tried to exit Gaza. Hamas, which controls the border crossing with Egypt, assigns a person a particular day (usually a couple of weeks after applying) to travel. Since one does not know exactly when that day is, it is often hard to calibrate one's life. Meral (not her real name) was invited to a media conference in Beirut whose sponsors had applied for a visa for her, which had not come on the day she was told she could travel. Having traveled many times before and usually been allowed into Egypt, she decided to take the risk because if she did not use her allotted day, she would have missed the conference. The Egyptian authorities, according to her, made travel much more difficult since Fatah and Hamas created the unity government. Women, for example, used to be allowed into Egypt freely; this time, Meral was not allowed. The fact that she is married to a Turkish journalist made the Egyptians even more determined not to let her go, simply because Cairo and Ankara are not seeing eye to eye politically these days. Eventually Meral was allowed to travel on a procedure referred to as tarheel (deportation), whereby transit travelers are hauled in a security-guarded bus to a windowless room at the Cairo International Airport and are kept there until they can produce a valid visa and a ticket. Passports are kept with the security until the "deported" passenger reaches the plane staircase. Meral's sister was allowed 72-hour freedom of movement in Egypt because she had an appointment at the US embassy. Apparently where one is going determines whether one is allowed in freely or "deported" to the airport basement. It took Meral four days before she got her visa and was able to travel to Beirut. At different times, she claims security officials hinted they could help her if she paid a bribe. Bribes of this nature are in the hundreds of dollars, she learned from other passengers. Smaller bribes were necessary to secure food, phone sim cards, and other basic needs while awaiting the visa. Meral's problems are not unique. Almost every Palestinian faces some kind of discrimination. If one lives in East Jerusalem one cannot enter Jordan by land except over the King Hussein Bridge, where one must pay the permit fee of 230 shekels (about $70) to Israeli authorities, in addition to the exit tax of 180 shekels ($55). Jordan, which does not consider the bridge an international border, does not allow Palestinians to use the Sheikh Hussein Bridge. The Israelis give Palestinians in East Jerusalem a travel permit called laissez-passer, but that travel document is not renewed if one cannot prove that the "center" of one's life is Jerusalem. If one lives outside the city for an extended period of time, one loses one's right to it even if born in it. Travel in and out of Jerusalem is much more restrictive if one is a Palestinian Jerusalemite, unlike Jewish settlers who have alternative roads and much easier procedures at checkpoints. I was told that if one has a foreign passport with an Israeli stamp, one is allowed in as long as the person is not of Palestinian origin. So even if one has a European or American passport, being born in Jerusalem automatically bars one from obtaining a visa at the airport, while other citizens from the same country can get a visa even if they have an Israeli stamp on their passports. The travel troubles facing Palestinians, especially those of Gaza, are apparently a major motivation for attempts to emigrate (legally or illegally) to Europe or any other Western country whose passports are much more respected than Palestinian or Arab passports. Frustration about not being able to travel freely and seek opportunities elsewhere is apparently a strong motivator for joining radical groups. When Palestinian officials meet this week indirectly with the Israelis under Egyptian supervision, the issue of the airport will be discussed. While few hold hope that the Israelis will allow the reopening of the Gaza International Airport, there is ample evidence that the issue of freedom of movement is not a demand by one single Palestinian faction, but a requirement for a sane life by all Palestinians. Darwish's desire to return to his homeland produced verses. To Palestinians living in the occupied homeland, the freedom of movement is a top priority. The issue cannot be shoved under the carpet anymore.
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