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1/4/2014

I cristiani e le promesse illusorie dell’integrazione israeliana
di Rifat Odeh Kassis
Traduzione di Patrizia Stellato

In condizioni di oppressione, coloro che subiscono soprusi reagiscono diversamente: alcuni indirizzano la propria rabbia nei confronti degli oppressori, altri, invece, riversano la propria frustrazione sui loro pari.

I secondi cercano di cancellare il proprio passato, sperando in una vita futura migliore, in una nuova realtà, e spesso, col tempo, diventano più intolleranti dei propri vicini più fanatici.

Tuttavia, la storia ci insegna che queste aspettative non migliorano mai davvero la loro condizione in quanto gli oppressori continueranno a vederli come stranieri o, nella migliore delle ipotesi, come una quinta colonna, ossia un gruppo da utilizzare per sabotare il loro stesso paese senza nemmeno guadagnarsi il rispetto di chi si mette al loro servizio.

Il 24 febbraio di quest’anno, la Knesset israeliana ha approvato un progetto di legge che prevede una distinzione giuridica tra cristiani e musulmani, categorizzando i cristiani come non-arabi. Israele tenta attivamente di far dimenticare ai Palestinesi di avere una storia, una comunità e una lotta in comune attraverso una legislazione rivolta sempre più alla realizzazione di quest’obiettivo.

I media internazionali, purtroppo, hanno contribuito a questo processo fornendo una visione semplicistica, prevenuta e, talvolta, del tutto falsa delle problematiche affrontate dai cristiani palestinesi in merito alla cittadinanza israeliana.

L’articolo di Michele Chabin, dal titolo “Cristiani israeliani cercano l’integrazione, incluso il servizio militare”, pubblicato il 14 marzo 2014 su USA Today, offre un buon esempio di questa visione. L’articolo si focalizza sulla decisione presa da alcuni cristiani di partecipare ad attività gestite dallo Stato d’Israele, sulle diverse risposte pubbliche in merito nonché sul reclutamento diretto di cristiani eseguito dal governo israeliano per l’esercito e per altri corpi militari.

Mi sono soffermato brevemente su tre punti, ognuno dei quali rappresenta una menzogna, un travisamento, un fraintendimento o una riduzione. Ciascun punto illustra argomenti non analizzati nell’articolo di Chabin, che vanno discussi al fine di capire a fondo la realtà dei cristiani in Israele e in Palestina.

Il primo termine su cui mi sono soffermato, cioè l’integrazione, appare nel titolo: “I cristiani israeliani cercano l’integrazione…”. L’uso di questa parola mi fa pensare ai numerosi emigrati verso l’Europa che tentano di spiegarsi la loro marginalizzazione all’interno dei nuovi contesti sociali, spesso auto-accusandosi; essi, però, non si rendono conto delle politiche e degli atteggiamenti attuati per impedire loro di diventare parte integrante della società.

Nel caso d’Israele, alcuni cristiani non si accorgono dell’esistenza di politiche, leggi e pratiche discriminatorie contro i cittadini non ebrei. A tal proposito, è fondamentale ricordare la principale contraddizione dello stesso Stato d’Israele che si autodefinisce sia democrazia sia nazione ebraica e il suo desiderio di rappresentare un modello di ideali democratici e contemporaneamente di mantenere una maggioranza ebraica.

Spesso le vittime di questa sistematica discriminazione, nei paesi ospitanti, votano per i partiti di estrema destra, pensando, sia consapevolmente che non, che diventare membri dell’estrema destra garantirà loro l’integrazione desiderata. In altre parole, essi provano a diventare “più cattolici del Papa”.

Ciò li aiuterà? Certamente no: rimarranno, agli occhi della maggioranza, degli “outsider”, degli individui indesiderati, gli “altri” che l’ala destra vuole escludere. Di questo stesso destino soffrono i cittadini non-ebrei nello Stato d’Israele, nonostante essi non siano immigrati (le loro famiglie, infatti, hanno vissuto lì per generazioni e generazioni), e vano resta il loro tentativo di provare il contrario.

Il secondo punto che mi ha colpito è la citazione di un cristiano palestinese che ha prestato servizio per l’esercito israeliano nella città di Hebron—lo chiamerò “la vittima”, poiché ha subito dei danni dal sistema che da un lato lo marginalizzava, ma, dall’altro, lo ha indottrinato a guadagnarsi l’accettazione. Questa vittima andrebbe associata ad altre, come i refusenik (giovani cittadini israeliani ebrei che rifiutano di svolgere il servizio di leva), i quali considerano, ad esempio, i coloni ebrei residenti a Hebron la principale minaccia allo Stato d’Israele.

Questi coloni pretendono di vivere nel cuore della comunità palestinese, privando i palestinesi di acqua, dell’utilizzo delle strade, dell’accesso a scuole, ospedali e luoghi di culto, proibendo loro di vivere una vita normale in molti altri modi e, spesso, aggredendoli fisicamente.

Essi sostengono che tutte queste pratiche contribuiscono alla sicurezza d’Israele, ritenendo tutti i non-ebrei degli “outsider” da far uscire dal “proprio” paese. Il massacro della Moschea al-Ibrahim, perpetrato nel 1994 dall’israeliano di origine americana Baruch Goldstein, è solo un esempio di questa mentalità.

La scelta della “vittima” di “essere al servizio” dei coloni di Hebron, proteggendoli nei loro enclavi, non cambierà l’opinione che questi ultimi hanno nei suoi confronti. Inoltre, la decisione di Israele di assegnare a questa e ad altre vittime una posizione militare a Hebron è significativa. Israele non li ha inviati ai confini, o a Betlemme o Ramallah, dove sarebbero stati a contatto con i loro fratelli e sorelle palestinesi cristiani residenti in queste città, fermandoli ai posti di blocco, umiliandoli ai blocchi stradali, arrestando i loro figli nel cuore della notte.

Questo contatto avrebbe potuto risvegliare nella “vittima” sentimenti importanti e scomodi: confusione, senso di attaccamento verso persone che deve opprimere.

Israele non vuole che questo accada: l’idea è quella di rompere quei possibili legami, di frammentare le comunità, di reprimere complicità e solidarietà, sentimenti che potrebbero sorgere tra palestinesi di qualsiasi provenienza.

Queste tattiche di divisione sono sempre più comuni nella legislazione nazionale. L’unico modo con cui le vittime possono “proteggere” il proprio paese è quello di rifiutarsi di costituire un ulteriore strumento della propria occupazione e oppressione.

Il terzo e ultimo punto da discutere è una citazione dell’autrice stessa: “I cristiani indigeni affermano che le loro radici risalgono a 2000 anni fa, al tempo di Gesù, ma lamentano il fatto di sentirsi talvolta cittadini di seconda classe nello stato ebraico e di vedere loro negato l’accesso ai migliori incarichi nel settore privato e governativo”. Si sentono, talvolta, cittadini di seconda classe? L’autrice deve sapere, com’è noto a un qualsiasi osservatore di media competenza, che i cittadini di Israele non-ebrei si classificano come cittadini di seconda, terza e quarta classe.

Nella gerarchia sociale dello Stato d’Israele, gli ebrei Ashkenaziti costituiscono la prima classe privilegiata, seguiti dai Sefarditi. (Queste due categorie contengono altre sotto-classificazioni e divisioni, ma questo non è l’argomento del mio testo). I Drusi, che hanno prestato servizio nell’esercito e protetto il paese negli ultimi 50 anni, si classificano terzi o quarti; nonostante il loro servizio, sono continuamente sottoposti a discriminazioni in numerosi contesti professionali e sociali e alle loro città non sono allocati gli stessi budget delle città ebraiche.

Che dire dei cristiani, allora? Riusciranno a godere delle stesse condizioni degli ebrei d’Israele? Riusciranno a ritornare ai villaggi da cui sono stati cacciati nel 1948 e negli anni successivi?

Pensiamo al villaggio di Iqrit: nel 1951 la Corte Suprema stabilì che i residenti dei villaggi avrebbero potuto fare ritorno nelle proprie dimore, ma il governo militare escogitò dei pretesti per impedirlo e l’esercito israeliano distrusse l’intero villaggio nello stesso anno.

Presto Israele avrà un Primo Ministro cristiano? O il Capo dello Stato? La storia, la politica e la realtà rispondono con uno schiacciante “no”. Il 20% della popolazione israeliana è non-ebrea, oltre a migliaia di russi, asiatici, africani, sia ebrei che non.

Tuttavia, i discorsi, le politiche e le pratiche nazionali insistono sull’ebraicità dello Stato sopra ogni altra cosa.

Lo Stato non ha interesse per la parità. Ha bisogno di cittadini di seconda classe per essere quello che è.


Rifat Odeh Kassis è il coordinatore generale del gruppo attivista cristiano-palestinese Kairos.

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