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Il Manifesto Dieci anni dopo, è ancora Abu Ammar Nel decimo anniversario dalla morte, tra il popolo palestinese, nonostante le voci critiche e le delusioni, il vecchio leader resta un faro, il solo in grado di tenere unito il mondo politico interno. Gerusalemme, 11 novembre 2014, Nena News «Yasser Arafat per me era come uno slogan con le gambe, teneva viva la questione palestinese, la sua kufiyeh è stata la bandiera del nostro popolo in giro per il mondo ». Morad Laham, 40 anni di Betlemme, sottolinea di non essere un simpatizzante di Fatah, il movimento fondato dal leader palestinese scomparso in questo giorno di 10 anni fa. E non ha condiviso tutte le sue scelte. «Però gli riconosco di essere stato un vero leader aggiunge di aver saputo proporre ai palestinesi una soluzione concreta (del conflitto con Israele, ndr)». Quanto Arafat abbia deciso o potuto decidere negli ultimi anni della sua vita è difficile quantificarlo. Ben poco visto che dal 2001 all’11 novembre 2004 rimase confinato nella Muqata di Ramallah semidistrutta e circondata dai tank israeliani. Molto di più aveva potuto decidere nei 40 anni precedenti. E se il giudizio della storia è parziale, quello dei palestinesi è già pronto, da sempre. Abu Ammar, come Arafat era conosciuto dalla sua gente, ha commesso errori, spesso gravi, ha fallito con gli accordi di Oslo, non era un rivoluzionario e non aveva saputo o voluto scardinare l’ordine petromonarchico che domina il Medio Oriente. Ma, dicono tanti, era un leader che aveva indicato una strada alla sua gente e che aveva saputo tenere insieme il difficile quadro politico palestinese. Oggi lo scontro interno, tra Fatah e Hamas, dilania e affonda le aspirazioni di un intero popolo. Il presidente Abu Mazen vorrebbe spostare la tomba di Arafat, morto da «martire», dalla Muqata a Gerusalemme. Lo ha annunciato ieri inaugurando il museo che porta il nome del leader scomparso. Si continua a parlare della sua morte, del mistero che avvolge la misteriosa e fatale malattia del sangue, mai accertata in via definitiva. Avvelenamento,contaminazione da polonio, come ha fatto sospettare il ritrovamento di tracce di questa sostanza radioattiva sugli abiti? Se ne è parlato tanto negli ultimi anni. Una risposta certa forse non si avrà mai. Per i palestinesi però è già tutto chiaro: è stato ucciso da collaborazionisti di Israele o da qualcuno nel suo entourage. Accuse pesanti, ripetute nel tempo, che oggi però devono lasciare spazio a ciò che la gente dei Territori occupati, i profughi e gli esuli pensano di Arafat e della sua eredità politica. Non è attraverso le gigantografie del leader palestinese, che dominano l’ingresso delle città della Cisgiordania, e dalle commemorazioni ufficiali che si capisce il legame ancora esistente tra Arafat e il suo popolo. Per rendersi conto dell’affinità del leader palestinese con la sua gente occorre girare per i caffè affollati, i mercati popolari, le panetterie. O parlare con i più giovani. Anche quelli legati ad Hamas che ha negato, ancora una volta, a Fatah la possibilità di commemorare il suo leader anche a Gaza. Stavolta il motivo è stata l’assenza delle condizioni di sicurezza dopo gli attentati intimidatori che qualche giorno fa hanno preso di mira auto e abitazioni di alcuni dirigenti di Fatah. Ieri il segretario generaledell’Onu Ban Ki moon ha incaricato una commissione di indagare a Gaza sui bombardamenti israeliani della scorsa estate anche su scuole dell’Unrwa e sui ritrovamenti di razzi di Hamas in istituti delle Nazioni Unite. «Avevo solo dieci anni quando Arafat è morto. A casa mio padre ci chiedeva di fare silenzio quando alla televisione o alla radio trasmettevano un discorso di Abu Ammar. Ci diceva che era il nostro presidente», ricorda Reem Abdul Hadi una studentessa dell’università di Bir Zeit. Un’altra ragazza, Abir, ha un giudizio solo in parte positivo. «Arafat ha commesso l’errore di dare peso alle promesse degli israeliani, ha fatto troppe concessioni afferma però sapeva tenerci tutti uniti». Tareq, un giovane commerciante di Ramallah Tahta, si dichiara un sostenitore di Hamas. «Arafat ci dice si era circondato di corrotti. Era un uomo di fede, avrebbe dovuto credere di più nell’Islam come soluzione e non fidarsi degli americani e degli israeliani». Allo stesso tempo Tareq è convinto che, con Arafat in vita, Fatah e Hamas nonsi sarebbero dati battaglia a Gaza e oggi non sarebbero avversari. «Abu Ammar avrebbe saputo trovare una via d’uscita politica», spiega. «Si possono dire tante cose aggiunge da parte sua Xavier Abu Eid dell’Olp ma il grande merito di Yasser Arafat è stato quello di fare della causa palestinese una questione politica posta sui tavoli delle diplomazie mondiali e non una crisi umanitaria». Senza la storia personale e politica di Yasser Arafat oggi, sottolineano altri palestinesi, Abu Mazen non avrebbe mai potuto proclamare lo Stato di Palestina all’Onu e presentare al Consiglio di Sicurezza una richiesta di pieno riconoscimento di questo Stato. «Abu Ammar ha fallito (con Oslo) ma non per colpa sua afferma Reem Abdul Hadi sono Israele e i suoi alleati che hanno la responsabilità di tutto. È Israele che occupa la nostra terra e non vuole riconoscere i nostri diritti». Proprio in Israele regna il silenzio sul decimo anniversario della morte del leader palestinese. Appena qualche giorno fa a Tel Aviv hanno commemorato il 19esimo anniversario dell’assassinio di Yitzhak Rabin e il nome di Arafat non è stato fatto. Eppure la vicenda del leader palestinese scomparso è legata anche a quella di Rabin con il quale nel 1994 aveva preso il Nobel per la pace. Per gli israeliani, o per gran parte di essi, Arafat è solo un «demonio«, un terrorista che si era finto «pacifista». Tra le poche eccezioni c’è uno dei primi amici israeliani di Arafat, l’anziano giornalista Uri Avnery che nella sua autobiografia ha scritto che Abu Ammar fu uno dei leader mondiali emersi dopo la seconda guerra mondiale, per aver saputo gestire una lotta di liberazione nazionale in condizioni di grande difficoltà. A Israele Arafat concesse molto, ha aggiunto, ma la leadership del suo paese non seppe cogliere l’occasione.
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