Firenze luglio 2014 Secondo Rapporto
I CORPI CIVILI DI PACE E LA PREVENZIONE DEI CONFLITTI ARMATI[1] Relazione di Alberto L’Abate[2] In questa sessione, tramite le relazioni precedenti, abbiamo visto come operano, con la nonviolenza attiva, i Corpi Civili di Pace, ed abbiamo ascoltato esempi molto importanti della loro operatività concreta in aree cruciali di conflitto come Israele-Palestina, Croazia, Colombia, ed anche come, in Germania, in modo molto interessante ed istruttivo, e di esempio per tutti noi, dopo l’ultima guerra, sia stato istituzionalizzato il “Servizio Civile di Pace” che è stato anche alla base di certi interventi, in Iraq con il Gulf Peace Team, ed in Kossovo, con il Balkan Peace Team, con i quali abbiamo avuto occasione di collaborare, in modo molto valido, anche noi. A me resta il compito di chiarire ulteriormente i rapporti tra i Corpi Civili di Pace e la Prevenzione dei conflitti armati, obiettivo questo ultimo sicuramente molto importante da perseguire, anche se sicuramente non facile da raggiungere, come avremo occasione di vedere anche attraverso i nostri tentativi di intervento finalizzati a questo scopo, in particolare in Iraq, prima della prima guerra del Golfo, ed in Kossovo, anche qui prima della guerra. Infatti, con l’aiuto di tante altre persone dei Movimenti Nonviolenti Italiani, ma anche con quello di tante altre organizzazioni internazionali da tempo dedite alla ricerca attiva della pace e della nonviolenza, come l’IFOR (International Felloship of Reconciliation) , la W.R.I (War Resisters International), ed altre, abbiamo avuto due importanti esperienze sia in Iraq che in Kossovo: 1) in Iraq, per cercare di prevenire la prima guerra del golfo, con l’organizzazione, da noi costituita, dei “Volontari di Pace in Medio Oriente”, e la collaborazione del Gulf Peace Team; 2) nel Kossovo, per cercare di prevenire, anche qui senza successo, l’esplodere della guerra, e quando questa è finita, per lavorare per la riconciliazione tra gli ex nemici. Questa attività è stata portata avanti dalla “Campagna Kossovo” della quale facevano parte varie ONG italiane (MIR, MN, Beati i Costruttori di Pace, Agimi-Caritas Idruntina, Tavola Valdese, Pax Christi, ecc. ) con il contributo economico ed operativo anche di qualche Comune italiano, di alcune Regioni (Val D’Aosta, Veneto, Toscana) ed un finanziamento specifico della Campagna per l’Obiezione di Coscienza alle Spese Militari italiana per il progetto “Ambasciata di Pace”. In tutte e due queste esperienze abbiamo potuto trovare modi per la prevenzione delle guerre che non siamo riusciti però a portare a livello operativo. 1) IRAQ Le soluzioni da noi proposte, dopo essere stati nell’area per vari mesi, ed aver avuto moltissimi incontri: con vari ministri ed alti rappresentanti del governo iracheno, con organizzazioni locali ed anche con gente comune del posto, con esperti internazionali intervenuti anche loro con lo stesso scopo (tra questi l’allora Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; Willy Brandt, ex cancelliere tedesco ed allora Presidente dell’Internazionale Socialista; Yasser Arafat, Presidente dell’OLP Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e vari altri che avevano avuto anche incarichi governativi in USA, Svezia, ed in altri paesi); e dopo aver dato vita, in una isola all’interno del fiume che traversa la città di Bagdad, ad un “Campo di Pace” nel quale verranno poi ospitate tutte le delegazioni dei vari paesi venute in Iraq sia per far liberare i loro ostaggi, sia per cercare, insieme con noi, nei vari incontri autogestiti che riuscivamo ad organizzare grazie alla compresenza nello stesso campo, metodi per la prevenzione di quel conflitto. Un momento importante di questa ricerca comune è stata la cerimonia di fine d’anno (si era nel 1990) organizzata dal Gulf Peace Team (con la collaborazione di due dei nostri volontari : Francesco Tullio e Don Giorgio Pratesi) nella Tenda per la Pace proprio al confine tra Iraq ed Arabia Saudita, nel punto in cui, più tardi, avverrà lo sfondamento delle truppe interventiste guidate dagli USA e dall’UK. Durante questa cerimonia il documento elaborato in precedenza al Campo di Pace di Bagdad, verrà messo a punto ulteriormente e controfirmato dai partecipanti all’incontro. Questo prevedeva: 1.1) Il ritiro dell’esercito iracheno dal Kuwait e la sostituzione degli eserciti dei paesi interventisti con veri e propri “Caschi Blu” delle Nazioni Unite (che daranno copertura ufficiale all’intervento solo molto più tardi) ma formati da paesi che non avevano partecipato all’intervento militare precedente (tra questi la Svezia, la Norvegia, l’India, il Giappone, ecc.). Questa proposta era stata fatta dal governo Svedese ed apprezzata dagli iracheni; la proposta approvata all’unanimità durante quella cerimonia aggiungeva a questo progetto la presenza, nel Quwait, accanto ai Caschi Blu (armati) delle Nazioni Unite anche i “Caschi Bianchi” (disarmati) formati dalle tante Organizzazioni che, come le nostre, erano intervenute in quella area con gli stessi nostri scopi e che, come le nostre, facevano parte dell’ECOSOC delle Nazioni Unite. 1.2) L’organizzazione, da parte delle Nazioni Unite, con la partecipazione attiva di tutti i paesi del Medio Oriente (Israele, Palestina, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, ed altri paesi del mondo arabo) di una conferenza internazionale che ascoltasse a fondo le ragioni di ognuno di questi e cercasse, insieme, le soluzioni ai problemi principali dell’area, senza farsi porre divieti da parte di nessuno di questi. In questa conferenza un ruolo non indifferente avrebbe dovuto essere dato anche alle ONG che, come accennato prima, si erano concretamente interessate all’area ed avevano cercato di dar vita a possibili soluzioni pacifiche e nonviolente. 1.3) Altre proposte da noi elaborate, e fatte sapere al governo iracheno, erano: a) la liberazione di tutti gli ostaggi stranieri che erano ancora trattenuti in punti cruciali del territorio per cercare di evitare eventuali bombardamenti, ostaggi che sarebbero stati sostituiti da volontari, come noi, di ONG interessate alla pace, come garanzia di una soluzione pacifica del conflitto; b) dato che avevamo saputo che il rischio di esplosione del conflitto era anche dovuto al fatto che le ambasciate USA e UK del Kuwait erano assediate dall’esercito iracheno, e che le persone ivi asserragliate non avevano più nulla da mangiare, abbiamo proposto che venissero loro portati dei viveri, in particolare sotto forma di frutta fresca, come gesto distensivo di ricerca di un accordo di pace. Il governo iracheno ha accettato le ultime due proposte, organizzando, prima del Natale, presso il Campo di Pace di Bagdad, un grande incontro cui parteciperanno tutti gli ostaggi, tutte le organizzazioni non governative che si erano interessate al problema ancora presenti, ed anche svariati ministri, ex-ministri, capi, o ex capi, di governi di paesi interessati alla pace, e decidendo di liberare tutti gli ostaggi ancora presenti in Iraq. Ed ha inviato viveri alle due ambasciate assediate nel Kuwait, e ci ha fatto capire che se le due proposte precedenti fossero state fatte da una organizzazione credibile come quella delle Nazioni Unite nella figura del suo Segretario Generale, sarebbe stato disponibile ad accettarle. Ma malgrado questi due importanti gesti di distensione da parte del governo di Saddam, e la sua dichiarata disponibilità ad accettare anche le altre due proposte, siamo arrivati alla guerra. Di fronte a questi gesti di distensione i paesi interventisti, invece di accettarne il significato profondo, hanno dichiarato, nelle parole di G. Bush Senior (allora Presidente degli USA), secondo quanto riferito dai giornali : “Hanno liberato tutti gli ostaggi; benissimo, ora possiamo fare la guerra senza problemi!”. Ed il Consiglio di Sicurezza ristretto non ha autorizzato l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, che era stato da noi informato della disponibilità di Saddam ad accettare, o almeno a discutere ed a trattare, le due proposte approvate dai partecipanti alla Tenda per la Pace, a venirne a discutere a Bagdad, facendolo venire solo per ripetere pedissequamente l’ultimatum di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio, altrimenti sarebbe scoppiata la guerra : cosa che è poi avvenuta. Ma dai giornali abbiamo letto che il Segretario Generale della Nazioni Unite di allora, Perez de Cuellar, ed il suo più stretto collaboratore Picco (che essendo amico del Professor Papisca di Padova, con il quale avevamo concordato la nostra strategia di pace, era stato il nostro tramite con il Segretario Generale), si sono pubblicamente lamentati per questa limitazione al ruolo riconosciuto a questa importante carica. Ma questa lamentela è costata, ad ambedue, la non rielezione alla loro carica precedente. Questa disponibilità di Saddam a trattare ci è stata confermata anche da Willy Brandt, che pure era venuto a Bagdad per trovare soluzioni alternative alla guerra, il quale, in un incontro comune, ci ha detto: “Il problema non è Saddam, sono gli americani e gli inglesi che hanno ormai deciso di fare la guerra, e non accettano altre soluzioni!”. 2) KOSSOVO In questo paese il nostro lavoro, portato avanti con tutti i compagni della “Campagna Kossovo”, promossa da Etta Ragusa del Movimento per la Riconciliazione (sezione italiana dell’I.F.O.R,), insieme ad Agimi della Caritas Idruntina, Beati i Costruttori di Pace, Pax Christi, ed alla quale hanno aderito varie altre organizzazioni italiane per la pace (tra queste: il Movimento Nonviolento, e la Tavola Valdese) è durato molto più a lungo, iniziato nel 1992, molto prima della guerra, nella ricerca di appoggiare la lotta nonviolenta degli Albanesi del Kossovo e di trovare soluzioni positive e nonviolente al conflitto in atto, sia, dopo il fallimento di questo tentativo, finita la guerra, per portare avanti un lavoro di riconciliazione tra gli ex nemici e formare personale, di tutti i gruppi etnici coinvolti nel conflitto, a diventare esperto in questo lavoro di formatori alla riconciliazione. Questa ultima attività è stata da noi portata avanti con una equipe internazionale di persone esperte in questo settore (Hildegard Goss-Mayr, dell’Austria, Pat Patfoort, del Belgio, Vaysa Svensoon , della Svezia), sia per un certo numero di operatori dell’OSCE (che ha collaborato con noi all’iniziativa), sia per membri di associazioni che si erano dichiarate interessate a portare avanti questa attività. Questo lavoro ha dato risultati molto positivi tanto che svariati degli allievi continuano a pieno tempo questo lavoro, ed una di loro ha avuto importanti premi internazionali per l’attività portata avanti a Mitrovica, di riconciliazione tra gli abitanti serbi e quelli albanesi. Come accennato la Campagna Kossovo, è stata formata da associazioni nonviolente, ed è nata con il precipuo scopo di appoggiare la lotta nonviolenta degli albanesi kossovari da loro portata avanti per riacquistare le autonomie a carattere statuale, eliminate in costituzionalmente, e con la violenza, da parte del governo Serbo, guidato da Milosevic. Questa lotta era unica in Europa ed estremamente interessante anche per le forme utilizzate, in particolare con l’utilizzazione della tecnica del “governo parallelo”, una delle forme più innovative di quello che viene definito il progetto costruttivo della nonviolenza attiva. Queste lotte si sono sviluppate per lunghi anni in forme varie: con manifestazioni, veglie, marce, digiuni, blocchi stradali, scioperi, anche inventando forme piuttosto originali, come, ad esempio, durante il coprifuoco che impediva alla popolazione di andare per le strade oltre una certa ora della sera, la sbattitura, dai terrazzi e dalle finestre, delle chiavi di casa contro barattoli vuoti o altri strumenti risonanti in modo da dimostrare che gli Albanesi erano i padroni di casa e che i Serbi, o prima o dopo, se ne sarebbero dovuti andare, ed anche con un simbolico funerale durante il quale è stata interrata la tomba della violenza, con l’invito, sottoscritto da moltissime persone del posto, a tutti i popoli della ex-Jugoslavia, ad interrompere i conflitti armati, incipienti, ed a ricorrere alla nonviolenza ed al dialogo per risolvere i problemi dei loro rapporti reciproci. Purtroppo, a parte la collaborazione della nostra Campagna e di altri gruppi analoghi, come Pax Christi dell’Olanda, il Movimento d’Azione Nonviolenta francese, e “Peace Workers” degli USA, i governi Occidentali, con l’eccezione forse di quello Austriaco, non hanno appoggiato per niente queste lotte e queste richieste, tanto che alla fine del 1995, all’inizio del nostro mandato (mio e di mia moglie) come “Ambasciatori di Pace” a Pristina, un kosovaro, noto studioso di storia albanese, amico della nonviolenza, ci ha detto con rimpianto: “Noi stiamo lottando con la nonviolenza da anni, ma la comunità internazionale capisce solo il linguaggio delle armi; perciò, se continua così, e se questa ultima resterà sorda alle nostre istanze, saremo costretti anche noi a prendere le armi, anche se questo, data la disparità di forze tra noi ed i Serbi, rischia di portare alla distruzione del nostro popolo!”. Ed effettivamente la Comunità Internazionale ha cominciato ad interessarsi seriamente dei problemi Kossovo solo dopo l’inizio del conflitto armato tra l’esercito serbo, i suoi paramilitari, ed i soldati albanesi dell’Esercito Federale Jugoslavo che hanno poi dato vita all’U.C.K (Esercito di Liberazione del Kossovo). Anche qui grazie a moltissimi incontri e discussioni con vari ministri, funzionari, ed operatori di base, delle due parti in conflitto, sia del governo serbo, sia di quello albanese considerato clandestino ma operante alla luce del sole, grazie a colloqui con intellettuali che avevano studiato a fondo il problema, ed altri personaggi importanti anche del Montenegro e della Macedonia, e grazie alla osservazione costante della vita quotidiana del popolo, ed all’aiuto di una ricerca simile portata avanti prima di noi dalla Associazione Svedese T.F.F.R (Transnational Foundation for Future and Peace Research),ed allo studio approfondito di tutti i tentativi fatti a livello mondiale per prevenire quel conflitto, con la partecipazione a vari incontri di mediazione tra le parti (Vienna, Ulcin, Bruxelles, Bolzano, Lecce), e grazie ai suggerimenti di una Deputata Europea della Finlandia, durante un incontro del gruppo Verde del Parlamento Europeo di Bruxelles al quale ero stato invitato, la nostra proposta, come soluzione istituzionale, è stata quella di dare al Kossovo uno status simile a quello delle Isole Aland, tra la Svezia e la Finlandia, che pur essendo sia di tradizione che di lingua svedese erano state date, dalla Lega delle Nazioni che aveva preceduto le N.U., alla Finlandia ma concedendo loro una delle forme di autonomia tra le più spinte esistenti nel mondo, a condizione che fossero demilitarizzate e neutrali, ma protette, nella loro autonomia ed indipendenza, da tutti i paesi aderenti alla Lega su citata. Questa proposta era stata accettata sia da tutta la leadership albanese del Kossovo sia da quella serba di opposizione a Milosevic. Un’altra proposta fatta da noi era quella dell’invio, in Kossovo, di Corpi Civili di Pace Europei, ben formati alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, per portare avanti la rottura del muro contro muro che si era formato tra queste due popolazioni, ed avviare un processo di dialogo e di confronto che, a poco a poco, avrebbe potuto portare a migliorare i rapporti reciproci e forse anche a soluzioni istituzionali concordate. Queste soluzioni, da noi proposte, sono state prese in considerazione anche dal nascente Centro Europeo per la Prevenzione dei Conflitti Armati a Bruxelles, cui ero stato invitato, ed al quale ho consegnato la prima bozza del mio lavoro, ma non sono state prese in considerazione dai decisori politici che in un incontro a Rambouillet, che l’autore del lavoro della TFFR ha definito di “Prevenzione della pace e non della guerra”, hanno deciso di portare avanti l’opzione militare. Tranne poi seguire molte delle tesi presentate anni prima dalla TFFR per prevenire la guerra, per porre invece fine alla guerra. E questa non ha sicuramente portato pace in quella zona tuttora martoriata da conflitti etnici non indifferenti. Non sarebbe stato meglio realizzare prima queste soluzioni? 3) RIFLESSIONI Queste due esperienze non sono state inutili. Ci hanno fatto capire che il problema di fondo non è quello di trovare forme di risoluzione pacifica dei conflitti, come si è riusciti a fare in queste due situazioni, e come Galtung è riuscito a fare in molte altre situazioni conflittuali in tutte le parti del mondo. Ed hanno anche fatto capire ad Alex Langer, il Parlamentare Europeo Altoatesino, l’importanza di interventi tipo quello fatto da noi tanto da proporre e fare approvare, dal Parlamento Europeo, una prima mozione a favore della costituzione di Corpi Europei Civili di Pace come strumenti di base per la prevenzione dei conflitti armati. Ma perché la prevenzione dei conflitti armati possa diventare realtà sarebbe necessario si realizzassero almeno alcune condizioni: 3.1. Che la Comunità internazionale desiderasse realmente raggiungere la pace, ed evitare le guerre. Il fatto che i cinque paesi del Consiglio di Sicurezza ristretto delle Nazioni Unite (USA.UK, Russia, Cina, Francia), che sono i paesi, con il loro diritto di veto che impedisce di fare risoluzioni che vadano contro la volontà loro e dei loro alleati, e che hanno, perciò, il maggior potere al mondo per le decisioni di fare le guerre o meno, siano i costruttori e venditori di circa l’80 % delle grandi armi del mondo, mostra chiaramente come il loro interesse per la pace sia molto ridotto, se non addirittura nullo. 3,2. La seconda condizione sarebbe quella che si investisse seriamente i denari necessari per la prevenzione dei conflitti armati senza quella retorica stratosferica che si dà attualmente a questo impegno, ma senza alcun investimento serio. In una conferenza internazionale organizzata dalla ONG di cui faccio parte (IPRI-ReteCCP), con l’aiuto del Master per Operatori Internazionali di Pace della Provincia di Bolzano, è stato detto, da uno dei massimi esperti mondiali su questi temi, che si spende solo 1 € per la prevenzione dei conflitti armati, contro almeno 10.000 € per fare invece le guerre. Questo mostra l’estremo squilibrio che c’è attualmente tra queste due voci. E se si va a vedere bene chi mette questi soldi, e questo impegno, si può notare che questi vengono soprattutto dalle ONG e non dagli Stati. Perciò se ne può dedurre che il superamento di questo squilibrio sia uno dei principali compiti che il movimento per la pace mondiale deve assumersi. 3.3. Dobbiamo inoltre accrescere le competenze professionali nella mediazione e la negoziazione dei conflitti armati, come qualità e come numero di persone impegnate a pieno tempo in questo settore. Attualmente le persone professionalmente preparate che lavorano a pieno tempo a livello internazionale sono pochissime, mentre ne sarebbero necessarie molte di più. Al contrario i professionisti che lavorano nelle Organizzazioni delle Nazioni Unite del settore economico, e spesso non per un vero sviluppo ma solo per quello del capitalismo, sono varie migliaia. 3.4. Contrastare la globalizzazione dei mercati, con una globalizzazione della resistenza nonviolenta di base, come ci ha insegnato Hessel, il padre franco-tedesco degli “indignati”, e di “Occupy Wall Street”. E questo compito non è sicuramente facile perché molto spesso le nostre organizzazioni, invece di guardare a quello che hanno in comune tra di loro guardano solo alle loro reciproche differenze. 3.5. Organizzare, non solo a livello di base, ma anche a quello statuale (quando saremo riusciti a modificare la loro attuale ideologia militaristica in una ideologia ed una pratica pacifista e nonviolenta) questi tipi di strutture di pace: 3.5.1. Un buon sistema di segnalazione precoce del nascere della violenza; 3.5.2. Buone missioni per accertare i fatti e studiare soluzioni pacifiche; 3.5.3. Un buon sistema di diplomazia preventiva e di ambasciate di pace (come quella che abbiamo organizzato in Kossovo); 3.5.4. Dei Corpi Civili di Pace ben formati alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, ed al lavoro di riconciliazione; come quelli che il Parlamento Europeo, con lo stimolo di Alex Langer, ha richiesto ripetutamente; 3.5.5. Un buon e ben preparato sistema di negoziazione e mediazione dei conflitti; 3.5.6. Un buono e ben preparato lavoro di riconciliazione tra ex nemici; 3.5.7. Un buon lavoro di base per l’educazione dei bambini ed anche degli adulti alla pace ed alla nonviolenza; 3.5.8. La creazione di strutture di pace (come i Ministeri per la Pace, o istituzioni di ricerca per la pace e contro la violenza). 4. PRIME CONCLUSIONI Questi obbiettivi non sono certi facili da raggiungere. Per farlo abbiamo bisogno di quella che J.P.Narayan, uno dei principali collaboratori di Gandhi, e capo degli Shanti Sena Indiani (eserciti di pace), chiamava la “rivoluzione totale” (sia della persona umana, che delle strutture economiche, politiche, sociali, culturali, intorno a lei). Secondo il mio parere, ci sono possibilità di raggiungerli sulla base di questi dati di fatto: 4.1. I risultati delle ricerche che mostrano che negli ultimi secoli le rivoluzioni nonviolente hanno avuto successo nel 53% dei casi, contro solo il 26% delle rivoluzioni violente; 4.2. Ma la rivoluzione nonviolenta (come quella studiata e promossa da Sharp per distruggere le tirannie e dar vita a regimi democratici) non può avere risultati positivi se non è integrata da un progetto costruttivo di dar vita ad un modello di sviluppo, completamente diverso da quello attuale, che dovrebbe essere basato sulla solidarietà e la cooperazione (e non sul conflitto ed il mercato), sulle energie dolci e rinnovabili (e non sul nucleare), e su una economia basata sulle produzioni locali. Potremmo chiamare questo un modello socialista di sviluppo, se scartiamo e mettiamo da parte l’esperienza comunista di Stalin, e prendiamo lezione da Marx, Rosa Luxemburg, e Gramsci, ed anche dal socialismo dal volto umano nato durante la Primavera di Praga e distrutto dai carri armati sovietici, ma solo dopo ben 8 mesi di una resistenza nonviolenta, improvvisata, ma meravigliosa. Un tipo di socialismo ricercato anche da J.P. Narayan e dallo stesso Gandhi ma ancora mai realizzato concretamente, sicuramente diverso e ben più valido delle socialdemocrazie europee, che pur cercando un mondo migliore hanno abbandonato l’internazionalismo proletario e si sono fatte imbrigliare dal nazionalismo più bieco e retrivo tanto da dar vita a guerre di tipo nazionalista, come quelle del 15/18, che ricordiamo in questa occasione, che hanno portato morti e distruzioni, e non certo ad un “fiorire dell’essere umano” come quello che sarebbe necessario per avere un mondo migliore e più giusto e pacifico. Ma per non restare nel vago e nell’astratto vorrei riprendere qui alcune cose da me già scritte nel primo rapporto su Sarajevo che fanno riferimento al mio secondo intervento dell’incontro, quello nell’assemblea finale del congresso, in particolare sulla necessità di dar vita ad una nuova Europa, non costruita dall'alto, dalla moneta e del tutto centralizzata ed autoritaria, ma dal basso, dalle tante attività di base che lottano giorno per giorno, in tutti questi paesi, con la nonviolenza, per la prevenzione delle ingiustizie e della violenza, ed in progetti costruttivi contro le energie dure e per la messa in atto di quelle dolci, per una società solidale e cooperativa, per la valorizzazione e la gratuità dei beni comuni, per una economia che risponda ai bisogni delle persone e non del mercato, per un modello di sviluppo dal basso realmente democratico, senza armi e solidale. La mia proposta finale, fatta all’assemblea conclusiva dell’evento, è stata quella di cercare di organizzare, inizialmente a livello europeo ma dopo anche a quello mondiale, una rete bene organizzata di tutte queste esperienze di base alternative, tantissime ed anche molto vitali in molti dei nostri paesi, esperienze però che, se restano isolate l’una con l’altra, non hanno alcuna incidenza politica, ma che se diventano invece le casematte gramsciane, e cioè il nuovo che si costruisce in mezzo al vecchio, e che a poco a poco, integrandosi e crescendo, porta alla fine del vecchio sistema, possono diventare realmente la base di una nuova Europa, e si spera anche di un nuovo mondo, come quello cui si sono ispirati gli organizzatori dell’evento. Questo, secondo me, sarebbe possibile anche mettendo su un progetto europeo di ricerca-intervento che è la materia che ho praticato ed insegnato in tutta la mia vita, e che, unendo teoria e prassi, permette di uscire dalle astrattezze della seconda dando vita ad una realtà che si può definire realmente rivoluzionaria, sia pur nonviolenta, come quella predicata ed attuata, oltre che dalle persone citate nella relazione degli organizzatori, nel nostro paese, da Aldo Capitini e Danilo Dolci. Bibliografia ragionata \ Sui Corpi Civili di Pace in generale vale la pena leggere gli atti del convegno organizzato a Firenze dal Comitato nazionale per la Difesa Nonviolenta intitolato: “Invece delle armi: Obiezione di Coscienza, Difesa Nonviolenta, Corpo Civili di Pace Europeo”, Ediz. FuoriThema, Bologna, 1996. Altre letture utili sono J.M. Muller, Vincere la guerra. Principi e metodi dell’intervento civile, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1999; M. Pignatti Morano, a cura di, Il Peace-Keeping non armato, Quaderni Satyagraha, 2005, dedicato a questo argomento, ed infine, gli atti di altri due convegni, i cui volumi sono stati curati, il primo da M. Cereghini, e S. Saltarelli (Corpi Civili di Pace: giornate di studio. Mediatori dei Conflitti, Operatori di Pace Internazionali, Edizioni Praxis 3, Bolzano, 2011), il secondo da M. Soccio (La prevenzione dei conflitti armati e la formazione dei Corpi Civili di Pace, pubblicato dalla Casa per la Pace di Vicenza, nel 2012, e distribuito dalla Rivista “Azione Nonviolenta”. In quest’ultimo libro Soccio ha fatto una vera e propria storia dei Corpi Civili di Pace, dalla nascita dell’idea alle attività più recenti. Per l’attività specifica dei Corpi Civili di Pace nella apertura del dialogo e la trasformazione dei conflitti si veda anche l’importante libro curato da F. Tullio, Le organizzazioni Non Governative e la trasformazione dei conflitti. Le operazioni di pace negli interventi internazionali, Ediz. Associate, Roma, 2002; e, precedente a questo, curato dallo stesso F. Tullio, anche il volume, Una forza non armata dell’ONU: utopia o necessità?, Casa Editr. Formazione e Lavoro, Roma, 1989. Sull’intervento in Iraq, si veda l’articolo di A. L’Abate,”Guerra del Golfo ed intervento nonviolento”, pubblicato dalla rivista, Pace, Diritti dell’uomo, Diritti dei popoli, anno IV, n.3, 1990, diretta da A. Papisca, dell’ Università di Padova, ed il volumetto, curato da A. L’Abate, e da S. Tartarini su “Volontari di Pace in Medio Oriente: storia e riflessioni su una iniziativa di pace, Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba.), 1993; e più in generale, sulle ragioni della guerra e le sue possibili alternative, G. Salio, Le guerre del Golfo e le ragioni della nonviolenza, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1990. Sulle attività dei Volontari di Pace in Medio Oriente per contrastare l’embargo ai medicinali ed ai cibi di base in Iraq, si veda anche il Video (VHS) da loro curato, su: Iraq. La strage degli innocenti. Sulle lotte nonviolente degli Albanesi Kossovari si vedano i libri :V. Salvoldi, L. Gjergji, Resistenza nonviolenta nella ex-Jugoslavia: dal Kossovo la testimonianza dei protagonisti, EMI, Bologna, 1993; M. Cereghini, Il funerale della violenza: la teoria del conflitto nonviolento ed il caso del Kossovo, ISIG, Gorizia, 2000; e di H. Clark, Civil Resistance in Kosovo, Pluto Press, London, 2000. Sulle attività della Campagna Kossovo in questa regione-stato, si vedano soprattutto : V. Salvoldi, G. Salvoldi, L. Gjergji, Kossovo: un popolo che perdona, EMI, Bologna, 1997; A. L’Abate, a cura di, “Kossovo: conflitto e riconciliazione in un crocevia balcanico”, numero speciale della Rivista, Religioni e Società, n. 29, sett.-dic. 1997; A. L’Abate, Kossovo.Una guerra annunciata. Attività e proposte della diplomazia non ufficiale per prevenire la destabilizzazione dei Balcani, Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba.), 1997, (II ediz., rivista ed ampliata, 1999). Sulle attività della Campagna Kossovo si veda anche il sito: www.reteccp.org, nella “ Biblioteca”, alla voce “Campagna Kossovo”, curato da M. Cucci. Su un incontro di dialogo tra le due parti e le possibili soluzioni al conflitto si vedano anche gli atti del convegno di Lecce, curato da P. Fumarola, G. Martelloni, Il Kossovo tra guerra e soluzioni politiche del conflitto. I care!, Ediz. Sensibili alle foglie, Dogliani (Cn.), 2000. Sui limiti dell’incontro di Rambouillet che avrebbe dovuto trovare soluzioni pacifiche al conflitto, ma ha dato invece il via alla guerra, si veda anche lo studio di G. Scotto, E. Arielli, La guerra del Kosovo: anatomia di un’escalation, Editori Riuniti, Roma, 1999. Sulla prevenzione dei conflitti armati si vedano i libri: D. Dolci, Inventare il futuro, Laterza, Bari, 1968; M.S. Lund, Preventing violent conflicts, U.S. Institute of Peace, Washington, D.C., 1996, Carnegie Commission, Preventing deadly conflicts, New York, 1997; II Ediz, 1998; M. Renner, Ending Violent Conflict, Worldwatch Paper, n. 146, 1999; L. Reychler, T. Paffenholz, a cura di, Peace Building : a field guide, Lynne Rienner Publ., Boulder/London, 2001; P.V. Tongeren, H.V., De Veen, J., Verhoeven, a cura di, Searching for Peace in Europe and Eurasia: An Overview of Conflict Prevention and Peace Building Activities, Lynne Rienner Publishers, Boulder/London, 2002; M.N. Nagler, Per un futuro nonviolento, Ponte alla Grazie, Milano, 2005; J. Galtung, 50 Years, 100 Peace and Conflict Perspectives, Transcend University Press, Basel, 2008; A. L’Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008. Utile anche il mio saggio, “L’Arte della Pace”, di cui una prima versione ridotta si trova nel CD allegato al volume, prima citato, curato da M. Soccio, ed inserito nel libro distribuito da Azione Nonviolenta, mentre il saggio completo è in corso di stampa, dal Centro Gandhi di Pisa, come Quaderno Satyagraha. Sulla rivoluzione nonviolenta, si vedano i libri: N. Desai, Toward a Nonviolent Revolution, Serva Seva Sang Prakastan, Righat, Varanasi, India, 1972; J.P. Narayan, Toward Total Revolution, Popular Prakashan, Bombay, 1978; A. Capitini, Rivoluzione aperta, Parenti, Firenze, 1956; G. Barone, a cura di, Danilo Dolci: una rivoluzione nonviolenta, Terre di Mezzo Edit., Milano, 2007; ed il capitolo, III.3, “Idee per una rivoluzione nonviolenta”, pp. 217-233, nel mio : “Per un futuro senza guerre”, citato. Sul socialismo dal volto umano, e sulla terza via al socialismo attraverso una rivoluzione nonviolenta, alternativa al riformismo occidentale ed alla rivoluzione armata russa, si vedano i due dibattiti organizzati dal Movimento Nonviolento, cui hanno partecipato alcuni dei più noti studiosi italiani, Marxismo e Nonviolenza, Editrice Lanterna, Genova, 1977; Nonviolenza e Marxismo, Libreria Feltrinelli, Milano, 1981; per un riepilogo del dibattito si veda: “Nonviolenza e marxismo nella transizione al socialismo”, cap. III.4, del mio “Per un Futuro senza guerre”, citato, pp. 235-257. Per un aggiornamento del dibattito sulla base di un approfondimento del pensiero di A. Gramsci si vedano A. L’Abate, “Gramsci e la nonviolenza”, e, Rete Nonviolenza Sarda, “La nonviolenza e Gramsci”, ambedue in, Associazione Casa Natale di Gramsci di Ales, Antologia Premio Gramsci: XII Edizione, Editrice Democratica Sarda, Sassari, 2012. Sulla “Primavera di Praga” ed il suo contributo alla nascita di un socialismo dal volto umano si vedano, a cura di Z. Ziynar, A. Dubcek, Che cosa fu la primavera di Praga? Idee e progetto di una riforma politica e sociale, Lacaita Ediz., Manduria, (TA), 1989, riedito recentemente a cura di F. Leoncini, e l’importante testo coordinato da R. Richta, nel quale per la prima volta si parla di “Socialismo dal volto umano” e se ne indicano le basi teoriche-pratiche, Progresso tecnico e società industriale, Jaka Book, Milano, 1977, infine, sempre a cura di F. Leoncini, uno storico dei paesi slavi dell’Università di Venezia, L’Europa del disincanto. Dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo, Rubbettino Edit., Soveria Mannelli (CZ), 2011. Importante anche il progetto per una India socialista elaborato da J.P. Narayan, e sostanzialmente approvato da Gandhi, che si trova nell’antologia gandhiana curata da G. Pontara, intitolata, Teoria e pratica della nonviolenza, edita da Einaudi, nel 1973, e ristampata dal Corriere della Sera, tra i ”Classici del Pensiero Libero”, nel 2010. In questa edizione, nel capitolo dedicato a “Nonviolenza, Socialismo e Stato”, il testo intitolato: “Per una organizzazione dell’India su basi socialiste”, è riportato alle pagg. 118-122. Purtroppo Nehru, diventato il primo ministro dell’India, ha dato vita ad una India basata sulla centralizzazione dell’industria e del potere, invece di seguire queste idee, che vedevano nei villaggi e nelle piccole industrie al loro interno il centro della vita politica del paese. Ma su questo stesso argomento della rivoluzione nonviolenta per dar vita ad una società socialista, ma umana, sulla base del principio di Gramsci dell’importanza della guerra di posizione e della costruzione di “casematte” di una nuova società all’interno della vecchia, per poi, attraverso il loro allargamento e la loro riunione, sostituire definitivamente la società ormai sorpassata (A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, a cura di V. Gerrattana, Einaudi, Torino, 1975, 4 voll., il testo citato è nel vol. II, p. 708) sono importanti gli studi di un pianificatore urbano di fama internazionale, J. Friedmann, sulla costruzione di un nuovo modello di sviluppo, basato sulla partecipazione, la presa di coscienza, e l’organizzazione dal basso della gente comune: di lui si vedano, Pianificazione e dominio pubblico: dalla conoscenza all’azione, Ediz. Dedalo, Bari, 1993; e, Empowerment: verso il potere di tutti. Una politica per lo sviluppo alternativo, Ediz. Quale Vita, Torre dei Nolfi (AQ.), 2004; di particolare interesse è la nuova introduzione a questo volume scritta da J. Friedmann dopo una serie di dibattiti e discussioni, fatte a Firenze, per la presentazione di quel libro: “Rivisitando Empowerment: Principi per uno sviluppo umano”, pubblicato nel 2005 come quaderno, ed allegato al volume precedente. Su questo tema completa il quadro anche il volume della L. Sandercock, Verso Cosmopolis. Città multiculturali e pianificazione urbana, Ediz. Dedalo, Bari, 2004, che presenta moltissimi esempi concreti di iniziative dal basso (soprattutto in America del Sud) che vanno in quella stessa direzione. Per capire l’assurdità dell’attuale modello di sviluppo, basato sul mercato e sullo sfruttamento del lavoro umano e di risorse ormai finite, e la possibilità di uno sviluppo alternativo, basato invece sulla solidarietà e la valorizzazione dei “beni comuni” si vedano anche i libri di R. Petrella, I limiti della competitività, ManifestoLibri, Roma, 1995, e, Una nuova narrazione del mondo, EMI, Bologna, 2006. Ma su questo argomento è importante conoscere anche il pensiero e gli scritti di J.C. Kumarappa, un economista formatosi nelle migliori università degli Stati Uniti e che è diventato uno dei più stretti collaboratori di Gandhi, occupandosi, in particolare, dell’industrializzazione dei villaggi. Egli, già nel 1946 aveva scritto un saggio su una economia “sostenibile”, che lui definiva “permanente”, basata sui principi e la pratiche della nonviolenza, e della pace. Si vedano di lui: Economy of permanence. A quest for social order based on non-violence, All India Village Industries Association, Wardha, C.P., 1946, riedito da Serva Serva Sangh, Prakastan, nel 1984; una buona selezione dei suoi scritti è stata tradotta e pubblicata in Italia dal Centro Gandhi di Pisa, con il titolo, Economia di condivisione: come uscire dalla crisi mondiale, 2011.
Note
[1] Avendo dovuto, durante il convegno, mantenere la relazione entro i 10/15 minuti di tempo, ho dovuto tralasciare elementi importanti per la corretta comprensione del mio pensiero. Approfitto perciò di questa traduzione dall’inglese per illustrare meglio le tesi da me sostenute, [2] L’autore ha fondato il corso di laurea interfacoltà per “Operatori di Pace” all’Università di Firenze, ed insegna on line, attualmente, per l’Università Transcend per la Teoria e la Pratica della Pace, fondata e diretta da Johan Galtung , “Metodologia della Ricerca per la Pace”, in lingua inglese ed italiano.
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