Il Fatto Quotidiano Onu, la triste fine del sogno
Il disastro del mondo è fatto di tre crisi che attanagliano ogni continente: il sangue delle guerre, il crollo della politica (ci sono Paesi non piccoli e non secondari senza governo da mesi o da anni), e la crisi della natura, uno sconvolgimento ambientale che tende a moltiplicarsi. Chi potesse guardare il mondo da fuori, un groviglio di male che ricorda certe narrazioni della Bibbia e certi preannunci dell’Apocalisse, direbbe che solo un “governo del mondo” potrebbe avere, prima ancora della forza, lo sguardo e la volontà per pensare un progetto di azione: infatti hai l’impressione che tutto accada adesso e che tra poco sarà troppo tardi per fermare le violenze della natura, dei terrorismi della frantumazione di mille malavite che si muovono libere da controlli e governi. Al tempo in cui ho iniziato a scrivere queste cose (che però erano illuminate di speranza, perché, dopo la Seconda guerra mondiale, sapevamo che ogni giorno sarebbe stato migliore del precedente) a questo punto avrei scritto due parole che a tanti di noi, giovani di allora, sembravano una formula magica: Nazioni Unite. Erano state il sogno, realizzato, di Franklin Delano Roosevelt, il presidente Usa che ha dato una forte impronta ideale a quella terribile guerra: liberazione, lotta al razzismo, uguaglianza fra popoli e fra cittadini di ciascun popolo. Progettando, e poi realizzando (ma è morto un momento prima) l’Onu, Roosevelt intendeva creare una torre di controllo che avvistasse subito il conflitto e fosse capace di trasformare il pericolo in dibattito e confronto prima dell’esplosione. Ma vedeva, lui che presiedeva il Paese più potente del mondo e con alla Russia comunista vincitore della guerra, la strada verso il governo del mondo. Era come se il mondo sconvolto e le fosse comuni di ogni parte della terra gli avessero preannunciato che non bastano lapidi e dichiarazioni volonterose. Ci vuole uno strumento per guidare il pianeta fuori dal disastro. Esiste a New York, in una piccola isola al centro dell’East River, tra Manhattan e Queen’s, un parco e una grande pietra dedicata a Roosevelt su cui sono incise le parole del suo discorso più bello: “Ciascuno, in ogni Paese e continente, ha diritto di essere libero dalla paura, dal bisogno e dal non sapere” (che vuol dire scuola ma anche libero flusso delle notizie). Il mondo libero era lì, in quel sogno. E il simbolo di quel sogno (che persino Hitchcock ha usato in un suo celebre film) è diventato il “Palazzo di vetro” di New York, che a lungo è sembrato, a noi del dopoguerra, il luogo in cui si sarebbe discussa per sempre la pace. La guerra fredda è calata come una mannaia su quella fiducia, ma neppure la guerra fredda ha avuto la forza di sradicare sogno e progetto. Se ricordate il Krusciov che batte la scarpa sul banco dell’Assemblea generale, avete una immagine della forza del mito “Nazioni Unite”. Se avete visto una immagine di Fidel Castro accampato nell’atrio del Palazzo di vetro con i giovani della sua delegazione (tutti in divisa da guerriglia sulla Sierra) intenti a cuocere un pollo (nessun albergo di Manhattan li aveva accettati, prima dell’hotel Teresa di Harlem) vi rendete conto che il luogo del pellegrinaggio fosse l’Onu e che l’Assemblea generale era il luogo per farsi ascoltare. Castro non aveva ancora deciso per il suo legame con l’Urss, ma nessuno, a nessun livello di governo, aveva voluto incontrarlo a Washington, ordine del vice presidente Nixon. La destra ha avuto subito la vista lunga. Castro come un amico sarebbe stato un problema, con tutte le sue pretese di mettere bocca sui problemi del mondo. Castro come nemico sarebbe stato facile da isolare: un comunista. Castro, purtroppo, ci ha pensato da solo, con la sua polizia, a rendere impossibile il sogno di liberazione di cui era diventato simbolo. Ma l’America di Nixon (ovvero una destra dura e senza scrupoli) aveva dato il primo segnale: isolare e delegittimare le Nazioni Unite. E così ha cominciato a declinare il livello e il prestigio dei Segretari Generali, una sorta di triste scala che scende, dopo l’enigmatico ma autorevole statista birmano U Thant, dopo il mitico personaggio svedese Dag Hammarskjold, ucciso in Africa in una sua arrischiata missione di pace, un delitto forse africano, forse commissionato da una mano bianca. Gradatamente la guerra della destra mondiale contro l’Onu non ha più avuto tregua, sia pure con la complicità di clamorosi errori, sconquassi e debolezze di ciò che avrebbe potuto essere un governo del mondo. Ma un governo del mondo avrebbe dovuto farsi garante delle tre libertà di Roosevelt, cose di sinistra che bisognava togliere di mezzo. Sia Reagan, sia i due Bush hanno scelto i loro ambasciatori alle Nazioni Unite (penso a James Bolton) con la sola missione di screditare ciò che ne resta. E, a partire da Reagan, tutti i presidenti repubblicani si sono vantati di non avere versato il contributo americano (si può immaginare quanto grande) alle Nazioni Unite. Lo scandalo è stato così grande per molti americani, che Ted Turner, fondatore e, a quel tempo, proprietario della Cnn (Anni 90) ha versato all’Onu, di sua iniziativa, una parte dell’immenso debito americano. La passività di tutti i governi dei più importanti paesi del mondo dei leader di opinione, delle organizzazioni di questioni internazionali del mondo, ha impedito la scossa del risveglio e il ritorno alla realtà. Ed eccoci qui, nonostante Obama: affacciati sul vuoto.
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