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January 17, 2014

Gli attivisti di Testimoni Contro la Tortura occupano il Museo Nazionale di Storia Americana e installano una mostra per celebrare Guantanamo
di Ken Butigan

Il Museo Nazionale di Storia Americana a Washington DC, è l'archivio della storia della nazione. Mentre ha messo in luce alcune delle lotte del paese per la giustizia nella sua collezione permanente e nelle mostre temporanee, tra cui un focus occasionale sui movimenti statunitensi per i diritti civili, del lavoro, della disabilità e della pace, molto è stato lasciato fuori. Una omissione è stata la lotta in corso per porre fine alla tortura e il confinamento a tempo indeterminato presso la base navale statunitense di Guantánamo Bay, a Cuba. L'11 gennaio, Testimoni contro la Tortura e altri gruppi hanno cercato di correggere questa mancanza con l'installazione di una mostra temporanea.

Dal 2007, Testimoni Contro la Tortura, o WAT, ha organizzato annuali azioni nonviolente ogni gennaio a Washington per celebrare l'apertura di Guantánamo. Il gruppo chiede di porre fine alla tortura, la chiusura del carcere e la liberazione o un giusto processo per i detenuti. Quest'anno, WAT ha organizzato una settimana di azioni stimolanti che iniziano il 6 gennaio, presso la Corte Suprema, la Union Station e il Kennedy Center for the Performing Arts.

L'11 gennaio, Testimoni Contro la Tortura sono apparsi al museo. Supportati da 150 attivisti che avevano marciato dalla Casa Bianca, e da due striscioni dispiegati ad un balcone blasonato con il messaggio, "Make Guantánamo History", un tableau ormai familiare appariva in fondo all'atrio cavernoso del museo: Uomini e donne in tute arancioni e cappucci neri, l'abito dei detenuti nella prigione statunitense, seduti o in piedi in posizioni di stress. Il curatore di WAT ha introdotto la mostra alle folle di visitatori, e poi una canzone si è lavata attraverso la sala con questo ritornello ricorrente: "Stiamo andando a dire alla nazione/No tortura/No more"

Un "mic- check" in stile Occupy è seguito, con le frasi boom del diffusore ripetute dal assemblato. Con una cadenza quasi liturgica di chiamata e risposta, la storia di Guantánamo, è stato detto: Dopo oltre una dozzina di anni, 155 uomini sono ancora detenuti, 124 non sono mai stati accusati; per 76 è stato dichiarato il rilascio ma sono ancora lì. Il messaggio era chiaro: La nazione deve riconoscere che questo è parte della nostra storia recente, deve vederla come parte della nostra storia e deve essere affrontata.

Un potente doppio significato era inequivocabile. Per "fare che Guantánamo diventi storia" portando la sua violenza verso la luce, per illuminare il fatto che si tratta di un aspetto costante della politica americana che non deve essere ignorato ne dimenticato, ma visto chiaramente per quello che è. In breve, riconoscere che è parte della nostra storia. Ma "fare di questa politica, storia", naturalmente, significa anche porre fine a questa politica, relegandola nel passato una volta per tutte.

Questo doppio significato è stato anche trasmesso nella seconda parte della mostra di WAT, "il prezzo della libertà: gli americani in guerra" che è stata messa in scena allo stesso tempo al terzo piano del museo. Come spiegato dagli organizzatori, l'intenzione era "di rivedere questa mostra per includervi dodici anni di tortura e detenzione a tempo indeterminato quale amaro costo dell’errata poitica degli Stati Uniti per la sicurezza nazionale. In un coro avvolgente in piena espansione, i membri di WAT e altri gruppi hanno letto una dichiarazione che si è chiusa con le frasi: "per onorare la libertà e la giustizia e le lotte degli americani per questi valori, dobbiamo porre fine alla tortura, chiudere la prigione di Guantanamo e fare la storia"

Mentre il curatore di WAT, Carmen Trotta, parlava, una guardia di sicurezza si è precipitata sui partecipanti strappandogli i cappucci. Infine la sicurezza ha iniziato la chiusura della mostra e lo spostamento delle persone al piano di sotto.

Poi è successo l'inaspettato.

E’ apparso l’agente di polizia capo della sicurezza e dei Parchi Nazionali. Invece di disperdere gli attivisti e arrestarli, come previsto, hanno discusso la situazione con Trotta. Dicendo che il gruppo potrebbe rimanere fino all'orario di chiusura, circa quattro ore dopo, se accettavano di lasciare il museo in pace, potevano rimanenre per rispondere alle domande dei visitatori! C'è un video potente di questo scambio, e la faccia di Carmen è un misto di incredulità e di gratitudine. Ha subito accettato le condizioni e stretto la mano agli agenti. La mostra procedette fino alla chiusura.

E' facile immaginare che il risultato andasse in modo molto diverso. Il fatto che l'azione del WAT abbia potuto continuare è probabilmente dovuto ad un mix di fattori, tra cui la decisa ma non violenta presenza dei partecipanti, il più grande gruppo di sostenitori, e il calcolo che al museo convenisse accogliere questa "nuova mostra temporanea", piuttosto che sfrattarla. Ma forse il museo ha lasciato che la performance contiunasse perché ha riconosciuto che il dramma presentato da WAT è un esempio che documenta una cosa che esiste realmente. Il dissenso aveva trovato la sua strada, e il museo un modo per riconoscerlo e perfino accoglierlo. Chi lo sa, un giorno potrebbe esserci una mostra permanente di WAT contro la tortura.

Marie Shebeck, la mia collega di Pace e Bene Nonviolence Service, ha partecipato attivamente a questa settimana di azione. Lei si è spostato dalla democrazia partecipativa alla performance, dove sono state valutate le idee di tutti e l’azioni è cresciutaa organicamente di questa condivisione. Questo processo inclusivo andato costruendosi per Il Testimone al Museo, con il suo design, come Marie ha detto, "per portare le storie degli uomini nello spazio pubblico. Abbiamo scelto questo museo perché è lì che la gente va a conoscere la storia americana, ma di Guantánamo non se ne parla lì. Volevamo fare qualcosa di creativo, con canti, immagini mic-check-. Per aiutare la realtà di Guantánamo a far parte della cultura americana"

Testimoni Contro la Tortura e, in modo inatteso, il Museo Nazionale di Storia , hanno fatto un passo in questa direzione il 11 gennaio.


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January 17, 2014

Activists of Witness Against Torture occupy national museum of american history and install torture exhibit to mark guantánamo anniversari
By Ken Butigan

The National Museum of American History in Washington, D.C., is the repository of the nation’s story. While it has spotlighted some of the country’s struggles for justice in its permanent collection and temporary exhibits — including an occasional focus on U.S. movements for civil rights, labor, disabilities and peace — much has been left out. One omission has been the ongoing struggle to end torture and indefinite confinement at the U.S. Naval base at Guantánamo Bay, Cuba. On January 11, Witness Against Torture and other groups sought to correct this by installing a temporary exhibit of its own.

Since 2007, Witness Against Torture, or WAT, has organized annual nonviolent actions every January in Washington to mark the opening of Guantánamo. The group calls for an end to torture, the closure of the prison and the release of or due process for the inmates there. This year, WAT organized a week of thought provoking actions beginning January 6, including at the Supreme Court, Union Station and the Kennedy Center for the Performing Arts.

On January 11, Witness Against Torture appeared at the museum. Supported by 150 activists who had marched from the White House — and by two banners unfurling from an upper balcony emblazoned with the message, “Make Guantánamo History” — a now-familiar tableau appeared at the far end of the museum’s cavernous atrium: Men and women in orange jumpsuits and black hoods, the garb of the detainees held at the U.S. prison, sitting or standing in stress positions. The WAT curator introduced the exhibit to the throngs of visitors, and then a song washed through the hall with this recurring refrain: “We’re going to tell the nation/No torture/No more.”

An Occupy-style “mic-check” ensued, with the booming phrases of the speaker repeated by the assembled. With an almost liturgical call-and-response cadence, the story of Guantánamo was told: After over a dozen years, 155 men are still being held; 124 have never been charged; 76 have been cleared for release and are still there. The message was clear: The nation must recognize that this is part of our recent history, must see it as part of our story and must be addressed.

A powerful double meaning was unmistakable. To “make Guantánamo history” involves bringing its violence into the light — to illuminate that it is an ongoing aspect of U.S. policy that must not be ignored or forgotten but seen clearly for what it is. In short, to recognize that it is part of our history. But “making this policy history,” of course, also means ending this policy — relegating it to the past once and for all.

This double meaning was also conveyed in the second part of WAT’s exhibition, which was staged at the same time in front of the “Price of Freedom: Americans at War” exhibit on the museum’s third floor. As organizers explained, the intention was “to revise this exhibit to include twelve years of torture and indefinite detention as the bitter cost of the United States’ misguided pursuit of ‘national security.’ In a booming chorus, members of Witness Against Torture and other groups read from a statement that closed with the lines: ‘To honor freedom and justice and the struggles of Americans for these things, we must end torture, close the prison and make Guantánamo history.’”

While WAT curator Carmen Trotta spoke, a security guard rushed up and yanked the hoods from the participants. Security began closing down the exhibit and moving people downstairs.

Then the unexpected happened.

The head of security and a National Parks Police officer appeared. Rather than dispersing the WAT people — and, as expected, arresting them — they discussed the situation with Trotta. They said the group could stay until closing time, some four hours later, as long as they agreed to leave when the museum closed, remain peaceful — and would answer the questions of visitors! There is a powerful video of this exchange, and Carmen’s face is a mixture of disbelief and gratitude. He immediately agreed to the conditions and he shook hands with the men. The exhibit proceeded until the museum closed.

It is easy to imagine the outcome going very differently. The fact that WAT’s action was allowed to continue was likely due to a mix of factors, including the determined but nonviolent presence of the participants; the larger group of supporters; and a calculation that the decorum of the museum was more likely to be maintained by accommodating this “new temporary exhibit” than by evicting it. But perhaps the museum let this play out because it recognized that WAT’s drama is an example of the very thing it exists to document. Dissent had made its way into the museum itself, and the facility ultimately found a way to recognize and even welcome it. Who knows — a permanent exhibit might open on Witness Against Torture one day.

Marie Shebeck, my colleague at Pace e Bene Nonviolence Service, actively participated in this week of action. She was moved by the participatory democracy on display, where everyone’s ideas were valued and the actions grew organically out of this sharing. This inclusive process went into building the witness at the museum, with its design, as Marie put it, “to bring the men’s stories into the public space. We chose this museum because that’s where people go to learn about American history, but Guantánamo is not talked about there. We wanted to do something creative — with songs, visuals and a mic-check — to help the reality of Guantánamo to become part of American culture.”

Witness Against Torture — and, in an unexpected way, the National Museum of American History — took a step in this direction on January 11.

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