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9/10/2014

I dubbi della Turchia di fronte all’attacco a Kobane
di Andrea Prada Bianchi

I miliziani sono sul confine, ma Ankara spera ancora di poterli usare per far cadere Assad

La battaglia di Kobane potrebbe finire molto presto. I combattenti dell’Isis hanno conquistato un terzo della città e ormai si combatte in strada. Kobane, la terza città curda della Siria, è un campo di battaglia, un luogo disabitato da dove la popolazione ha iniziato a fuggire già da molto tempo. Gli jihadisti del califfato hanno avviato la loro avanzata a metà settembre. All’inizio di ottobre è cominciato l’assedio. Da quel momento sono scappati circa 172 mila curdi, rifugiatisi nei campi profughi della vicina Turchia, e sono morte oltre 400 persone (dati dell’Osservatorio siriano per i diritti umani). In città, a combattere, sono rimaste poche centinaia di miliziani: se l’Isis riuscisse a conquistarla, la battaglia potrebbe finire in un vero e proprio massacro. Non solo: gli uomini di al-Baghdadi si garantirebbero una roccaforte da dove poter controllare una vasta parte del territorio a Nord della Siria.

Il livello di violenza tra gli jihadisti dell’Isis e i curdi, sia in Iraq che in Siria, ha raggiunto uno stadio impressionante. Il 30 settembre gli uomini del Califfo hanno decapitato quattro miliziani curdi, di cui tre donne, fatti prigionieri nei combattimenti vicino a Kobane. Il 7 ottobre una militante curda si è fatta esplodere tra gli assedianti, causando diversi morti. La protagonista, riportano i siti legati alla resistenza curda, si chiamava Arin Mirkin ed era una giovane donna, madre di due figli. È descritta come un'eroina al comando di un'unità femminile, è riuscita a uccidere in battaglia 15 jihadisti e a distruggere un mezzo corazzato, prima di farsi saltare in aria dopo aver finito le munizioni.

Sono anni che la città, di importanza strategica per la sua posizione nell’area, resiste agli attacchi delle varie fazioni islamiste che si contendono il controllo della zona. Ma dopo la sua espansione in Iraq, l’Isis ha potenziato il suo arsenale e - grazie al supporto di armi pesanti -  è riuscito a piegare la resistenza curda. La quale, a differenza dei peshmerga iracheni, non può contare sul rifornimento di armi e di viveri fornito dalla coalizione internazionale.

Sembra che i raid Usa degli ultimi giorni, nonostante la frequenza dei bombardamenti sulle posizioni degli assedianti, non abbiano avuto molto effetto. Il Pentagono ha ammesso che gli attacchi dall’alto hanno un’efficacia limitata senza un appoggio da terra, che dovrebbe arrivare dal Free Syrian Army (le milizie moderate dell’opposizione siriana appoggiate dagli Usa). Questo fronte terrestre, tuttavia, è praticamente impotente. Fin dalla proclamazione della guerra all’Isis, Obama ha dichiarato di voler appoggiare e addestrare queste truppe, pur sapendo che erano ormai sfiancate dalla resistenza ad Assad e dai combattimenti con gruppi jihadisti vari, da quelli affiliati ad Al Qaeda a quelli dello Stato Islamico. Il presidente è ben consapevole delle condizioni critiche in cui versano queste milizie, ma si era trovato costretto a offrire un piano accettabile all’opinione pubblica. Ora però è chiaro che l’avanzata terrestre dell’Isis difficilmente si può fermare solo dall’aria. E si manifesta l’isolamento delle forze curde sul campo. All’inizio della campagna della coalizione Usa, i raid aerei non si erano concentrati sulla regione di Kobane. Ma dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, i vertici del Pentagono si sono resi conto dell’importanza vitale di questa città di confine, e hanno intensificato i bombardamenti sugli assedianti.

«Penso che tutti comprendiamo che ci sia la possibilità che Kobane possa essere presa. Lo riconosciamo», ha dichiarato un ammiraglio del Pentagono, John Kirby, alla rivista Foreign Policy «stiamo facendo tutto il possibile dall’aria per provare a fermare l’attacco dello Stato Islamico alla città, ma la potenza aerea non basterà da sola a salvare Kobane. Dobbiamo tutti prepararci al fatto che altre città e villaggi saranno presi dall’Isis». E conclude con un’ammissione che forse sarebbe dovuta arrivare dal governo americano tempo addietro: «Riconosco che ci sono combattenti (i curdi, ndr), e che sono coraggiosi, e ci rendiamo conto dei sacrifici che stanno facendo, ma noi non abbiamo una forza all’interno della Siria che possa cooperare e lavorare con loro».

Ankara blocca i curdi turchi

I curdi siriani non possono contare su nessun aiuto esterno, per ora, nemmeno sui curdi turchi che a pochi chilometri dalla città tentano di passare il confine per andare in soccorso dei loro compagni. La Turchia, spaventata dall’avanzata dell’Isis verso il suo territorio, il 22 settembre ha chiuso il proprio confine con la Siria, sia in entrata che in uscita. In questo modo chi vuole rifugiarsi in Turchia non può più farlo, e i miliziani curdi che vorrebbero andare in sostegno a Kobane vengono fermati. Questa politica ha creato una tensione altissima su tutto il confine e nelle città turche, dove l’esercito e la polizia hanno represso con la forza i tentativi dei manifestanti di passare la frontiera. Ad Ankara, Istanbul e in altre città della Turchia ci sono stati violenti scontri tra polizia e manifestanti curdi, che hanno provocato, ad ora, 21 morti.

L’unica possibilità adesso per la città è un intervento turco o della Nato, che potrebbe arrivare solo con il consenso della Turchia. Il 3 ottobre il Parlamento di Ankara ha dato il via libera a operazioni militari contro lo Stato Islamico, dopo mesi di neutralità causata anche dalla presenza di cinquanta ostaggi turchi nelle mani dell’Isis, ora rimpatriati. Per adesso, però, Erdogan non ha fatto altro che schierare uomini e carri armati sul suo confine, da dove osservano la situazione a Kobane senza sparare un colpo. Ankara avverte gli alleati: un intervento terrestre è necessario, ma serve un appoggio militare effettivo da parte della coalizione. Inoltre, pone due condizioni: l’istituzione di una no fly-zone in Siria l’impegno Usa per la futura rimozione del presidente siriano Bashar al Assad.

Ci sono almeno due motivi per cui la Turchia si sta comportando in questo modo. Innanzitutto, la rivalità storica con la minoranza curda guidata dal Pkk (considerato gruppo terroristico da Ankara). È probabile che Erdogan stia chiudendo entrambi gli occhi sulla battaglia di Kobane per indebolire il più possibile i curdi siriani, alleati con il Pkk. Questo spiega anche perché la Turchia non solo non stia intervenendo con il suo esercito, ma non stia nemmeno consentendo ai miliziani del Pkk di entrare in Siria a combattere contro Isis. 

In secondo luogo c’è la questione con il regime siriano di Assad, forse la ragione più importante. La Turchia ha sempre osteggiato il regime di Damasco, appoggiando attivamente l’opposizione siriana durante e dopo la primavera araba. Ora vede nell’Isis lo strumento principale per indebolire le forze di Assad, e va contro i suoi interessi contrastare al-Baghdadi. Per ora. Perché la presa di Kobane da parte degli jihadisti potrebbe cambiare gli assetti della regione in maniera tale da costituire una minaccia anche per la Turchia stessa.

Secondo Andrea Carati, ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Milano e collaboratore dell’Ispi, «L’obiettivo ultimo della Turchia è sconfiggere Assad, il suo nemico storico». E solo attraverso questa lente bisognerà interpretare le future scelte militari turche. «La questione più aperta è la modalità con cui la Turchia potrebbe intervenire», continua Carati. «Se l’intenzione è di farlo in modo unilaterale o se l’intenzione è di coinvolgere la Nato. Io credo che se lo facesse unilateralmente potrebbe avere dei problemi con gli Stati Uniti, però credo che rispetto all’opzione Nato sia la Turchia la strada più percorribile, perché non penso che la Nato seguirebbe Erdogan in un avventura in Siria». Le recenti dichiarazioni del neo-segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sembrano confermare questa idea: «L'ipotesi di una zona cuscinetto nel nord della Siria non è ancora nell'agenda della Nato, non è una questione attualmente in discussione».

Nonostante la Turchia abbia chiesto aiuto alla Nato, bisogna tenere presente che la cosa non significa nulla: è già avvenuto altre volte in passato e non ha ottenuto niente. Alla fine ha fatto comunque da sola. Una degenerazione della situazione siriana potrebbe modificare quelle che Ankara considera le sue priorità. «Se lo Stato Islamico dovesse conquistare Kobane conquisterebbe tutta una larga fascia che arriva fino ad Aleppo, e renderebbe la minaccia particolarmente grave, significativamente maggiore di quella delle scorse settimane» continua Carati. «Si dovrà poi vedere quali saranno le intenzioni del Califfato una volta conquistato questo asset geopolitico. A quel punto, però, una nuova politica da parte della Turchia bisogna aspettarsela, fosse anche attendista. L’interesse turco è che in queste settimane si indebolisca il più possibile il fronte curdo indipendentista. Si può cercare di indebolire il Kurdistan iracheno e siriano, ma si rischia di aumentare l’iniziativa dei curdi sul piano interno. La Turchia è di fronte a un dilemma. Può lasciare che i curdi subiscano gli attacchi dello Stato Islamico, però questo finirebbe per creare una situazione in cui il ruolo dei curdi in Turchia si accresce in maniera esattamente proporzionale a quanto Erdogan abbandona la Siria».


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