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Un “uomo forte” per la Libia? Il generale ribelle che fa la guerra agli islamisti di Bengasi
Un ex ufficiale dell'esercito, Khalifa Hiftar, lancia un attacco contro alcune bande di jihadisti della Cirenaica. Il governo centrale assiste impotente
Se gli sbarchi verso l’Italia, nei primi mesi dell’anno, sono cresciuti dell’823 per cento rispetto al 2013, il primo motivo è questo: la Libia è in mano al caos, non c’è un potere riconosciuto, circolano tantissime armi, ma non esiste un esercito nazionale, solo una serie di brigate che rispondono unicamente al loro leader. Dal caos potrebbe uscire l’uomo forte, una sorta di generale al Sisi libico, in grado di mettere ordine usando il pugno di ferro. Khalifa Hiftar è convinto di essere quell’uomo forte. Ieri mattina ha ordinato un assalto a Bengasi contro le sedi delle milizie islamiste 17 febbraio, Rafalla al Sahati e Ansar al Sharia. Quest’ultimo gruppo è accusato dagli americani di avere organizzato l’assalto al consolato, che, proprio nel capoluogo della Cirenaica, portò alla morte dell’ambasciatore Christopher Stevens e di altri tre connazionali, l’11 settembre del 2012. Negli scontri di ieri sono morti non meno di 43 miliziani. Il problema è che Hiftar non rappresenta nessuno, è solo un generale in pensione. Ha guidato l’esercito libico nella guerra contro il Ciad, negli anni Ottanta. Poi ha disertato, fuggendo negli Stati Uniti, ed è rientrato in patria allo scoppio della rivoluzione. Adesso, però, non ricopre alcuna carica. Quello che è successo ieri a Bengasi fotografa benissimo lo stato attuale della Libia: scene di guerra, bombardamenti aerei lanciati all’alba, carri armati, 6000 soldati che convergono sulla città attaccando basi fondamentaliste e checkpoint. Al tempo stesso, però, questa operazione, che ha ottenuto l’appoggio di una parte consistente delle forze armate, non ha il crisma dell’ufficialità. Dietro non c’è il governo (peraltro impegnato nell’ennesima fase di passaggio da un premier a un altro). Il capo di Stato maggiore dell’esercito, Abdel-Salam Gadallah al Obeidi, ha chiamato Hiftar «un criminale» e ha ordinato ai soldati di ritirarsi. Il generale parla da comandante in capo: «Dobbiamo ripulire Bengasi dalle milizie islamiste e restaurare la dignità della Libia. Tutti i riservisti sono mobilitati. Se falliamo oggi, il terrorismo vincerà». Già a febbraio Hiftar aveva tentato di forzare la situazione, con un maldestro golpe televisivo. Si era presentato davanti alle telecamere annunciando la sospensione del parlamento e del governo, e l’istituzione di un esecutivo di transizione, punti qualificanti di un programma che aveva già proposto nel luglio 2013. («Bisogna sciogliere tutte le istituzioni, dichiarare lo stato di emergenza e sbarazzarsi delle milizie una volta per tutte»). Il progetto era svanito, ma il generale non era stato neppure arrestato, segno evidente dell’assenza di un’autorità centrale. Le voci di una soluzione egiziana alla crisi si rincorrono da mesi (e c’è chi sostiene che Hiftar sia sostenuto dallo stesso al Sisi, capo del governo transitorio al Cairo). Del resto, la Libia è sempre più vicina a diventare un’altra Somalia, un failed State, e una «Woodstock del terrorismo», come è stata recentemente definita da un contractor di Washington. La jihad ha trovato terreno fertile, soprattutto ad Est, omicidi politici e sequestri sono cronaca quotidiana. Martedì è stato liberato l’ambasciatore giordano, in cambio del rilascio di uno jihadista libico detenuto ad Amman. Gli americani sono sempre più preoccupati da questa deriva. Due giorni fa, per esigenze di pronto intervento, Washington ha deciso di spostare nella base di Sigonella, in Sicilia, 180 marine, appoggiati da elicotteri ed aerei da trasporto. C’è chi ha sottolineato le coincidenze cronologiche, dal momento che Hiftar è sempre stato considerato piuttosto vicino alla Cia.
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